… e volar tra le nubi …
Un sospiro di sollievo, naturalmente ora non lo poteva più fare, ma la sua nuova consistenza vibrò come una ventata di primavera. Gromo aveva pensato e ripensato a quello stato di leggerezza, a lungo aveva pregustato, negli ultimi giorni di sole, il senso di mobilità nel vuoto osservando la corsa delle nubi e il frusciare delle foglie; con tutta la concentrazione di cui ancora era capace aveva accolto e trattenuto in se ogni corrente d’aria, ogni spiffero. E tuttavia ogni immaginazione, ogni pensiero, persino ogni stato di ascesi risultava una pallida banalità rispetto alla sua reale condizione presente. Era un morbido armonioso vibrare; ma sì, uno stato di corporeità musicale, una ritmica perenne fluttuazione. Etereo: nulla di meno, nulla di più. Era un fantasma.
* * *
Di tutti i problemi che la postmodernità pone in termini di dibattiti, polemiche, investigazioni, uno almeno sembra averlo definitivamente risolto. E’ ormai finito il timore della fine dei tempi e per la buona ragione che i tempi son già belle e finiti. L’unica caratteristica certa di questa nuova era che assilla i più ed entusiasma pochi è infatti che passato, presente e futuro sono frullati tutti insieme. Certo l’indiscutibile vantaggio dell’effimero è che, insieme alla fatica di vivere consumando il tempo al minuto, si gode l’ebbrezza di un presente che non finisce mai e lascia poco spazio al turbamento delle nostalgie e delle aspettative.
I terrori dell’anno Mille non ci sono più e neppure quelli dell’anno Duemila e la fine della “fine dei tempi” si è portata via anche le angosce delle tenebre, le indicibili inquietudini dell’ignoto e di quei deserti misteriosi che ci attendono oltre i confini del nostro tempo. Così oggi il mondo dell’aldilà e quello dell’aldiqua sembra che non si guardino più in cagnesco, si tollerino e si sopportino più di quanto non sia mai successo in passato. Archiviati i conflitti, gli anatemi e gli scongiuri, le reciproche persecuzioni e i continui terrificanti ricatti, il mondo dei vivi e quello dei più coesistono senza devastanti guerre di confine.
A trarne beneficio è stata soprattutto quella terra di nessuno, quella zona intermedia dell’attesa che, in virtù della vocazione al paranormale tipica della postmodernità, è divenuta un luogo del tutto famigliare, quasi amico e necessariamente ospitale visto che, ne siamo ormai convinti, tutti ci dobbiamo soggiornare anche se, magari, solo per poco. Zombi, vampiri, licantropi, polstergheit e fantasmi si sono definitivamente insediati nel quotidiano, popolano il nostro mondo e son qui, appena girato l’angolo. Soprattutto i fantasmi, presenze vieppiù bonarie e burlone, risiedono da tempo tra noi.
La letteratura gotica, fin dal cuore del Settecento, ne ha promosso la frequentazione e censito la disseminazione; poi, sul finire dell’Ottocento, le conversazioni “a tavolino” con gli spiriti sono divenute una prassi della socialità. Però, diciamolo francamente, questo insieme di contatti e relazioni è sempre stato un privilegio dei ricchi, delle persone colte, insomma un’esclusiva delle classi egemoni. Adesso è tutto cambiato. Con il generalizzato benessere, films del terrore, sceneggiati e serial televisivi, collane economiche, fumetti alla portata di tutti hanno generalizzato la frequentazione, favorito gli scambi, realizzato una cultura comune, addirittura di massa in merito a quel territorio che, dopo l’evento finale, saremo chiamati a percorrere. Tutti insomma ci sentiamo più consapevoli e più preparati nell’affrontare la notte e le creature che la popolona.
Il buio è ormai colonizzato a tal punto che le zone di mistero, anche le più orrende e terrifiche son divenute luoghi di ameni dejuner sur l’herbe, di scampagnate domenicali. Poiché il regno delle tenebre ci appare divertente già a vederlo di qui, figuratevi quali piaceri appaganti, quante curiosità, quante incredibili opportunità di socialità e di amicizia, quante inesauribili avventure ed emozioni si offrono a chi ha davvero passato il confine e risiede stabilmente laggiù.
Così quando venne il suo momento di fare trasloco, il professor Roberto Gromo si sentiva del tutto pronto, certo pervaso da quella inquietudine che precede l’esame e che i suoi studenti non gli avevano permesso di dimenticare mai, ma nella buona sostanza preparato così da non dover neppure chiedere o sperare un rinvio.
Con dignità superò le sofferenze degli ultimi giorni. Venne il momento in cui non poté parlare più e con gli occhi, a suo modo, prese commiato dalle poche cose che lo circondavano, senza il ben che minimo rimpianto. La ragguardevole età di ottantotto anni suonati, quattro anni passati nel ricovero geriatrico della sua città natale, infinite ore di letture e altrettante di silenzio gli avevano dato tutto il tempo di prepararsi all’occorrenza. Da qualche mese, forse anni, dormiva sonni letargici e rassicuranti; ormai non sognava quasi più se non vaghe immagini piene di ricordi confusi; minuto per minuto viveva la sua veglia nei piccoli riti della vita di comunità. Insieme agli altri aspettava. E così, del tutto naturalmente, il momento era venuto.
Era venuta anche l’ultima notte (perché tutto, secondo i suoi desideri, doveva avvenire di notte e in silenzio) con la luce fioca che lo avvolgeva nel buio, il caldo un po’ soffocante del letto, le piccole premure dell’infermiera che andava e veniva e, nei suoi gesti professionali, gli portava qualcosa di più che rispetto. Anche lei aspettava. Aspettarono insieme.
Quando la luce divenne così fievole da confondersi con il vuoto del buio e il silenzio prese tutta la sua maestosa consistenza, il professore fu invaso da un senso esaltante di liberazione. Basta!
Era davvero finita. Basta il mattino, la sera, la notte; basta la faticosa costrizione dei movimenti, la deprimente monotonia dei pranzi e delle cene, la frustrazione terrificante delle attese. Basta le conferenze diplomatiche con i compagni di camerata, i trattati di pace con le infermiere, i fragili armistizi della guerra infinta per l’uso del comodino e degli armadietti. Basta con la guerriglia per l’uso del vaso da notte e il duro scontro per la luce notturna. Basta il ronzio delle voci, i discorsi senza più né capo né coda, il frusciare faticoso delle parole smozzicate di quel rincoglionito di Achille (o si chiamava Gianni?), basta con l’estenuante ingombro della carrozzella di Aldo e i minacciosi bastoni Gerardo, una sconclusionata medusa che scivolava lungo i muri impadronendosi di ogni punto di appoggio, di ogni ringhiera. Basta con lo sguardo vuoto di Luca e di Giulio, con le incomprensibili di Fausto, con le perenni lamentele di Enrico. Insomma basta … La rivolta interiore di Gromo coincise con la più completa vittoria … e finalmente scivolò via con un sorriso di assoluto trionfo.
Liberato. Il professor Gromo, che forse non si chiamava più così, si sentì liberato da ottantotto anni di catene. Tutte spezzate in un attimo e lasciate cadere chissà dove: via, come un Prometeo liberato.
Un sospiro di sollievo naturalmente ora non lo poteva più fare, ma la sua nuova consistenza vibrò come una ventata di primavera. Gromo aveva pensato e ripensato a quello stato di leggerezza, a lungo aveva pregustato, negli ultimi giorni di sole, il senso di mobilità nel vuoto osservando la corsa delle nubi e il frusciare delle foglie; con tutta la concentrazione di cui ancora era capace aveva accolto e trattenuto in se ogni corrente d’aria, ogni spiffero. Ricordando a mente le arie del divino Mozart, aveva cercato di coglierne tutta l’eterea consistenza. E tuttavia ogni immaginazione, ogni pensiero, persino ogni stato di ascesi risultava una pallida banalità rispetto alla sua reale condizione presente. Era un morbido armonioso vibrare; ma sì, uno stato di corporeità musicale, una ritmica perenne fluttuazione. Etereo, nulla di meno, nulla di più.
Come per incanto, della sua nuova condizione di fantasma seppe subito tutto. Cose nuove, mai neppure lontanamente pensate e conferme di altre a lungo sospettate.
Innanzi tutto, come aveva ritenuto per effetto delle sue riflessioni, quella condizione intermedia era obbligata. Seppe però chiaramente che i tempi di permanenza allo stato di fantasma erano al meglio di pochi giorni, al massimo di qualche mese. E perché? La verità gli si palesò immediata: problemi logistici. La follia dei vivi, del tutto imprevedibile e incoercibile, creava da sempre problemi irresolubili alle strategie organizzative del regno dei morti. Guerre, conflitti e ondate di criminalità facevano saltare ogni razionale programmazione. Poi le epidemie, le pestilenze, i disastri ecologici e le inondazioni, i terremoti contribuivano a creare eccedenze di trapassati.
Ne conseguiva affollamento e confusione e così i tempi di attesa per il grande balzo finale slittavano di giorni, settimane, mesi. Esisteva una gerarchia o meglio un ordine di precedenza.
La lista di attesa era compilata in funzione dell’età (prima i più giovani, poi quelli scomparsi, per così dire, senza preavviso o per subitanea violenza), ma anche a parziale risarcimento degli inevitabili scompensi realizzatisi nella vita. Prima i più miseri e gli infelici, i poveri di spirito crudelmente gabbati dalla vita, ma prima anche i nevrotici tormentati da incurabili angosce, i portatori di handicap, e così via … Il sospetto di Gromo che anche lì vi fosse qualche piccolo abuso si rivelò fondato: deputati, imprenditori, alti funzionari del clero esercitavano efficaci pressioni (parlare di corruzione è impossibile) per inserirsi e, come sempre, non pagar dazio. Per un verso o per l’altro il professore capì subito di essere in coda alla lista d’attesa. Senza drammi si rassegnò.
Venne poi informato di tutte le attività poste in essere per ingannare il tempo dell’attesa. Iniziative di gruppo per la gestione in comune dei nuovi poteri acquisiti e corsi di formazione per favorire un’adeguata preparazione al grande balzo finale verso le origini della materia, là dove le particelle esuberanti di vita danzano la meravigliosa festa della creazione.
Gromo, ancora schiavo della socialità coatta dell’ospizio e francamente nauseato da tutta una vita di studi e di insegnamento, respinse ogni offerta. Certo avrebbe potuto, solo volendolo, concedersi un periodo di riposo fluttuando sulle onde di acque tropicali o scivolare giù dalle nevi delle montagne sempre sognate e mai raggiunte, ma le ottime condizioni nello stato di eterea libertà nel quale vibrava allontanarono anche questi desideri. Oppure avrebbe potuto, desiderandolo, gettarsi nelle più tenebrose avventure con vampiri e zombi; frequentare sotterranei e sepolcri, apprendere tutti i misteri del Negronomico e cogliere i piaceri del bacio proibito, ma non c’era la vocazione e intuì subito che ciò avrebbe comportato un impegno serio, una disciplina. Comunque avrebbe dovuto darsi da fare: orari rigidi, appuntamenti, contatti, giochi di squadra, rispetto delle gerarchie. Escluso.
Seppe inoltre che, chi lo avesse voluto, avrebbe potuto rinviare a suo piacimento la data del grande balzo ancorché chiamato e tuttavia senza perdere la posizione di privilegio già conquistata. Insomma, intuì Gromo, vi era chi, la sua condizione di fantasma voleva godersela, far l’esperienza fino in fondo e prolungare a dismisura quel senso di definitiva liberazione, di trionfo quasi, che consente a tutti l’accesso al nuovo stato della materia eterea. Decise.
Pensare, decidere e fare per un fantasma è la stessa cosa. Gromo si librò nella pienezza della sua situazione senza complessi, finalmente totalmente libero come sempre aveva sognato, come sempre avrebbe dovuto essere.
I vantaggi della condizione di non corporeità e invisibilità sono ben noti. Non esistono regole se non quelle dettate dalla piena esperienza di aver già concluso la vita e dal piacere di fare e disfare quel che si vuole con un po’ di magia. Non esistono limiti se non quelli fissati dai rapporti di buon vicinato con le altre presenze di questo luogo intermedio della non temporalità. Meno irreggimentati degli zombi, meno limitati professionalmente dei vampiri, i normali fantasmi godono di una giocosa libertà, vittime solo del loro naturale carattere che, del resto, a poco a poco (e solo ora Gromo lo scoprì), si sarebbe purificato in prossimità del gran balzo finale.
Bonario e solare, già purgato da un lungo tirocinio verso la saggezza terrena, Gromo prese il via per la sua esperienza di fantasma-neonato, se così si può dire. Una deliziosa vibrazione, un fruscio, una accelerazione. E via!
Escluse subito di ripresentarsi all’ospizio dove i suoi amici, che neppure avevano più le lacrime per piangerlo o l’acredine per ricordarlo, certo non erano in vena di giocare con lui: lì non era un posto fatto per i fantasmi. Ritrovare i parenti che si erano per anni dimenticati di lui? E perché? Sorvegliare con ansia e continue emozioni il figlio tutto pieno della sua vita? Neppure. No, Gromo come la quasi totalità dei fantasmi neonati si ributtò a tutta velocità nel mondo. Entrava di soppiatto nelle case, stazionava sulle piazze, guardava da su le città, prendeva gusto a scontrarsi coi treni, a superare in velocità le macchine. A levitare, benché ad altezze ancora modeste, aveva imparato subito. Fare scherzi fu una sorta di meccanismo coatto. La sua natura ironica e dispettosa si impose automaticamente. Fece bruciare arrosti, scuocere paste, evaporare la benzina dai serbatoi; bloccò i semafori, tirò la coda ai cani delle signore eleganti, scombinò la carte dei giocatori accaniti.
Burlonerie di fantasma neonato o, più semplicemente, immaturo. Quasi subito si accorse però che le sue azioni in fondo avevano anche un che di sociale e morale: in certo senso erano guidate e si configuravano come piccoli atti di giustizia. Gli giunse così la rivelazione: lapsus, atti mancati, censure, malinconie improvvise che scombinano la vita e ingrassano gli psicanalisti sono, il più delle volte, frutto di scherzi che i fantasmi fanno agli esseri umani per dar loro il senso stesso della condizione mortale, per abituarli a guardare più in là e più in su.
A volte, nella sua gioiosa danza nel mondo, incontrava altri fantasmi. Se l’intesa c’era lo si avvertiva subito e allora ecco grandiose scorribande, giochi di squadra improvvisati e momentanei; e poi via, senza rimpianti, senza legami. Alla fine Gromo si convinse che tutto il complesso decalogo del perfetto fantasma si riduce ad una unica regola: “danza felice nel mondo”.
Il problema di Gromo, l’unico vero problema era la notte. Come sempre. La solitudine dell’imbrunire, l’incertezza del primo buio: come sempre da quando era solo, come in ospizio. Anzi la situazione ora si era, se possibile, lievemente aggravata perché ormai, come tutti i fantasmi, lui non dormiva più. La vaga luminescenza che la sua materia eterea sprigionava gli sconsigliava di frequentare i luoghi animati e abitati. Il sonno dei vivi che non intendeva certo turbare e non poteva condividere lo escludeva, lo lasciava vuoto, solitario, non triste (perché questo non si può), ma annoiato come in una anticamera della tristezza. Si gettò nel vortice degli spettacoli. Lì, confuso nelle luci di scena e dei riflettori, poteva godersi ogni sorta di leccornie dello spirito: concerti, commedie, opere, riviste. A Roma, Madrid, Londra. Con ansia aspettava il carnevale di Rio, per la verità intuì che lo aspettavano tutti i fantasmi. Sarebbe stato sicuramente un grande raduno.
Ma la notte era lunga. Tentò un paio di discoteche dove nessuno si curava di lui e della sua impalpabile luminescenza, ma ne uscì con tali vibrazioni che quasi perse tutto il beneficio della sua condizione e per diverse ore non riuscì più a librarsi. Cambiò strategia, ma i luoghi più solitari e quieti della notte erano mal frequentati. Esclusi castelli, rovine, parchi e giardini; lì la facevano da padroni i vampiri arroganti ed espulsivi che non socializzavano volentieri. E poi, lo si sa, l’aristocratico vampiro guarda i fantasmi dall’alto in basso e, se non disprezza la loro giocosa superficialità, la tollera appena. Esclusi anche i cimiteri con il loro maestoso silenzio. Qui gli zombi diffondono una spessa nube di noia che prendeva Gromo alla gola. Le streghe, soprattutto in aperta campagna, è noto, volano basso, berciano e profetizzano con una insistenza patetica ma anche ossessiva. Le adunate di fantasmi nei boschi e nelle case abbandonate, Gromo se ne accorse subito, finivano in chiacchiere vuote come all’ospizio. Escluso anche quello.
Insomma dal tramonto all’alba, o almeno per metà della notte, niente da fare.
Poi venne a sapere che il problema non ce lo aveva solo lui. Fu informato che molti, moltissimi fantasmi la notte sceglievano le alte quote. Su, su tra cielo e stelle si facevano trascinare dalle correnti di venti fortissimi ai limiti dell’atmosfera. Venti da cento, duecento metri al secondo e anche più. E via che scivolavano in un soffio di assoluta serenità, succhiavano le rade luci di giù: le nebulose delle grandi città e l’impercettibile chiarore dei paesi sparsi in tutti i luoghi del mondo. E si ricaricavano di tutta la loro lucentezza eterea per via delle luci di su, quelle delle stelle e soprattutto dei raggi di luna.
Saputo, pensato, voluto, detto e fatto. Quella rilucente forma che per noi risponde al nome di Roberto Gromo era già nel cuore della notte stellata, la più bella che mai avesse visto, che avesse potuto sperar di vedere o solo sognare. Si, adesso si. Si sentiva davvero un fantasma nella pienezza dei suoi poteri; un fantasma fatto e rifinito a dovere, maturo. E, proprio allora, in qell’istante preciso, venne la chiamata.
La notizia lo raggiunse alla quota di diecimila metri sopra la montagna che aveva sempre sognato come una chimera e che dominava tutta la pianura dei suoi ottantotto anni di catene. La notizia era chiara e limpida come la luce lunare: era giunto il suo turno per il grande balzo, il tempo di essere fantasma era finito. Via! si poteva partire.
Gromo si interrogò su quanto tempo fosse trascorso. Quanta era stata l’attesa? Perché proprio ora e proprio lì? Perché proprio adesso in quel beatificante stato di pienezza? E se avesse rinviato il gran balzo? Se fosse rimasto lì ancora in quelle esaltanti solitudini neppure mai sognate in tutta la loro distesa di cosmica quiete? Sentì tutto il piacere delle sue intime vibrazioni …
Saputo, pensato, voluto, detto e fatto. Per i fantasmi, già lo si è detto, le cose vanno così: il desiderio è subito realtà. Gromo fu raccolto da una corrente più forte, si librò, prese velocità, andò a tuffarsi nel bianco notturno dei ghiacciai della sua montagna. La partenza era rinviata.
Poi non vi fu più motivo di attendere e di star lì a contare il tempo. La notte, le stelle, il bianco delle montagne bagnate di luna, l’atmosfera pura e diradata delle alte quote erano diventate il dominio incontrastato di Gromo, la ragione di essere quello che era: una forma rilucente della sua stessa libertà, un moto fatto della totale musicalità del silenzio. Talvolta, nelle sue peregrinazioni notturne e celestiali, Gromo intravedeva appena altre forme lucenti che si lasciavano trascinare nel vuoto dei venti e delle correnti aeree. Vibrazioni lontane ma quasi mescolate a lui, amiche. Per quel fantasma, contento e felice di essere tale, tutto filava liscio. Dubitò persino, ma solo per un attimo di essere un angelo.
Poi una notte accadde quel che doveva accadere. Filando lassù nei suoi larghi silenzi densi di stelle, Gromo si trovò, come per caso e sicuramente per caso, a scivolare fianco a fianco ad una forma di luce come la sua. Stava quieta, raccolta e se possibile rilassata, sdraiata a bocconi a guardar giù. Silenzio. Il viaggio di conserva continuo per un po’. Per un attimo Gromo fu indispettito da quella presenza invasiva, quasi ostinata. Vibrò, infilò un tunnel di vento più teso e ancora più limpido. Accelerazione e … via. Però, come trascinata nella sua deriva, quella presenza non invitata stava ancora lì a scivolare al suo fianco. Silenzio, disappunto, imbarazzo, curiosità. “Salve!”. “Buonasera”.
Il segnale (non si può parlare di voce) gli era giunto limpido e dolce, rassicurante. Gli parve come … aiutatemi a dire: come una stretta di mano; anzi di più, come se fosse stato preso per mano. Si tranquillizzò, si presentò; “Roberto Gromo, già professore di filosofia al Liceo di …”. La risposta lo demolì: “Oh, no la prego! non qui, non ora, non così. Io … solo Nicoletta, guardi, fantastico vero laggiù!”. Niente enfasi, più nessuna distanza, come se fosse stato lui stesso a parlare. Sotto la gigantesca stella di una Parigi notturna brulicava e vibrava di vita. Per la prima volta da che si era sentito fantasma davvero, fantasma maturo, Gromo avvertì l’istantaneità della sua vibrazione con quel del mondo che gli stava sotto come se fosse lui, come se fosse parte di lui. Ne fu turbato, quasi irritato.
“Ascolti … lo sente?”. Gromo si concentrò e assorbì un vago brusio che veniva da giù; oppure veniva da dentro? “Mi piace ascoltare. Tutte le notti vengo qui ad ascoltare. Ora lo sente anche lei, vero? Le piace?”. Gromo non ebbe neppure modo di controllarsi: “Sì, sì certamente … “. Certo che gli piaceva, anzi lo rapiva e quasi lo tirava giù. Poi la nebulosa scomparve e scivolarono insieme sulla nera distesa del mare. Gromo si voltò a guardare gli ammassi del cielo moltiplicati dalle distanze del vuoto. Stava per perdersi. “No, no ascolti”, e ancora il brusio di una smisurata popolazione di stelle in fermento lo prese e lo avvolse. Quel brusio (brusio?) lo penetrava e lo faceva vibrare di un ritmo nuovo; mai sentito e neppure immaginato. Accadde una cosa, un qualcosa che Gromo non aveva più le parole per definire. Si sentiva … come dirlo? si sentiva … stanco!
“Ascolti, è fantastico vero? è come se tutto fosse finito come se fossimo già arrivati là”. Adesso la sua vibrazione aveva la stessa forza di parole morte e dimenticate per sempre: inquietudine, ansia, desiderio. Desiderio o meglio una pulsazione nuova insopprimibile, come una esuberanza e un voler prendere tutto o dare tutto. Era come un senso di liberazione che stava crescendo, ma davvero una liberazione più grande e quasi infinita. E mentre su le luci roteavano e si confondevano trovò la forza di concentrazione per mandare un messaggio forte anche se concitato. “Arrivati là dove?”.
“Ma come! che domanda! dopo il balzo, là dove tutto comincia davvero. Ma lei il corso lo ha fatto?”.
“No”.
“Ah, ecco tutto si spiega. Dicono che quando si sente il brusio, quando lo senti dappertutto sulla terra, sul mare, nel cielo, quando lo senti come se fosse dentro è davvero giunto il momento. Dicono anzi che allora è come se il viaggio fosse già cominciato, che è cominciata la grande danza e che con la danza tutto ricomincia come dal nulla. Però questo bene bene non ce lo hanno detto e non l’hanno saputo spiegare, perché non lo sa nessuno e quando poi lo sai, tutto è già ricominciato. Dicono che non è una fatica e anzi è anche meglio, molto meglio che essere qui. E poi … poi dicono anche che per sentirlo davvero il suono dentro, per mettersi in viaggio, si … insomma, dicono che bisogna essere in due …”.
Saputo, pensato, voluto, detto e fatto. I fantasmi, lo si sa per certo, non muoiono, non si ammalano e non diventano vecchi, e però basta anche un istante che sentano in due e insieme quel brusio brulicante di vita che noi non possiamo sentire e subito, come fantasmi, si sentono stanchi, inutili, si sentono soli, mutano di sostanza e la loro luminescenza prorompe e illumina i luoghi che non possiamo vedere. Solo allora scompaiono definitivamente, passano il confine della notte e solo allora per tutti, cosi come stava accadendo al professor Gromo, inizia il cammino fantastico del ricominciare.