passato e presente di antichi misteri
Ad Afrodisia si sta bene e ci si vuole bene. Che dire di più? Certo mi capisci. Ecco, e poi c’è il premio finale, la meta vera ed è per quella che sei andato li. La vasca rituale immensa e il tempio. Lo sai, lo senti che qualcuno ti chiama, che ti vuole. È Afrodite divina fatta di un corpo che hai sempre sognato, un ordine delle forme raccolto e schivo, una promessa di sempre ancor prima che un sogno. È a quel punto che anche il profumo dei cedri si fa sensuale, come a volte di primavera ti capita in Sicilia quando passi a fianco ai giardini di zagare e limoni. È un profumo inconfondibile, eccitante, di donna e di eterna giovinezza. È la dea.
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Afrodisia è un luogo d’incanto, un paradiso. Se ci vai te ne innamori e non lo dimentichi più. Le rovine della vecchia città, nella sua integra struttura ellenistica, si trovano a una ottantina di chilometri nell’interno della costa turca, all’altezza di Cushadasi,. È la Ionia degli antichi, un parco archeologico di rara ricchezza e bellezza. Tagliata fuori com’è dal turismo di massa che si radica sulle spiagge, Afrodisia è sempre deserta. È tua da cima a fondo. Niente orari, niente guardie, niente guide. C’è un bosco di conifere che brilla perché ad Afrodisia il sole non manca mai, c’è un odore intenso di cedro e di resine, un vento leggero che ti rinfresca e ti fa sognare di antiche veleggiate. Ad Afrodisia il vento non manca mai. Esci dalla strada d’asfalto, un chilometro di sentiero sterrato disseminato di sarcofagi rovesciati e colonne ritorte, popi entri nel sito. Gli antichi monumenti in rovina sono lì che aspettano, e aspettano te.
Passi sotto gli archi possenti dell’antico acquedotto, scopri le case schiacciate e ammassate che hanno visto tutto e conservano i loro segreti, ci sono le strade ben levigate e tagliate diritte a squadra perfetta. Vedi i magazzini, il mercato, l’agorà. Il circo è immenso e cosi perfetto che non puoi vederne uno così in nessun altro luogo del mondo. Il teatro. Sul pritaneo ci caschi per forza, è lì sulla strada del tempio. Il marmo è ovunque e, di rigore, bianco come latte, accecante sotto i raggi del sole. L’effetto misterioso e conturbante è una luce traversa che tiene su pini e cipressi e li scalda, li fa amici tra loro. Sono lì da anni infiniti e hai l’impressione che si vogliano bene e ti vogliano bene. Ad Afrodisia si sta bene e ci si vuole bene. Che dire di più? Certo mi capisci.
Ecco, e poi c’è il premio finale, la meta vera ed è per quella che sei andato li.
La vasca rituale immensa e il tempio. Lo sai, lo senti che qualcuno ti chiama, che ti vuole. È Afrodite divina fatta di un corpo che hai sempre sognato, un ordine delle forme raccolto e schivo, una promessa di sempre ancor prima che un sogno. È a quel punto che anche il profumo dei cedri si fa sensuale, come a volte di primavera ti capita in Sicilia quando passi a fianco ai giardini di zagare e limoni. È un profumo inconfondibile, eccitante, di donna e di eterna giovinezza. È la dea. Il tempio, sì …
Ma non è questa la storia. La storia di Afrodisia non si può raccontare. Ci vai e basta. Fai il tuo pellegrinaggio, come tanti, come tutti prima di te e incontri il tuo universo interiore, ti ritrovi con le tue passioni sempre celate, tenute a bada e che adesso non esplodono, ma semplicemente affiorano, affiorano lentamente perché la dea vuole che tu ne porti ricordo … nulla da raccontare. Respira a pieni polmoni, abbandonati, ascolta il silenzio e fatti trafiggere dalla luce del sole … basta così. È una iniziazione, poi il rito si compie e non lo puoi rivelare. Vale per tutti.
La storia è un’altra, sta fuori, a qualche chilometro dal sito e questa la posso raccontare. Dire come si arriva al piccolo ristorante-locanda che porta il nome dell’antica città e ospita i solitari e rari turisti non è possibile. Un labirinto di sentieri sterrati, un susseguirsi ingannevole di cartelli smunti e illeggibili, avanti e indietro, a destra e a sinistra. O ci capiti addosso o non lo trovi più.
Il Ristorante-Hotel Afrodisia ha sei camere, ma in funzione non ce ne è nessuna. Lavori di ristrutturazione che, a guardare bene, sono sospesi da anni offrono una accoglienza inquietante; non ti puoi sbagliare tutto è abbandonato. Il ristorante lo devi cercare perché non si capisce dov’è. Ma il mistero si scioglie subito, dopo una sommaria ispezione, perché è lì proprio sotto i tuoi occhi: un tavolo di legno al vento e alla pioggia, tre sedie squassate. Finito.
Se arrivi all’Hotel Afrodisia, tornare indietro non si può; sei stanco, esausto e fuori di testa per il percorso che hai fatto per arrivare fin lì. Vorresti riposarti e neppure sai dove sederti. Vorresti rinfrescarti, lavarti le mani, raccogliere un sorriso di benvenuto, ma tutto è vuoto, grigio, scostante. Ti coglie allora una fame nervosa e imperiosa, vorresti mangiare e mangiare non si può: “vous avez reservé?”. No, non hai prenotato. Comincia un negoziato snervante e imbarazzante con il titolare unico abitante di questo universo perduto. Lo intuisci e adesso lo sai: l’ultimo cliente servito deve essere stato un legionario romano morto di fame in quell’angolo di mondo perduto. Non hai prenotato, la cucina è vuota, capisci di dare fastidio, di essere di troppo. Insomma: “ma perché e venuto? Cosa vuole da me? Se ne vada che è meglio per tutti, ho altro da fare!”. Questo è tutto quanto ti comunica lo sguardo indifferente e flaccido di un fantasma sdraiato nella penombra della veranda protetta dal sole.
Nella vita a volte succede che perdi il controllo e sei sopraffatto da un lampo omicida, ma qualcosa lì va diverso: ti rassegni perché la dea ti sta ancora vicino, ti accarezza e ti rapisce nel vento. Ti dice di stare lì buono buono.
Il titolare dell’albergo e un vecchio francese che tu pensi sia un legionario in fuga e ricercato per i sette nari. Ma no! Era professore di greco ad un liceo di Lilla e adesso serve una modesta insalata e la frutta del suo giardino a chi mai riesce a trovarlo e stanarlo. Avrà una settantina d’anni e li dimostra tutti. Di parlare non ne ha voglia e della tua presenza non fa mistero di essere infastidito. E l’insalata va via così. C’è una focaccia miserabile, un po’ di fichi e il pranzo è finito. E il caffè?
Ecco: il caffè! E qui cambia tutto. Per intervento divino Gerard, questo è il suo nome, qui si apre si addolcisce, si svuota. Anche per lui il peggio è passato. Si allunga sulla sdraio miracolosa che regge il suo peso, ti indica dove trovi la tazza e lo zucchero, dov’è la cogoma, il barattolo del caffè e come si accende il gas. “Faccia come a casa sua!”, ed è un comando. I ruoli si sono inavvertitamente e inevitabilmente rovesciati: Gerard si fa servire e poi ti racconta la sua storia. Quale storia? Ma quella di Afrodite, ovviamente.
“Questo non è un albergo e neppure un ristorante” esordisce biascicando Gerard “l’ho preso così come è una decina di anni fa. Era già in rovina, ma a me va bene così. I cartelli? La segnalazione sulle guide? Non c’entro: roba vecchia e non è colpa mia se continuano a stare lì. Del resto qui non viene nessuno o ci viene per sbaglio, come lei. A me fa anche comodo, non certo per danaro. Si fanno due chiacchiere anche se non ci sono abituato. Sì faccio fatica”.
Gerard gira lo sguardo. L’orizzonte è ristretto. Quel che un tempo era l’Hotel è una casa lunga e stretta: cinque porte finastra al piano terreno, una balconata e le stanze che vi si affacciano al primo piano.
“Silenzio e niente di più. Di spazio ne ho persin troppo e di lavoraci su davvero non ne ho voglia. Va bene così e… e poi c’è il giardino”. Inspira profondamente e si sprofonda ancora di più, quasi si disfa.
“Lo sente ?”
Ma certo che sì; lo senti subito il profumo dei pini e di resina calda, di sottobosco umido, e di vento che passa sulle rose selvatiche; c’è il prato, un orizzonte di cespugli a portata di mano, una tribù di fichi dolci che si mangiano con tutta la pelle, un ronzare di api che preparano il miele. Il miele di Gerard, dolce e denso così come, a poco a poco, potresti definire il suo sguardo. Intuisci che potrebbe esserci un orto. Un universo chiuso autosufficiente nel tempo e nello spazio.
“Ma sì, mon cher ami, va bene così. È comodo e sempre più di rado mi muovo, scendo giù in città qualche giorno al mese. Alla sera vado giù al tempio, quando proprio non c’è il rischio di incontrare qualcuno. D’altra parte anche il tempio è in rovina. L’ha visto, no! Sarà così da almeno … almeno mille e settecento anni. Anche l’acquedotto …”. Gerard si prende una pausa, calcola mentalmente qualcosa, poi si risveglia ai miei occhi: “ il tempio è in rovina e, lo sa?, dicono tutti che la statua cerimoniale della dea sarebbe ancora in città da qualche parte. Anzi qui dicono … ma sono tutte sciocchezze! Tutta la città è in rovina, abbandonata”.
La mimica di Gerard si arricchisce di un sorriso sornione. “Qui dicono anche che l’unico abitante dell’antica città sono io, sono io il cittadino superstite e … e anche il sacerdote. Il sacerdote! dicono così. Forse perché qualche volta scendo al tempio di notte, forse per questo lo dicono. Fa un po’ ridere, no? ma qui intorno sono tutti contadini e i contadini si sa … ma in fondo mi fa anche piacere. In qualche modo mi rispettano …”.
Ecco, se ricordo così bene questa conversazione di tanti anni fa, è perché la associo sempre e quasi istantaneamente all’idea di metamorfosi, di progressivo mutamento nella forma di un corpo e di tutto quello che proprio il corpo si trascina dietro, i sensi e il pensiero, le emozioni e lo spirito. Per noi, e da sempre, la metamorfosi è un mistero oltre la percezione della ragione, oltre l’uso conoscitivo della ragione, è una magia; una magia e il frutto di una magia. Inutile interrogarsi oltre la soglia dello stupore: accade così, e basta. Ti cade addosso, ti ritrasforma e ti fa prigioniero di altre dimensioni che neppure sapevi, che neppure capisci. E Gerard, il sacerdote di Afrodisia, così come amava a definirsi, lui era quella magia e la vittima di una magia. Qualcosa, battuta dopo battuta, sguardo dopo sguardo, mutava nel suo linguaggio e nel suo essere stesso. Lo osservavo e lui cambiava di fronte ai miei occhi, cambiava davvero. Una metamorfosi, sì. C’era come un crescere di profondità, un complicarsi dei tuoi pensieri, una serie impercettibile di fratture del tempo. Pause, silenzi, attese, profumo, brezza di vento, colori. Ogni ripresa del suo monologo era oltre una certa soglia, era un passo più in là, oltre.
“Naturalmente le celebrazioni della dea si facevano di notte e tre volte all’anno, tre volte. Sul finire del secondo secolo pare che le processioni avessero un tale seguito da costringere le autorità a spostare i riti nel grande stadio. Lo ha visto, vero? Quarantamila persone! E di notte. Ma io penso …”, e mentre la voce si spegneva ci fu una lunga pausa di smarrimento. Un andare oltre, più in là. Poi la voce riprese con netta fermezza. “Ma io penso che dovrebbero essere riportate sulla via sacra. Il loro posto è là”. Silenzio.
“Naturalmente qui la città non poteva competere con Pafo nel Peloponneso e tanto meno con Amatunte a Cipro. I grandi luoghi di culto sono quelli … Lei c’è stato? Ha visto? Per secoli e secoli le afrodisie si sono celebrate lì. Ma a partire del primo secolo … ecco vede il tempio … qui, la nostra città è divenuta la sede più ambita del culto. La meta estrema del pellegrinaggio è qui”. Gerard si piega su stesso, allunga una mano: “Ecco guardi, la prenda, me la dia”.
È una conchiglia che non puoi vedere nascosta tra i sassi del giardino. È lì a due passi e a portata di mano e solo ora la vedi. La porgo a Gerard che la prende con grazia, la rigira come in una carezza. Passa il dito sulle labbra della conchiglia che ti sembra per un attimo viva: emana un lampo di luce quando il sole la attraversa.
“Ecco, la conchiglia è il simbolo di Afrodite. Provi a scavare giù in città. Basta sollevare una spanna di terra e sa quante ne trova? La dea è nata dalla schiuma del mare, su una conchiglia è stata trasportata a Citera. Per questo Citera è l’isola dell’amore e del desiderio. Quando ci sono stato per la prima volta, sì … ma come si può dimenticare? Io credo … io so, io conosco il punto,proprio la spiaggia dove lei è approdata nel cuore di quella notte profonda. Oh certo, non mi fraintenda! Tutti coloro che navigano le coste dell’isola dopo il tramonto lo sanno,lo scoprono. È lei che ti guida, si svela attraverso il desiderio che suscita. Riporta lei riporta proprio lì,su quella spiaggia”. Gerard si perde nei suoi stessi occhi, si volge lontano. “Lei è il desiderio, mio caro amico.. Mi capisce? Viaggi, peregrinazioni per mare e per terra; amori e desideri e ovunque, ovunque sotto il suo piede ha lasciato l’onda del desiderio che si risveglia, si impone, ti prende e non ti abbandona più. È la nostra e la sua condanna, per sempre. Suscitare il desiderio e appagarlo; appagarlo sempre. Perché ecco, la vita … la vita, caro amico, non è altro che un desiderio appagato. Non ci si può sottrarre … Ora so che mi capisce, vero?”
Ma il sacerdote non attende risposte, non le vuole, scivola leggero sopra le cose e il suo sguardo va molto più in là.
“Certo lei mi capisce. Qui dicono molte cose di me, anche brutte cose. Sa, la mia età e poi tutta questa mia solitudine, questo stare qui … e lei, lei così giovane … tutti dicono che è una figlia di contadini del villaggio qui, dietro alla pineta. Che è orfana, che cerca protezione o … una zingara in cerca di … di spiccioli …”.
E io ancora lo vedo rigirare quella conchiglia, cercare con gli occhi in quell’infinito angolo del mondo. Lo vedo ancora e percepisco l’attesa che è la sostanza del desiderio.
“È divina, vero? La sente, sì? Ecco, quando a volte mi chiedo perché mai sono finito qui … è per lei, solo per lei. E adesso non mi muovo più. Non c’è più altro posto per me”.
Gerard ha cambiato tono e persino il suo volto si è disteso, brilla al sole dell’ultimo raggio. La voce sussurra come se parlasse solo a sé. Ma tu lo senti benissimo. Solo lo devi inseguire perché i suoi pensieri vengono fuori prima delle parole; c’è un rapporto strano tra il suono della sua voce e il vento, un dialogo, oppure … aiutami a dire, come se il vento gli prestasse la voce. Ecco, proprio cosi.
“No nessun altro posto, no. Certo è difficile, difficile da spiegare. Ma è lei .. è lei. Lei è un’emozione, un’immagine, una figura della mente, un’idea che ha forza soprannaturale, ti prende e non ti lascia più. Con la sua radiosa bellezza ti stordisce i sensi, fa ardere l’anima e infuria, ti trascina senza posa e senza fatica. Mi capite? O forse no. Ma no, non si può capire. Non puoi ritrarti perché ignorare, anche per un solo istante, la sua presenza è promessa di rovina, di sicuro abbandono. E la perdita è irreparabile, lo sai. Tutto il mondo e non solo la mia città, tutto il mondo è caduto in rovina per distrazione, ignoranza, abbandono di questa entità superiore. Non parlo del culto della dea, no. Potrei dirvi tutto dei riti, delle cerimonie, delle iniziazioni. Ma non si può capire. Lei è l’onnipotenza della sensualità e un forza divina. La sente, la sente?”.
Si, per un solo attimo qualcosa si muove, un sospiro di passi, di passi sottili, fruscianti, una carezza del vento … più nulla. Il corpo flaccido e obeso di Gerard, il sacerdote, sembra colto da un tremito. Poi la sua voce riprende a strisciare come un serpente nel giardino lasciato al suo naturale, impetuoso disordine.
“Ho vissuto tanto, caro amico, tanto e quando sono venuto qui, ecco ero venuto per l’ultimo viaggio. L’ultimo santuario, l’ultimo pellegrinaggio. Poi un altro non ci sarebbe stato mai più. Ed è stata proprio così, una magia. Più che un rito: una magia. Basta, a casa non sono tornato più e forse nessuno sa più nulla di me. Sono qui e solo qui, il mio viaggio non è finito mai. E ora, ora il tempo scivola senza fare rumore, senza increspature. È pieno, sì, pieno ogni ora, pieno quando sono in attesa, pieno quando …”.
Silenzio. Resti in silenzio per afferrare il fruscio, lo senti. È qui!
Dal giardino di rose esce una figura minuta, liscia, candida e ridente, sorride e chiama con gli occhi il suo sacerdote. Gerard si alza rapito. Lei a i piedi fatti per danzare e avanza con passo leggerissimo come i fiori di quel rigoglioso giardino appena toccati dal vento. Anche Gerard, che ha perso ogni contatto con me e col mondo, si alza leggero le va incontro senza più il peso dei suoi anni, del suo corpo obeso e della sua vita perduta. I tratti stanchi del volto sono divorati da un sorriso che accoglie anche te ti fa trasalire e ti avvolge. Lei è giovane, giovanissima come una dea immortale. I capelli sono neri e abbocolati dal vento. Gli stracci da contadinella si avvolgono in un mantello che hai visto mille volte sulle statue della dea. Lui i suoi anni non li ha più. Si baciano.
Afrodisia è alle mie spalle e a quel piccolo hotel non ci saprei tornare. Lì si celebrano i misteri ai quali i comuni mortali non sono mai ammessi. E voi non date peso ai pregiudizi di quei borghesi del posto che si rammaricano dell’arretratezza della campagna turca e raccontano la storia scandalosa di un vecchio europeo, miserabile e fuori di testa, al quale è stata promessa in sposa una fanciulla di sedici anni. Dimenticate la volgarità di chi vi dice: “Gerard? Un vecchio roncoglionito che se la fa con la ragazzina che ha trent’anni meno di lui”. Silenzio. Fate un profondo respiro di fiori, di cedri, di rose e di miele … questa storia è vera.