Milano 23 luglio 2039
Albertini la sua città la conosceva bene. Imbruniva e il sole andava giù per restituire in tutta purezza la luce d’autunno. Fece un lungo respiro e inghiottì tutto il presente. E il presente, per un attimo, gli restituì tutto il passato. Sentiva il senso vero della libertà, quello di una casa comune nella quale tutto era davvero possibile perché tutto era stato risolto. L’autonomia era divenuta libertà e la libertà realizzazione di se. La città era ormai un oceano verde, senza traffico, senza inquinamento, e da quando si era affermata al mondo come il polo indiscusso della creatività della moda persino il problema della casa era risolto. Le tasse finalmente non si pagavano più, lo sviluppo non aveva più limiti, l’assetto urbano aveva raggiunto un definitivo equilibrio, la questione ambientale un remoto ricordo e restituiva ai polmoni l’ebbrezza di un assoluto respiro. Neppure il lavoro poneva più problemi: era libero, libero davvero. E il made in Italy … un trionfo, un vero trionfo.
* * *
“Ecco” disse “questo è tutto”. Era tutto lì dentro, in un sacco sgualcito e scolorato dal tempo, gonfio a metà
La luce tirava appena, era fioca, danzante fino a far tremare di ombre tutto lo spazio. Era uno spazio indefinibile avvolto dalle ombre e dal buio profumato di cenere. Quello spazio buio poteva essere un ambito ristretto, un vano minuscolo o un magazzino immenso nascosto dal nero che c’è oltre la fiamma di una candela; era un magazzino.
“Ecco” e gettò sul banco il sacco afflosciato. Era il vecchio sacco da marinaio un tempo di gran moda e ora ancor più prezioso ed elegante così consumato e sfondato com’era. Il banco era lucido, ma non perché fosse laccato o incerato. A fiutare, potevi sentire l’odore del legno autentico quello vissuto, lavorato dal tempo, vecchio di suo perché era tanto che stava lì, proprio lì. Era lucido perché vivo e utile, e reso vivo dall’uso. Lì sopra, lo capivi, era passato tutto: migliaia di sacchi da marinaio, di valigie logore, di scatole sfondate e milioni di oggetti. E dietro al banco sicuramente c’era tutto e di tutto; migliaia, forse milioni di oggetti nascosti in remote profondità dalle ombre della luce fioca e danzante. Penombre, poi buio, vuoto, silenzio.
Il commesso toccò, accarezzò, poi squarciò e guardò dentro al sacco.
Quella era la pausa critica, l’attimo di trepidazione e di ansia che tutti affrontavano (perché tacerlo?) in attesa della valutazione e del giudizio finale … Ma il professor Albertini non aveva di che temere.
“Con questo, Professore, lei può permettersi tutto” disse il commesso con tono ossequioso. “Le chiamo subito il Dottore. Mi scusi, ecco: solo un istante, sta servendo un altro cliente. Piccola cosa, sì ecco: solo un istante”.
Scomparve lasciando il sacco con la sua bocca semiaperta sul banco che luccicava a danzava insieme al moto della luce fioca. Poi il silenzio e la breve attesa, poco più che un minuto.
“Caro, caro Albertini, come va? che piacere vederla! L’aspettavamo, sa, e anzi ci chiedevamo…”
“Dottore” tagliò corto Albertini che non amava né il tono cerimonioso, né le cerimonie mercantili “ecco qui” indicò il sacco “valuti lei dottore”.
“Oh, ma per carità, ma cosa dice? solo una formalità, una formalità burocratica, burocratica e professionale s’intende” Infilò la mano nel sacco; tastò, sbirciò, girò, rigirò e poi ammiccò: “Una formalità inutile del resto… con persone della sua qualità, del suo gusto e diciamolo pure della sua cultura… Mi dica, caro professore, dica pure: che cosa desidera? … Oppure, ecco forse vuol farsi servire. Un consiglio magari? ecco un Versace.. lei Armani lo ha già e anzi ne ha molti. Un bel Versace, sì, oppure magari diciamo… un Kenzo, un bel Kelvin Kline per esempio… sì?”.
“Ma no, pensavo piuttosto a …”
“Ma certo un Moschino, classe superiore; ma certo. Naturalmente non mi permetto di offrirle nulla di dozzinale. Lei praticamente ha tutto. Un Dior inedito per esempio, un bel simbolo prima maniera …”.
“Ma no, quello già me lo sono fatto, ce l’ho ed è bello davvero; ma no, pensavo piuttosto …”
Ma si, perché non ammetterlo, in fondo ad Albertini quel gioco piaceva. Sì, la cerimonia (o piuttosto lo scambio tra intenditori, il duello tra competenti al limite del collezionismo) piaceva, gli attivava i ricordi; lo faceva navigare indietro nel tempo, suscitava per così dire la memoria storica ed eccitava la sua fantasia artistica, il suo gusto decadente verso il passato remoto, l’attitudine morbosa alla nostalgia propria dell’intellettuale raffinato di fine millennio.
“Ecco io pensavo a …” lasciò appeso per un interminabile istante il suo interlocutore “pensavo a un Ferrari, perché no?”
“Ferrari, ma certo! che sciocco, mi scusi caro professore. Il cavallino: un marchio delizioso, davvero luminoso, ecologico e denso di significato. Una firma vera che dà distinzione; quella che lei si merita. Completa poi, nazionale e celebre soprattutto. Insomma riconoscibile a prima vista e… e anche nota però” e gettò gli occhi nel vuoto annunciando un’intima delusione “… Troppo nota forse, se mi permette. Sta bene è certo e fa la sua bella figura, facile da portare; costa anche poco” il Dottore abbassò il tono di voce “come dire… è un po’ inflazionata però; mal frequentata direi, come il Porsche del resto. Sa …” la voce scese in cantina sino a confondersi col buio misterioso del magazzino “i giovani non sanno, non apprezzano… Il cavallino lo chiedono tutti. Secondo me han finito, mi perdoni il termine, han finito per sputtannarlo… ” Poi riprese tutto il tono ampolloso e professionale: “suggerirei almeno di abbinarlo a Trussardi: cavallino e levriero stanno bene e poi … poi costa lo stesso. Ci stiamo dentro ampiamente” tagliò corto il Dottore in via ultimativa.
Albertini accusò il colpo e di colpo reagì.
“Bene, e allora facciamo Bugatti. E’ una griffe molto sofisticata, il marchio è elegante, il logo essenziale. D’accordo, vada per Bugatti così avrò tutta una serie: Alfaromeo, Jaguar, , Rolls e Bugatti. Bene così”.
Bugatti! che idea. Era fatta: Albertini aveva ribaltato il gioco e lo sapeva.
Il dottore rimase in bilico sull’orlo dell’abisso: annaspò, guardò indietro nel buio avvolgente del suo magazzino, poi capitolò.
“Ummh, sì ecco… caro professore, io… io, a lei lo posso dire con franchezza: ecco io Bugatti … Bugatti non ce l’ho. Mi perdoni, proprio non saprei come … “
“Diciamo Talbot allora” rincarò il professore “Ha presente Talbot? anni Trenta, un bel T nel cerchio d’argento, un marchio oggi dimenticato ma che tuttavia fa sognare gli intenditori, una Rolls Royce prima della Rolls, una leggenda”
“Veramente … “
Albertini dominava il campo e il dottore cedeva, arretrava psicologicamente verso il buio retrostante. Bravo Albertini, avanti così!
“Oppure, cambiando completamente articolo, mi faccia un bel Ermenegildo Zegna, un Tino Cosma, Biagiotti, Ferré, Crizia …”
“Lacoste” ansimò il dottore per salvarsi in extremis.
Albertini lo trapassò con uno sguardo che imponeva il silenzio.
“Ah sì, mi perdoni professore, dimenticavo. E’ stato proprio l’ultima volta che lei è venuto qui. Che sciocco, mi scusi… la mia testa. Sì ricordo benissimo: il coccodrillino … sul polpaccio destro, vero?”
Silenzio.
“Gucci allora professore, un fantastico pelle su pelle”
Silenzio: Albertini gli mostrò con atto di sfida il Gucci proprio sul polso al limite dell’avambraccio.
“FILA … professore che dice?” frusciò il dottore ormai privo di ogni certezza.
Albertini spostò appena la casacca sdrucita e fulminò il suo interlocutore. Il dottore piegò gli occhi al tavolo e li chiuse nel buio. Piegò la testa in atto di umiliazione e di reverenza. FILA era lì bello e luminoso portato con eleganza sportiva e arrogante sopra il capezzolo destro. Mannò, con Albertini la partita era persa. Quello era il genere di clienti che non si possono infinocchiare. Con lui non si improvvisa, pensò amaramente il Dottore; non si vende a casaccio, no, con lui ci vuole un’idea, un’idea forte, vincente, un marketing sofisticato.
La fiamma della povera candela danzava sul banco lucido di migliaia di oggetti strisciati, palpati, passati di mano, archiviati nelle vastità del magazzino pieno di odori antichi, della muffa di tutto un passato. Il passato di tutto un millennio. Silenzio e tensione. pausa e attesa.
Ma si faceva tardi e la fine imminente del moccico della candela non lasciava più tempo per quella notte e chissà per quante altre ancora. Bisognava concludere. Il dottore raccolse tutte le sue forze, indagò nell’abisso dei suoi archivi mentali, in un solo istante passò e ripassò in rassegna le mille e mille immagini e i mille ricordi e tutte le mille storie raccontate che gli avevano fatto sorgere i ricordi e le immagini di tutte le griffe del mondo che ormai gli stava alle spalle. Pensò e ripensò …
“Ecco Professore” tirò fuori con senso disperato di liberazione “che ne direbbe allora di un FMR, Franco Maria Ricci, ha presente?”
“Franco Maria Ricci! FMR? Davvero lei potrebbe … lei sarebbe in grado di … FMR … “
Ecco sì: bene così. Era il punto giusto, quello di rottura. E Albertini si era spezzato come il Titanic contro l’immensità oscura della notte e del bianco fantasma di ghiaccio.
“FMR… FMR! Davvero lei sarebbe in grado di realizzare… Un marchio così prestigioso e ormai così dimenticato! Esclusivo sino ad essere ricercato, ignorato sino ad essere stupefacente. Tutti lo ammirerebbero e susciterebbe la curiosità di tutti. E lei potrebbe …, lei Dottore … “
“Ma certo che si, mio caro professore, ma certo che si” trionfò il dottore in totale contenuta esultanza “la nostra professionalità, la nostra esperienza, il patrimonio del nostro magazzino, del nostro esclusivo archivio … Certamente Professore se lei lo gradisce si può fare anche subito. Il tratto è semplice, essenziale; il punto di colore perfetto. Occupa poco spazio ed è altamente visibile… ummh la spalla destra direi… Naturalmente il prezzo, e lei lo può ben capire, non è dozzinale, però ecco… però…”
“Però … ” ripeté ansioso Albertini.
“Però … ecco mi faccia vedere”
Rovesciò i contenuto del sacco. Quattro mele, una vecchia suola di scarpe con ancora visibile l marchio Tod, un’etichetta in stoffa Hermes appartenuta con ogni probabilità ad una cravatta, diversi tappi di boccette da profumo Wan Klift, un pacco di pagine delle rivista Elle ormai scolorite dal tempo, il cappuccio di una penna Mont Blanc però corroso e spezzato, un intero volume delle pagine gialle della provincia di Milano anno 1999, una serie di trenta o quaranta bottoni da camicia. Reliquie alcune davvero preziose, altre indispensabili per ogni sorta di scambi, tutte col valore di moneta sonante. Negli occhi del dottore vi fu il lampo inconfondibile dell’avidità.
“E il sacco da marinaio?” chiese insinuante.
“Quello no” rispose fermo il Professor Albertini con un tono che non ammetteva ulteriori negoziati “è l’ultimo contenitore che mi è rimasto. E poi è firmato, una griffe importante. No”
“Allora non ci siamo, caro Professore. Un FMR è così esclusivo che praticamente non ha prezzo, lei lo sa bene. Tutta la sua merce è preziosa ma non basta mi creda, non basta. Tutto, le posso dare e fare tutto anche un Ferragamo se ancora non ce l’ha, ma un FMR no. Mi creda e mi scusi”.
Neppure il tono del dottore ammetteva repliche. Silenzio e buio; luce baluginante della candela in via di definitiva consunzione e fuori la notte con i suoi incerti confini.
“Però, ecco senta professore: lei è un vecchio cliente e le confesso onora la nostra casa e la nostra impresa. Voglio venirle incontro. Non facciamo questione di prezzo. Mi dica, ecco la sua casacca …”
“Ma questa era una camicia firmata!” replicò costernato il Professore.
“Sicuramente, ma da chi? chi può saperlo più ormai”
“Mah che so” disse Albertini sollevando un lembo dello straccio che lo avvolgeva con ingenuo imbarazzo “direi… Inghirami”
“Bene e io le faccio un bell’Inghirami sul collo proprio qui all’altezza del colletto e un bel FMR qui tra Gucci e Rolex, c’è proprio il posto giusto giusto e così siamo apposto e completiamo definitivamente il torace e il dorso. Che ne dice professore?”
Andava bene così.
Nello stretto sentiero aperto su quel tratto di campagna che portava ancora il nome di Montenapo c’era silenzio e un po’ di umido lasciato giù dalla pioggia di primo autunno. Un quarto di luna illuminava l’insieme delle macerie della vecchia città e faceva brillare le vetrine infrante di negozi sfondati. Brillavano appena come la danza della fioca candela e apparivano per quello che erano: gli specchi in frantumi di un passato di luci e di splendore, di rumore chiassoso e di violenta, arrogante gioiosità. Albertini camminava in fretta e in silenzio come al limite di un camposanto, stretto in quelle che un tempo erano state prestigiose slip di cascmir firmate Missoni; la sua figura atletica scivolava quasi a passo di danza; sfilava quasi come sulla passerella di un defilé. In fondo al sentiero la tenue luce del magazzino si era definitivamente perduta. Dietro, sul collo, e davanti, lì appena sopra il costato, i tatuaggi freschi gli suscitavano un che di caldo, non un dolore, ma come un prurito e nulla di più. Del resto il dottor Fendi in quel genere di operazioni era un vero mago; il migliore, l’arbiter elegantiarum per antonomasia, l’ultimo sopravvissuto di una dinastia di artisti e alchimisti della umana commedia. Lo sapevano tutti e i suoi tatuaggi delle griffe più famose li riconoscevano tutti. Solo lui li sapeva farli così; era come se firmasse le firme e a lui ci si accostava come a un fonte battesimale.
Albertini sentiva ormai di avere superato la soglia critica del suo personale successo e marciava sicuro. Certo gli restavano ancora (secondo i calcoli del dottor Fendi) più di centosessnata centmetri quadrati di pelle utilizzabile pre nuovi interventi, ma per il resto tutto il corpo era armoniosamente coperto dagli indelebili simboli delle griffe più prestigiose di un recente e ormai remoto passato. Di questo passato Albertini costituiva forse la più significativa testimonianza. Era tutto firmato e, in questo senso, era un’opera d’arte dell’effimero che non sarebbe finito mai. Si guardò compiaciuto l’avambraccio e la splendida corona di Rolex, tatuata giusto all’altezza del polso, gli parve guizzare di un lampo abbagliante, il punto di colore era perfetto, la garanzia della indelebilità assoluta. Più su di pochi centimetri avresti potuto ammirare Gucci, poi di traverso nei bei caratteri corsivi e voluttuosi leggevi un inconfondibile Ferragamo, era grosso e lungo fino alla base del bicipite e visibile da lontano. Certo lui lo avrebbe voluto sui glutei, ma ormai era andata così.
L’ingresso nel ristretto modo delle persone di qualità sembrava ad Albertini definitivamente consolidato. Al sorgere del sole, sualla riva del fiuma riservata ai vip così protette dai barbari portatori di tatuaggi plebei e irrazionali, tutti avrebbero potuto ammirare con considerazione e una punta di invidia un esclusivo FMR a compimento dell’opera d’arte, il tocco finale. E, così, ormai senza camicia tutto il corpo del professor Albertini riluceva anche di più, era “più evidente senza essere invadente” come giustemente aveva sentenziato il Dottor Fendi, più esplicito senza essere arrogante, più allusivo senza essere malizioso. In fondo era andata bene così, pensava Albertini. Solo, almeno ora nella notte e nel buio, Albertini aveva un po’ freddo né sapeva valutare se quel brivido annunciatore del gelo venisse dalle ombre della notte di fuori a da dentro per il contrasto di quel lieve calore cutaneo. Che importa! poi sarebbe venuto il sole a illuminare tutte le griffe più belle del mondo.