Le pagine che seguono sono un approfondimento delle riflessioni appena abbozzate in occasione di un seminario di studi rivolto ai Dottorandi di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia della Società e delle Istituzioni (della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano). Il tema proposto, e certo non esaurito, era quello dell’identità dello storico nel clima mutato del XXI secolo, un tema imponente per dimensioni, profondità e coinvolgimento, ampiamente dibattuto sul versante della filosofia della storia, della metodologia storica, della storia della storiografia e dell’antropologia storica. Un argomento che pertanto può essere affrontato (e certo non risolto) da una pluralità di approcci disciplinari i quali, pur non consentendo un alto grado di sistematicità e una omogeneità di linguaggio, rinviano subito al significato di ciò che chiamiamo storia e al territorio che la ospita: il tempo storico.***
Identità e crisi di identità – una “storia” della crisi – la storia della storia. Le dimensioni del tempo – fine della storia e oltre – l’incidente inatteso – sapere inutile e nuovi saperi – storia e storie – nuovi orizzonti, nuovi territori – civiltà, evoluzione dell’umanità, civiltà materiale – aperture, complessità, profondità.
Identità e crisi di identità
[…] L’idea di dedicare uno dei nostri periodici incontri alla riflessione comune sull’identità dello storico contemporaneo e cioè sulla definizione di un senso del suo ruolo pubblico e sociale (quindi politico e morale) nonché di quello professionale in quanto attore di un ordine del sapere un tempo centrale all’architettura culturale del pensiero e dell’esperienza, mi pare del tutto appropriata nell’ora di avvio del XXI secolo. Si tratta infatti, a mio parere e almeno per un istante, di violare i reticolati del ghetto accademico-disciplinare e guardare oltre i confini di quegli orti conchiusi e artificialmente protetti che i processi di integrazione-frantumazione in atto rischiano di rendere progressivamente sterili. Si tratta insomma di prendere atto del fatto che le cose, così come stanno, non vanno del tutto bene, che vi è disagio a praticare la Storia, a comunicarla e soprattutto a guidare chi la pratica; e si tratta soprattutto di non nasconderci il fatto che, al di là delle procedure e metodologie consolidate di scomposizione, ricomposizione e narrazione del tempo, l’universo che si offre all’osservazione dello storico appare confuso, incerto e misterioso sino a svelare un “lontano abbandono dell’essere” (Heidegger).
La nostra discussione dovrebbe proprio cominciare da qui: dal senso di una progressiva lontananza dall’oggetto dei nostri studi e dall’idea della crisi. Perché, questo è ovvio, interrogarsi sull’identità implica automaticamente una crisi di identità, quasi ne certifica la perdita (o il rischio di perderla) e, più in generale, denuncia una incertezza del senso, che apre la porta al vuoto e alla de-moralizzazione (Jonas). Sono questi peraltro gli stati d’animo e il comune sentire che caratterizzano il nostro tempo, quel nuovo corso della storia definito da molte voci “l’età del vuoto” (Lipovetsky). Il Quarto regno, garante di un definitivo potere dell’uomo, profetizzato da Daniele, sarebbe dunque infine giunto per mostrarci un mondo (e un uomo) definitivamente realizzato che coincide con il collasso temporale e con la dissoluzione dell’uomo moderno (Cioran, Baudrillard, Tourenne, Morin, Giddens).
Da questo punto di vista, dal punto di vista della crisi di identità culturale, la condizione dello storico contemporaneo (ma più in generale dello storico e del sapere storico) ben poco diverge da quella dei suoi colleghi umanisti (filosofi, antropologi, letterati, linguisti, pedagogisti, ma anche economisti, sociologi, psicologi). Naturalmente lo storico, manipolatore del tempo, più di ogni altro si trova in prima linea, ma “l’età del presente” (Kierkegaard) nella quale viviamo è per sua natura cosmopolita e offre cittadinanza alla crisi di tutti i saperi umanistici vittime del decomporsi dell’ordine enciclopedico e dello sfogliarsi dell’albero del sapere nella sua, un tempo, robusta e rassicurante gerarchia.
Una “storia” della crisi
Quel che rende più forte il peso della crisi (cioè di incertezza del senso e quindi di identità) nella percezione degli storici e del sapere storico è forse il fatto che proprio gli storici sanno o dovrebbero sapere che la cultura occidentale si confronta con questa crisi di identità, questo abbandono, de-moralizzazione, vuoto, dissoluzione temporale da ormai più di un secolo. Dagli anni settanta dell’Ottocento e fino a tutti gli anni settanta del Novecento, il tema della crisi è all’ordine del giorno della cultura occidentale, ne fa il tono e persino la struttura profonda che per questo ha tratti millenaristi e apocalittici. La crisi ha dunque una sua storia e questa storia è quella della crisi della modernità. Questa storia i contemporaneisti (per i quali il big bang principia con la prima industrializzazione) forse non sono in grado di raccontarla per intero, ma ne sono figli primogeniti e la percepiscono nel profondo forse più di tutti gli umanisti di ogni ordine e grado. L’identità dello storico deve perciò confrontarsi, in prima istanza e senza mediazioni, con la storia della crisi della modernità o se si preferisce dell’età contemporanea.
E’ una storia nota agli storici del pensiero e ormai raccontata in mille versioni e varianti sulla quale è inutile, almeno tra noi, spendere righe o parole. Ce ne stiamo occupando tutti, da attori e testimoni, e personalmente mi sono esercitato in più occasioni sull’argomento. Quel che mette conto di ricordare non è tanto la natura e verità della crisi, quanto la sua dinamica, la sua storia appunto e il suo esito finale: 1860-1890 critica della modernità e crisi del pensiero storico (Baudelaire, Nietzsche); 1890-1910 crisi della scienza, dell’idea del progresso e della scientificità della storia (Freud, Husserl, Heidegger, ma anche Dilthey, Simmel, Spengler, solo per citare); 1910-1930 crisi dell’idea di Europa (prima e dopo Spengler la letteratura declinista è sovrabbondante); 1930-1950 crisi della democrazia (cioè del politico) (Valery, Camus, Aron, Lukacs, Arendt); 1950-1970 crisi delle ideologie quindi della mitologia e della magia operativa realizzata dagli storici (sotto il profilo filosofico e sociologico la letteratura del post-moderno è praticamente inesauribile), 1970-1989 bilancio finale della crisi. Un bilancio che, per quanto ci riguarda, è pesante.
Infatti, anche se gli storici si sono sempre tenuti a debita distanza dal dibattito sul significato e il senso della storia e della storiografia, sanno che il cuore stesso della critica alla modernità (detto altrimenti della “crisi dell’età contemporanea”), il suo vero campo di battaglia è stato proprio il sapere storico: in particolare la progressiva demolizione della storiografia romantica prima, dello storicismo e del positivismo storico poi. Sotto il profilo accademico-disciplinare il sapere storico (certo uno dei più tardivi ad essere riconosciuti nell’albero istituzionale) vede la sua nascita nel 1810-1812 con l’istituzione delle prime due cattedre di storia (rispettivamente a Berlino e Parigi) per cadere sotto l’offensiva nietscheana nel 1879 e raccogliere la sua sentenza di morte nel 1922 (Troeltsch) in perfetta contemporaneità (e contestualità) con le fasi complessive della critica alla modernità. Insomma, crisi dello storicismo (inteso come impegno alla universalizzazione del sapere storico) uguale a crisi della modernità proprio perché alla storia era stato affidato il compito di celebrare-organizzare il processo di laicizzazione e con questo quello di autoaffermazione dell’uomo e della cultura generate dalla modernità stessa.
Un bilancio che propone all’apparenza una via senza uscita: il progetto antropologico a base storica elaborato dalla cultura della modernità (Sant’Agositno, Pico della Mirandola, Petrarca, Machiavelli, Montaigne, Bacone … nomi che cito a caso solo per fissare una linea del tempo) sembra esaurito o addirittura male impostato; a fronte delle tre deflagrazioni, dei tre ordigni esplosivi del XX secolo (la bomba atomica, la bomba genetica e quella informatica), l’emergenza umanistica sembra essersi persa lungo quel cammino “storico” che ha voluto percorrere. Insomma il soggetto implode sotto il peso dei suoi stessi obiettivi (Tourenne, Giddens): all’attuale livello di potenza consentito dalle tecnologie, l’uomo moderno, centro di tutto l’universo, attore privilegiato della creazione e ordinatore del mondo (vir virtutis, philosophe e poi citoyen), pare caricato di responsabilità alle quali non è in grado di fare fronte. L’esito finale della crescita morale, politica, sociale dell’uomo-humanitas che ha caratterizzato il processo di “innalzamento della storia” operato dalla modernità, altro non sarebbe che l’arcipelago gulag di un individualismo possessivo e narcisistico fluttuante in un mare agitato da ignote correnti (Virilio). E’ quel mare del vuoto che le tendenze nichiliste ed esistenzialiste si impegnano a scandagliare da circa un secolo. Un bilancio in conclusione senza via d’uscita e una crisi perpetua di identità: la storia sarebbe finita perché è venuto meno il soggetto del racconto da un lato (l’uomo moderno) e il narratore della sua vicenda (lo storico) dall’altro. Dunque nulla di più attuale, ma anche scontato, del dibattito che ci siamo incaricati di affrontare.
La storia della Storia: le dimensioni del tempo
Crisi del soggetto, abbandono dell’essere, crisi della storia (perché le tre azioni vanno fatalmente insieme): crisi dunque di identità dello storico (soprattutto di quello contemporaneo, mi verrebbe da dire). Perché la crisi del modello antropologico della modernità implica automaticamente la crisi del sapere storico: l’uomo e la sua società così come noi le pratichiamo sono, infatti, dimensioni e paradigmi a fondazione storica e cioè leggibili, spiegabili e assimilabili in virtù di un percorso temporale ad esso intimamente connessi. Anche questo tema è noto, scandagliato e, per certi aspetti, saturo.
Però forse tra noi, come con altri colleghi, su questo punto non ci siamo ben capiti, o meglio non sono stato capito. Che vi sia una censura? Che le fughe verso la metodologia e la filologia siano il risultato di una cattiva coscienza? Che vi sia una trincea professionale protettiva eretta contro destabilizzanti invasioni? Ma, diciamolo onestamente, come può lo storico affrontare l’oceano comunicativo che la nuova fase della modernità ha posto in essere stando in trincea? Come inserirsi nella vorticosa corrente mediatica, narrare, fare storia? Ed è davvero possibile oggi eludere, con il fragile scudo delle specializzazioni disciplinari, delle tesi, delle monografie, il tema del significato e del fine (o della fine) della ricerca storica? E come andare oltre i confini tradizionalmente fissati?
Cominciamo col dire (o semplicemente ricordare) che vi è stato un tempo e vi sono ancor oggi luoghi nei quali il pensiero storico non poteva e non può nascere perché è privo del suo stesso habitat: il tempo storico, un tempo lineare che si articola in una successione coerente di passato, presente e futuro. La linearità del tempo in realtà è essa stessa figlia della storia: è figlia del monoteismo giudaico-cristiano (la creazione del mondo coincide nel monoteismo con la creazione del tempo) e la sua umanizzazione coincide con l’Evento (unico e irreversibile) che ne annuncia anche la data finale, quel punto estremo che assicura la riconciliazione del tempo umano con la sfera immobile dell’eternità (Lowith, Gurevicth, Vovelle, Gauchet, Pomian, Habermas).
Bacino di coltura del monoteismo, il pensiero medioevale praticava un’idea della temporalità a più dimensioni o livelli (Tommaso D’Aquino): aeternitas (il non tempo del divino), aevum (il programma storico, tutto già scritto all’atto della creazione, che coincide con il disegno provvidenziale), tempus (quello fragile e transitorio, ininfluente e provvisorio dell’uomo creato, un tempo povero fatto di cerchi, sinusoidi, schemi ripetitivi senza Storia). Intorno al XIV-XVI secolo ecco la svolta: l’idea di una possibile ri-nascita della civiltà antica apre un processo di conquista e liberazione dell’aevum da parte del tempus. Il Rinascimento certifica non solo la morte di una civiltà (Santo Mazzarino, Garin), ma il potere tutto umano di rigenerarla, superarla e farla rivivere, e la modernità, da questo punto di vista, altro non è che una guerra di conquista individuale e collettiva del tempo, la sua restituzione all’uomo e all’humanitas per effetto del ruolo di centralità della specie, della superiorità gerarchica della creatura nel vasto universo creato. Allora nasce la storia come libera azione del soggetto e la storiografia della modernità può essere così definita come un grandioso impegno di desacralizzazione-colonizzazione del tempo sacro e provvidenziale (quindi naturale) a tutto vantaggio della narrazione della vicenda umana nella sua autonoma e responsabile crescita (un tempo non più naturale, ma di laboratorio, artificiale). Si tratta di un percorso-racconto a fondazione antropocentrica (e fatalmente eurocentrica) che, come ogni narrazione, ha un punto di partenza (il suo mito delle origini è la Ri-nascita) e un punto di arrivo (il suo evento apocalittico finale che è l’autoaffermazione dell’uomo), che si snoda in una concatenazione di rapporti causa/effetto e ordina la freccia del tempo (lo governa) in relazione alla sua linearità verso l’emancipazione, la liberazione finale dell’uomo (quella alla quale forse siamo arrivati).
Ma questa operazione di conquista e colonizzazione non è stata senza rischi e pericolose ambiguità. Progressivamente umanizzato e lavorato, il grande tempo cosmico e provvidenziale offerto dal sentire monoteista, ha poi perso il suo carattere di rigorosa e necessaria continuità: divenendo lo specchio dell’humanitas ne ha assunto i tratti e i colori. Il tempo dell’uomo (tempo storico) è, al pari del soggetto che lo produce, instabile, frutto di emozioni e passioni che si alternano in cicli, sinusoidi, corsi e ricorsi, drammatiche alternanze (di bene e male, vita e morte, buio e luce, guerra e pace, sviluppo e regresso), ha una intensità morale e riflette le passioni del cuore (il tempo è “difficile”, “maturo”, “fa giustizia”, è “galantuomo”, ecc.) e assume nel suo incerto corso colori diversi (vi è un’età/secolo/epoca d’oro, di ferro, dei lumi, del progresso, delle rivoluzioni, dell’espansione, e così via). Insomma tempo umano e tempo storico sono fatti della stessa sostanza. Spetta alla storiografia, che ne assume il monopolio, scoprire il segreto e la ragione del suo moto, allo storico ordinarlo in una narrazione esplicativa. Ma il tempo storico, lineare come è, non perde mai le sue caratteristiche essenziali: è, come il sapere stesso dell’uomo, cumulativo (succede a se stesso), gerarchico (vi è sempre un prima e un dopo, una causa e un effetto), patrimoniale (la sua cumulazione lo arricchisce e lo innalza). Insomma, desacralizzato, il tempo si umanizza e diviene il formidabile utensile culturale della modernità.
Inoltre la riduzione del tempo a storia produce anche effetti inattesi. Si tratta di un processo “alchemico” che, desacralizzando e umanizzando il tempo provvidenziale-naturale, ha finito per sacralizzare il tempo umano, e, a poco a poco, quest’azione di colonizzazione e conquista lo ha reso “pubblico”, “collettivo” (Ricoeur, Koselleck, Badiou) ben oltre gli angusti confini dell’esperienza individuale e della storia personale; cosicché la Storia dell’Uomo (necessariamente universale e teleologica) è divenuta “il tempo sacro” della modernità (Habermas), un possente mito in azione, totalizzante e universale, al quale spetta risolvere il problema della fondazione di un discorso sull’essere. “Noi siamo esseri storici prima ancora di considerare la storia e soltanto perché siamo quelli diventiamo questi” (Dilthey). E così possiamo dire fin d’ora che la Storia è una religione laica, una fede collettiva e un sacerdozio insieme.
La storiografia europea dei secoli XVI-XVII assume già i tratti di una “teologia della storia” (Pomian, Lowith) e poi si trasforma in una “filosofia” della storia (XVIII secolo) alla quale viene affidato il compito di fondare un sapere relativo alla totalità della vicenda umana. Con l’evento rivoluzionario la storia da plurale diviene singolare (Foucault) e il tempo storico diviene collettivo, di esso si fa un “uso pubblico” e quindi politico nel significato più alto del termine (e cioè ragione di identità, socialità, consapevolezza dell’azione sociale). Più in là (XIX secolo) la storiografia, esplicativa e prescrittiva, accetta lo scontro-confronto con il positivismo scientista e si pone come obiettivo la realizzazione di “una scienza esatta e positiva dello spirito” (Renan): la “scienza” delle scienze. Così quello a cui abbiamo assistito nell’arco di tre, cinque secoli è stato un episodio centrale delle “guerre del tempo” (Rifkin): l’uomo ha conquistato il suo tempo e la Storia è stata lo strumento per la “pianificazione” (Kant), occupazione, governo, controllo, colonizzazione del tempo; la più alta, e a mio avviso più nobile, manifestazione di potere (o “volontà di potenza”) della cultura occidentale in quel suo sofferto cammino che chiamiamo modernità. Osservata in relazione alla sua storia, la Storia altro non è che un racconto del Potere ordinatore del mondo, lo storico un attore centrale dell’ordine di tutti i saperi, e l’uomo moderno un prodotto della Storiografia e cioè di un racconto delle origini infinitamente ripetuto e universalmente condiviso.
Un’esperienza culturale esclusiva del pensiero occidentale, sì, ma di breve momento se consideriamo il corso dei cinque secoli della storia moderna in rapporto non solo ai tempi della specie (l’ordine temporale è ora di milioni di anni), a quelli della natura (siamo ai miliardi di anni) e del cosmo (centinaia di miliardi di anni); un tempo breve, e per certi aspetti fragile, anche se consideriamo il complessivo della cultura occidentale in relazione alle pluralità delle culture “altre” (rispetto a quella dell’Europa occidentale dei secoli XIV-XX) il cui censimento, sia per il passato che per il presente, sembra non finire mai e porta di continuo alla luce sistemi di civiltà e di conoscenze altrettanto vitali e significative. Un cammino concluso? Un “tempo” finito e quindi una Storia finita?
Fine della storia e oltre
Per molti autori il dibattito sulla fase critica della modernità e sul ruolo critico degli storici è, nei fatti, coinciso con quello in merito alla possibile fine della Storia. Ma questa ipotesi ha radici assai più profonde del dibattito moderno/postmoderno. Forse per primo Michelet ha avanzato quest’ipotesi immaginando che, con l’avvento XIX secolo, si fosse giunti alla data limite della Storia dell’umanità (“la storia di Francia è al suo punto di arrivo”), ma l’idea di un vero e proprio finis historiae l’ha formulata in modo organico Hegel per primo e nel 1807 (dopo la battaglia di Jena) al culmine della parabola dell’età moderna. L’idea era che, nel processo storico, si fosse giunti al capolinea per effetto del costituirsi, grazie alla Rivoluzione francese, dello stato liberale (forse anche democratico) e del conseguente moderno diritto di cittadinanza. Individuo, famiglia, società civile, stato e cittadinanza: il processo di innalzamento dell’uomo attraverso il “divenire storico” dialettico (insomma il tempo che passa) aveva, secondo Hegel, concluso il suo ciclo (Fukuyama). La Storia universale poteva dirsi conclusa per l’avvento dello Spirito, il suo materializzarsi sub specie “politica”, cioè storica (o viceversa): lo Stato moderno, sintesi complessiva dei processi dialettici di quella metafisica della laicizzazione che è l’idealismo.
La Storia finiva, secondo Hegel, perché il suo programma temporale (o almeno quello che egli stesso era riuscito a interpretare e modellizare) si era ormai concluso e il tempo a venire sarebbe stato quello di un adeguamento dell’umanità intera alla modernità, insomma un susseguirsi di processi di ammodernamento o modernizzazione, come ci piace dire oggi; una marcia d’integrazione in base alla quale, per estremizzare, “nella sua totalità il futuro è propaganda” (Brodskij) e cioè programma politico definito nei suoi obiettivi. Per sfuggire a questo apparente paradosso nichilista dell’idealismo, Marx ha rovesciato anche qui fino in fondo il pensiero hegeliano retrocedendo la storia a preistoria e fissando la data dell’inizio della storia vera (quella dell’uomo socialista) all’avvento dell’era comunista. Un’ipotesi teorica che oggi lascia perlomeno perplessi.
A pensarci bene credo che Hegel non avesse tutti i torti e che, in fondo, ci avesse azzeccato più di molti altri critici e teorici del postmoderno (Rossi). L’antropologia hegeliana, mobile, ma rettilinea e unidirezionale, costituisce, infatti, il compimento del percorso di centralizzazione-distanziamento dell’uomo dal mondo (natura, universo, cosmo), realizza il progetto umanistico della cultura occidentale e ne svela il mito delle origini: lo spirito-idea inteso come privilegio esclusivo dell’essere. E poiché la storia sempre e ovunque (in tutte le culture) parla dell’uomo e delle sue origini (è una procedura di affermazione di identità e quindi necessariamente autoreferente), nei fatti, la storiografia dell’Ottocento (specie quella tedesca) diviene una mitografia della modernità, la celebra sotto il profilo etico e la impone sotto quello politico: al meglio è la narrazione omerica (a fondazione eurocentrica) di un’epopea dell’uomo occidentale nel suo perturbato e drammatico percorso di domino del mondo, al peggio una soap opera di eroi del potere alla Carlyle o alla Sombart.
Che l’esperienza totalitaria del Novecento sia poi una evoluzione finale dello Stato nazionale liberal-costituzionale (nella fattispecie hegeliano- prussiano) o il suo lato degenerativo, poco conta ai fini del giudizio dato da Hegel. L’esperienza del Novecento, infatti, è millenarista e catastrofista proprio perché drammatizza il discorso della fine, lo esaspera in quella decostruzione del soggetto come attore privilegiato nel governo del tempo (Popper) che mette in difficoltà lo storico e ne segna la privazione di ruolo, la crisi di identità. Con argomentazioni diverse da quelle di Hegel, del resto, anche Troeltsch certificava l’avvenuto decesso della Storia universale all’indomani della Prima guerra mondiale annunciando la crisi irreversibile dello storicismo. Nel 1938, Aron argomenta in modo esemplare “i limiti dell’oggettività storica” in un saggio di decostruzione radicale del sapere storico della modernità. Marrou ne prende atto (1939) e svela la “tristezza dello storico” nel confrontarsi col tempo presente. Negli anni cinquanta, a fronte dell’offensiva strutturalista, la storia sembra ormai condannata a un descrittivismo opaco, al caos della contingenza e della dispersione nella incoerenza degli eventi (Lévi-Strauss). Un’altra sentenza di morte giunge, assai ben strutturata, nel 1953, con Significato e fine della storia (Lowith) e un epitaffio che non lascia molte speranze: “il pensiero contemporaneo è approdato a una radicale relativizzazione della storia e della conoscenza storica, il che costituisce la più grave minaccia per la sua possibilità di sviluppo”. Lyotard e Fukujama, dal canto loro, decretano la fine della storia nella seconda metà del XIX secolo in concomitanza con la morte delle ideologie. Insomma il Novecento si iscrive nella cultura europea come il secolo terminale del sapere storico esplicativo, prescrittivo, autoreferente. E anche se questa verità può apparire, al mondo chiuso e catafratto degli storici, una sorta di estremismo provocatorio, non vi è da farsi illusioni. L’espansione dell’impegno storiografico sotto il profilo istituzionale (accademico, disciplinare, didattico) che si può agevolmente registrare nel corso del XX secolo, è caratterizzato da un progressivo ripiegamento della ricerca su se stessa, da una crescente autorefernzialità e dal rinchiudersi in uno specialismo filologico strutturalmente incapace di percepire e affrontare la crisi del ruolo strategico del sapere storico nei rapporti con gli altri saperi. E, a mio parere, a questo punto siamo ancora oggi: al dibattito sul finis historae.
Intendiamoci bene: quello di cui si discute è la storia “al singolare”, il pensiero unico di un ordine del sapere dotato di un suo autonomo statuto, di una licenza esclusiva di investigazione e interpretazione di tutto il passato e del moto stesso della temporalità. La Storia può apparire oggi come un’esperienza finita non già nel senso che sono finiti gli innumerevoli eventi che la compongono, ma perché è venuto meno il senso della loro composizione esplicativa (del “discorso” storico, appunto), della loro narrazione unitaria che fu quella forza centripeta chiamata Storia universale, e cioè una scrittura degli eventi, rigorosa, lineare, programmatrice del passato e del futuro dalla quale stentiamo a prendere le distanze (Giovagnoli, Romitelli). Le aspirazioni millenarie del Terzo Reich, l’esasperazione dell’imperialismo e dei nazionalismi fascisti, il mito della razza, del tramonto irreversibile della continuità storica (e cioè “tramonto dell’Occidente”) e, in una parola, le culture del totalitarismo e la fede declinista, hanno realizzato il suicidio del “tempo storico” della Storia universale: come ogni “rivoluzione” (e cioè come ogni tentavo di rigenerare il tempo storico), calendarizzando il tempo a partire dall’anno zero, e cioè a partire dalla sua fine, i totalitarismi hanno compiuto un’eutanasia della Storia (Glukzman). Visto in questa prospettiva il bilancio della crisi e il quadro che ne emerge sono, a dir poco, sconfortanti. Tutto finito? Tutti a casa dunque? Non proprio.
Non è ovviamente il tempo e neppure il “tempo storico” che sono finiti, no naturalmente; semplicemente è il canone della sua narrazione che è mutato come se fossimo passati dal contrappunto alla sinfonia o viceversa. Quel che del tempo è cambiato è la sua unilateralità, la sua velocità, la sua profondità e la sua unidimensionalità. O forse, più verosimilmente, siamo noi che siamo mutati e lo percepiamo in modo diverso.
E’ stato scritto al riguardo in modo esemplare (Baudrillard) che la fine della storia coincide con la liberazione degli eventi dalla prigionia della Storia universale; che oltre una certa data del Novecento abbiamo superato il “muro della storia”; e che gli eventi moltiplicati e liberi dal Racconto e dal “metaracconto” (Lyotard) danzano ora come particelle cosmiche; e infine che gli eventi stessi sono ormai “entrati in sciopero” contro le manipolazioni degli storici imponendo la rinuncia al racconto unificatore della storiografia.
Io credo vi sia del vero in questo genere di intuizioni interpretative, credo che gli storici dovrebbero prenderne atto e, narratori di miti quali sono, debbano cambiare registro, andare oltre la Storia. Come?
Oltre la storia Isaac Asimov, non so in quale isola della sua sterminata enciclopedia immaginativa, aveva proposto di mettere all’ordine del giorno degli storici la “storia del futuro” (o “psicostoria”), la sua effettiva scrittura a fini politici e sociali. L’idea, ereditata da Forester, era quella di spingere gli storici a costruire modelli matematici di simulazione dello sviluppo degli eventi presenti facendoli agire in reti sistemiche logiche e raccontandone poi gli effetti (cosa ben diversa dall’approccio esclusivamente creativo della fantastoria oggi di gran moda). Gli eventi così realizzati e raccontati avrebbero automaticamente agito nei loro anelli di retroazione sulla struttura del tempo con la conseguenza che il futuro sarebbe diventato il presente e il passato sarebbe diventato futuro. Oltre la storia, Asimov proponeva di andarci così, e l’idea appare oggi meno bizzarra di quanto siamo disposti ad ammettere: chi analizzasse con attenzione la “storia” della guerra in Iraq condotta dai servizi di informazione (le cosiddette intelligence) e dai media, scoprirebbe il segreto di Asimov e non potrebbe dargli torto. Non scandalizziamoci dunque e andiamo avanti, andiamo ancora oltre la Storia. […]