Nelle prossime settimane si valuterà l’altalena dei consensi, la reale tenuta del governo, la sua autonomia rispetto ad una classe partitica e di governo che, piaccia o non piaccia, ci ha portato nelle retrovie di Caporetto. E il governo Monti potrebbe anche essere la linea del Piave, un muro di resistenza che lascia intravedere un futuro di impegno collettivo in vista della vittoria possibile. Fin da ora però, oltre allo schiamazzo dei gazzatieri e allo stato di generale confusione che ha travolto le truppe della Seconda Repubblica in rotta, qualcosa si può capire andando alle fonti e rileggendo il primo atto del nuovo corso della nostra storia del presente: il discorso programmatico del 15 novembre che ha ottenuto un voto bulgaro e plebiscitario al Senato della Repubblica. È pubblico, è lì da vedere e da leggere se l’occhio non ce lo abbiamo posto o da rileggere se già ce ne siamo dimenticati.

È presto per dire che è tardi?

Forse è troppo presto per dire se sia ormai troppo tardi. Ma la sequenza cronologica in tempi record della caduta di Berlusconi (Bossi e Tremonti con lui), del rapido giro di consultazioni, della presentazione e poi della fiducia e infine dell’insediamento del governo Monti possono suscitare un vento di novità, rassegnate aspettative e qualche speranza. Un colpo d’ariete e una concitata storia istantanea che comprime il percorso 25 luglio, 8 settembre, 25 aprile? Oppure un colpo di reni che dopo Caporetto fissa la linea del Piave?
Certo questo evento che si insinua e interrompe un ciclo di apparente continuità nel nostro sistema politico non deve trarre in inganno. Dalla fondazione unitaria a oggi, in 150 anni di vita istituzionale il Belpaese ha conosciuto 129 governi (con la durata media di 1 anno due mesi e sette giorni) e l’esperienza Repubblicana ne ha conosciuti, in 65 anni, 63, quindi il sistema manifesta una struttura profonda governata dalla dinamica instabilità-immobilismo che sembra replicarsi in cicli costanti. Ma nel presente l’elemento di novità sembra leggibile attraverso alcuni dati essenziali: nei sondaggi d’opinione il 99% dei cittadini si sono dichiarati favorevoli a un governo senza politici di lungo corso, il consenso a Mario Monti è stato misurato nell’84% degli italiani pari a quello che l’opinione pubblica riserva al Presidente Napolitano. Insomma sembra di poter dire che “gli italiani ci sono e l’Unità si può fare”.

Il discorso programmatico
Nelle prossime settimane si valuterà l’altalena dei consensi, la reale tenuta del governo, la sua autonomia rispetto ad una classe partitica e di governo che, piaccia o non piaccia, ci ha portato nelle retrovie di Caporetto. E il governo Monti potrebbe anche essere la linea del Piave, un muro di resistenza che lascia intravedere un futuro di impegno collettivo in vista della vittoria possibile. Fin da ora però, oltre allo schiamazzo dei gazzatieri e allo stato di generale confusione che ha travolto le truppe della Seconda Repubblica in rotta, qualcosa si può capire andando alle fonti e rileggendo il primo atto del nuovo corso della nostra storia del presente: il discorso programmatico del 15 novembre che ha ottenuto un voto bulgaro e plebiscitario al Senato della Repubblica. È pubblico, è lì da vedere e da leggere se l’occhio non ce lo abbiamo posto o da rileggere se già ce ne siamo dimenticati.
Che vi è di nuovo? A chi si rivolge? Quale balzo di qualità? Quale tempo storico disvela e quale futuro racconta? Ascoltiamo.
Naturalmente per chi non abbia adeguata dimestichezza con questo genere di fonti il testo appare composto, paludato e competente. La scena che si è vista in diretta ha suscito sorpresa per la pacatezza dell’oratore e il contegno dell’aula che ha subito un solo richiamo nella stile anglosassone del relatore (“Se dovete fare una scelta – mi permetto di rivolgermi a tutti – ascoltate, non applaudite!”). Una celebrazione davvero solenne e un uditorio consapevole della solennità. Davvero si è percepito il vuoto di tutta una classe dirigente (la palese incapacità di governare) e l’aspettativa di veder colmarsi questo vuoto.
Ed ecco una lettura che vi propongo.

Analisi del testo

Il testo (di 33000 caratteri) può essere letto in una sequenza di paragrafi che, al di là degli orpelli cerimoniali si articola come segue: appello alla classe politica e captatio benevolentiae (4000 caratteri); analisi crisi europea (1500 caratteri); analisi della crisi italiana (4600 caratteri); Mezzogiorno e questione settentrionale (550 caratteri); riduzione dei costi della politica (1800 caratteri); programma di interventi a breve e riforme già annunciate all’Europa (1900 caratteri); riforme strutturali (4000 caratteri); lavoro, welfare e politiche microeconomiche dell’impresa (9.700 caratteri). L’ordine di enunciazione dei problemi e lo spazio dedicato a ciascuno non è certo casuale e si spiega con la premessa che definisce la natura specifica del governo, la sua novità, come “governo di impegno nazionale”, forse il momento più alto del documento:
“Governo di impegno nazionale significa assumere su di sé il compito di rinsaldare le relazioni civili e istituzionali, fondandole sul senso dello Stato. È il senso dello Stato, è la forza delle istituzioni, che evitano la degenerazione del senso di famiglia in familismo, dell’appartenenza alla comunità di origine in localismo, del senso del partito in settarismo”.

Un rosario infinito

È infatti questo il momento nel quale l’allocuzione di Monti va oltre i confini dell’aula di Palazzo madama e oltre il pensiero degli interlocutori diretti per giungere al pensiero diffuso del Belpaese al limite di una latente e auspicabile rivolta morale.
Per il resto, a dire il vero, le novità sono poche e sappiamo tutti il perché: “ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo. Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che in questi mesi abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee. Non c’è nessuna originalità europea nell’aver individuato ciò che l’Italia deve fare per crescere di più. È un problema del sistema italiano riuscire a decidere e poi ad attuare quanto noi italiani sapevamo bene fosse necessario per la nostra crescita”.
E così l’interlocutore diviene necessariamente una classe dirigente che è quella che tutti conosciamo, quella educata alla sequenza operativa consociativismo, trasformismo, immobilismo, in perenne attesa e in precario equilibrio, rissosa per interesse, incompetente nella cultura di governo e, in fondo, un partito unico dell’occupazione del potere.
Di qui il rosario obbligato del lessico di questi ultimi venti/trent’anni che conosciamo a memoria e abbiamo sentito recitare (fino alla nausea) di dibattito in dibattito, di convegno in congresso, di campagna elettorale in campagna elettorale, armonizzazione dei bilanci delle PA, riforma del sistema fiscale e assistenziale,
Questione meridionale e questione settentrionale, riequilibrio di bilancio e riforme istituzionali, uso efficace dei fondi strutturali dell’Unione europea, vincolo del pareggio di bilancio, riduzione dei costi della politica, abolizione del provincie e accorpamento dei comuni, riduzione (strutturale) della spese di ministeri, riforma dalla PA, della giustizia, delle forze dell’ordine, lotta alla illegalità, all’evasione fiscale, alla criminalità, imposta municipale, dismissione del patrimonio, riduzione del peso delle imposte, capitali privati e infrastrutture, riforma del mercato del lavoro e welfare, donne, giovani, anziani, valorizzazione del capitale umano, ricerca, scuola, università.

E basta così.
Tutto al futuro, tutto da fare e “da fare” dopo quasi vent’anni della “politica del fare” e del farsi gli affari propri. Tutto da fare all’insegna dei tre principi che fanno la spina dorsale del testo: “rigore, equità, crescita”. Che dire di più?

Che dire di più? Speriamo che duri

Dire che se questa è la linea del Piave, indietro non si può andare più e neppure star fermi: occorre andare avanti. Avanti con i generali che abbiamo, le risorse migliori che abbiamo e quella solidarietà, quel comune sentir che, alla fine, ci fa brava gente, gente per bene.
Nel testo programmatico del governo, nel lessico di Mario Monti non ricorrono le parole “democrazia”, “collaborazione”, “innovazione”, “sviluppo sostenibile”, “questione morale”, “cittadinanza”. Questo è un discorso vecchio, è il discorso di un economista di eccellenza, onesto e competente, una persona per bene, ma che certo non parla al Paese e al suo futuro possibile, un discorso nel quale la crescita domina sul futuro e il futuro diviene crescita economica imperativa e categorica. Mario Monti parla a sei milioni di piccoli imprenditori che forse non lo sanno ascoltare, a un ceto politico che lo teme, a una classe dirigente che ha condiviso il percorso del berlusconismo fino alla fine e senza risveglio. Che mai avrebbe potuto dire di più in questa circostanza di consenso armato della classe politica e di governo?
Ecco, solo un’ultima riflessione. C’è un passaggio in sordina, un inciso che replica un luogo comune: “l’evasione fiscale continua a essere un fenomeno rilevante: il valore aggiunto sommerso è quantificato nelle statistiche ufficiali in quasi un quinto del prodotto”. Come dire 300 miliardi sottratti al prelievo fiscale; un paio di manovre, un tesoro sommerso. E che dire della corruzione endemica della di tutta una classe dirigente divenuta probelma naziononale e stimata in un giro d’afferi di 50/60 miliardi? Degli sprechi della pubbliche amminstrazioni, delle esternalizzazioni e delle delocalizzazioni? Si tratta di evidenze che suscitano indignazione e frustrazione e che meritavano un commento ben oltre i confini che l’aula e l’uditorio gli sembrano aver imposto. Sarebbe stato un appello alla responsabilità, ma anche alla partecipazione. Forse ce losi aspettava e non avrebbe guastato proprio perché “è il senso dello Stato, è la forza delle istituzioni, che evitano la degenerazione del senso di famiglia in familismo, dell’appartenenza alla comunità di origine in localismo, del senso del partito in settarismo”. La svolta, se di svolta si vuole parlare, è tutta qui.
A queste parole ci si può attaccare e ben sperare per il futuro. Immaginare una nuova democrazia fondata sull’innovazione del sistema rappresentativo, sulla responsabilità dei rappresentanti, su un rigoroso codice etico, su efficienti modelli partecipativi e di controllo dal basso, sull’equità come ragione di collaborazione e cosi via, è un problema nostro, dei cittadini e non di Mario Monti trincerato sula linea del Piave per evitare la sconfitta.
E di una cosa possiamo fin d’ora essere certi. Dopo il ventennio della corruzione del sistema democratico, Mario Monti e tutto il suo governo daranno l’esempio all’Europa di un’altra Italia, un’Italia non solo “sobria” (che mai vorrà poi dire?), ma onesta, competente, migliore e per questo avrà un vasto consenso e, se lo saprà chiedere, impegno e collaborazioni. Speriamo che basti. Speriamo che duri.