La storiografia della rivoluzione francese ha avuto dei dantonisti. Ha tuttora dei robespierristi. Ma non ha nessun maratista. Nella galleria dei ritratti rivoluzionari, Marat occupa il posto dell’energumeno. Ne possiede il fisico (“agli occhi di un pittore di massacri, la testa di Marat sarebbe di un interesse inestimabile,” disse John Moore in occasione di un viaggio in Fran cia, nel settembre 1792), il comportamento (la teatralità e l’esibizionismo), la parola (gli appelli alla sommossa e al massacro). La sua funzione nella rivolu zione, affermava Camille Desmonlins, è quella di fornire un limite all’immaginazione popolare: “Al di là di quel che propone Marat, non può esservi che delirio e stravaganza”.
Questo particolare destino Marat lo deve anche a una morte che ha riunito tutti i caratteri di un’iscrizione duratura nella coscienza collettiva: un uomo celebre, brutto e malato, pugnalato da una sconosciuta giovane e bella; un uomo che chiedeva condanne a morte, ma che veniva chiamato “l’amico del popolo”, e che l’assassina poté avvicinare col pretesto di presentargli una supplica, circostanza quanto mai adatta, come notò Augustin Robespierre, a “demaratizzare Marat”; un uomo sanguinario morto nel sangue, straordinaria figura di carneficemartire.
Un uomo, inoltre, il cui processo si era svolto molto prima della sua morte, grazie ai girondini, che lo aprirono nell’aprile 1793. Infatti Marat è, insieme con Luigi XVI, l’unico personaggio della rivoluzione che sia sembrato degno di un appello nominale, e l’unico quindi per cui ci siano pervenuti i voti di tutta la Convenzione con gli adeguati commenti. Nelle nove ore in cui i deputati sfilarono, si spiegò tutto il ventaglio delle “opinioni” su Marat, dalla virtù patriottica alla pazzia furiosa: il repertorio che i posteri continueranno a citare si è formato molto presto.
Un repertorio che colpisce, a sua volta, per i suoi eccessi: “Caligola da trivio” (per Chateaubriand), “funzionario della rovina” (per Hugo), “re degli unni” (per Louis Blanc), Marat ha avuto il dono di ispirare il ritratto accusatorio. Per Nodier era “l’unica creatura che mi abbia fatto comprendere l’odio”. Tutte le interpretazioni di Marat hanno creduto di dover rendere conto di questa eccezionalità: eccezionalità della rivoluzione stessa, per la storiografia contro rivoluzionaria; e per la storiografia favorevole alla rivoluzione, eccezionalità nella rivoluzione. Sicché, a proposito di Marat, si torna sempre alle stesse due questioni: se era un personaggio singolare, a che cosa lo doveva? e questa singolarità può essere ritenuta emblematica di tutta quanta la rivoluzione?
Vi sono almeno tre modi per razionalizzare l’eccezionalità di Marat: come grande malato, grande perseguitato, grande visionario. Tre ritratti, dunque, ciascuno dei quali fornisce un tipo di intelligibilità: biopsicologica il primo, sociopsicologica il secondo, e infine politicoculturale.
L’interpretazione di Marat attraverso la malattia, quella dermatosi infiammatoria che ha alimentato un’immensa letteratura medica e che spiega la vasca da bagno e il turbante, è stata un tema provvidenziale per la storiografia controrivoluzionaria; del resto essa lo aveva trovato in Michelet, il quale colpito nel vedere quali “strane malattie corrispondono alle situazioni estreme”, sembrava quasi invocare una patologia del Terrore. I1 suo desiderio è stato esaudito, perché, a cominciare da Taine, il misterioso morbo di Marat è stato identificato col morbo giacobino, il suo delirio con la nevrosi rivoluzionaria, quando la febbre delle masse corrispondeva alla febbre dell’uomo. Questo discorso sbrigativo, destinato a finirla una volta per tutte con Marat e la rivoluzione riducendo lo sconvolgimento politico alla disfunzione individuale, è stato del tutto screditato per il suo oltranzismo. Ma non è certo che Marat possa essere compreso senza far riferimento al tema della malattia. Sia che la si prenda come causa: l’irritazione del corpo avrebbe predisposto Marat, come confessa egli stesso, alla violenza. Sia che la si prenda come effetto: contratta durante una vita di forzata clandestinità, in “quei sotterranei che avevano esulcerato la sua anima” (come suggerisce, caritatevole, Danton), prezzo del sur menage politico (come afferma Marat, che è abile nel drammatizzare il proprio male), la malattia di Marat sarebbe allora l’allegoria di tutta la sua biografia. La frequenza con cui appaiono nella sua prosa le metafore patologiche, il pessimismo antropologico che gli fa scorgere dappertutto dei francesi troppo corrotti e troppo malati per la libertà che hanno ottenuto, possono alimentare questa interpretazione. Ma in tal caso Marat soffre per la sua vita, non per il suo corpo, e si esce allora dalla razionalità biologica per entrare in quella sociopsicologica.
Questa fa di Marat il tipo dell’intellettuale frustrato per eccellenza, divenuto rivoluzionario fanatico “nelle profondità dei bassifondi intellettuali”, dove è nata “la determinazione giacobina a liquidare l’aristocrazia dello spirito” (Danton). In tal caso la violenza di Marat esprimerebbe la situazione del paria, bambino strappato precocemente alla famiglia, cittadino senza patria, medico senza diploma, scienziato privato di ogni riconoscimento intellettuale, i cui lavori sono accolti dalle accademie con indifferenza o scetticismo, nonostante lo zelo cortigiano con cui egli cerca di forzare la loro stima e le loro porte. Tuttavia, la frustrazione oggettiva descritta da Robert Darnton può essere contestata. Gottschalk ha stabilito che in Inghilterra, lungi dall’essere un paria, Marat è stato un “gentleman dalla considerevole posizione”. Daniel Roche, persuaso che le ambizioni scientifiche di Marat fossero tutt’altro che mediocri e limitate, bilancia i sarcasmi che egli ricevette da Voltaire con la stima che gli dimostrò Diderot, e osserva che vi fu almeno un’accademia, quella di Rouen, disposta a incoronarlo. Gérard Walter fa notare che gli accenti sovversivi rimangono immutati in Marat, qualunque siano gli episodi di miseria o di agiatezza, della sua vita. Ma tutto ciò, in fondo, importa poco Nulla è più estraneo al senso di frustrazione della misura “oggettiva” delle sue motivazioni: la passione del risentimento non è mai a corto di ragioni. In compenso, a tutti quelli che la sperimentano, la rivoluzione fa una promessa inaudita: poter vendicare il disprezzo subito o immaginato e, attraverso loro, l’Umanità. È proprio così che Marat l’accoglie: qui si trova dunque una chiave per capire Marat, ma non l’eccezionalità di Marat.
Essa consiste allora in una capacità notevole di discernere l’avvenire della rivoluzione? Su questo punto occorre soffermarsi un po’ di più: infatti vi sono molti modi di anticipare e, a piacimento degli interpreti, sono stati tutti attribuiti a Marat. Così, prima del grande avvenimento, egli avrebbe annunciato la rivoluzione stessa, anticipazione che un montaggio di citazioni ben scelte nelle opere prerivoluzionarie di Marat potrebbe anche sostenere, ma che un altro montaggio potrebbe invece distruggere completamente (un solo esempio: nelle Channes de l’esclavage, dove Marat sembra anticipare il regicidio, la frase “l’uccisione di un principe non è che un semplice assassinio” è stata spesso messa in rilievo isolatamente, senza menzionare quel che segue subito dopo: “Dio non voglia che io cerchi di attenuare l’orrore che simile delitto deve ispirare”). Oppure egli avrebbe intravisto, nella rivoluzione, le rivoluzioni future o i loro sviluppi. Questa seconda interpretazione comporta parecchie varianti, marxisteggiante, “ganchiste”, reazionaria.
Marat precursore del socialismo? Così l’hanno visto Jaurès, Mathiez, Vovelle. Il fondamento di questa interpretazione è la riflessione di Marat sui diritti dell’uomo, “bei diritti alterati, mutilati, troncati e perfino annientati dai decreti successivi”; la prescienza della distinzione fra diritti formali e diritti reali, evidentissima nella veemente arringa in favore dei cittadini passivi, iniquamente considerati come esseri di nessun valore, in spregio alla dichiarazione dei diritti; la coscienza dell’ “influsso delle ricchezze sulle leggi” e il presentimento che il popolo “dopo aver infranto il giogo della nobiltà può bene infrangere il giogo dell’opulenza”. Tutte anticipazioni che spiegano il costante appoggio dato a Marat, dopo la sua incriminazione del gennaio 1790, dal distretto radicale dei cordiglieri, e che sostengono la tesi di Jaurès secondo cui “grazie a Marat il proletariato prende coscienza, fino a un certo punto, di formare una classe”.
Fino a un certo punto: questa prudenza è stata spazzata via da Mathiez. Là dove Jaurès vedeva, nell’appello ai proletari, un episodico gesto di disperazione, Mathiez legge una volontà consapevole di se stessa: “Tutto lo sforzo di Marat è consistito nell’insufflare ai proletari una coscienza di classe.” Ma i testi di Marat non permettono affatto questa sistematizzazione. Quelli anteriori alla rivoluzione esprimono i luoghi comuni del suo ambiente intellettuale (fra cui l’elogio della religione come garante della morale e della monarchia limitata); i testi rivoluzionari continuano a diffonderli, almeno fino alla metà del 1791. Ancora nel marzo 1793, Marat dichiara di considerare la legge agraria una “dottrina funesta” e ricorda di aver “lamentato cento volte che princìpi ugualitari troppo spinti ci avrebbero portato a questa fatale conclusione”. Marat, senza dubbio, mette in musica il lamento di “quelli che non hanno nulla contro quelli che hanno tutto”; ma non riesce a immaginare nessun sistema capace di salvare questi dannati della terra.
Il secondo modo di raffigurarsi un Marat anticipatore è di erigerlo a precursore del “ganchismo”. Nelle sue dichiarazioni si rileva allora l’ostilità a ogni tipo di rappresentanza (che aveva attinta da Rousseau e dall’esperienza, per lui repulsiva, della vita politica inglese); la scelta costante del voto per alzata di mano (e perfino, nel processo del re, la richiesta di un suffragio scritto di pugno del votante su un “registro speciale”); il senso di una rivoluzione interminabile, mai veramente compiuta; la pratica del rivoluzionario che si confonde nel popolo come il pesce nell’acqua; la preferenza accordata alle masse rispetto agli “apparati”. Infine, specie per Massin, la cui biografia illustra questa interpretazione, la valutazione “corretta” del problema della violenza. Massin vede anzi in questa “correttezza” il segno della superiorità di Marat su Robespierre, tutto impastoiato nel rispetto della legge. Marat fonda perciò, per lui, una delle tradizioni del movimento operaio francese.
Ancora una volta, questa coerenza è ottenuta a prezzo di una volontaria unificazione dei discorsi e dei ruoli di Marat, che in realtà sono dovuti in gran parte alle circostanze; l’ “appello al popolo”, che dovrebbe sedurre un simile avversario della rappresentanza, incontra invece l’ostilità di Marat, a causa dell’inopportunità di trasformare i contadini in politici, strappandoli ai loro campi: argomento inatteso in un “basista”. Talvolta, del resto, gli capita di trovarsi a rimorchio e non a capo di un movimento popolare che cresce indipendentemente da lui: tutto occupato, nell’inverno del 1793, dal processo del re e dalla lotta contro i girondini, Marat è lento a comprendere la portata dell’attacco di Jacques Roux contro gli accaparratori. Insomma, a quest’uomo d’avanguardia succede di restare molto indietro rispetto agli avvenimenti.
Il terzo ritratto di un Marat anticipatore appartiene alla letteratura controrivoluzionaria, che dà il massimo rilievo alla candidatura di Marat alla dittatura, già percettibile nell’Appel à la nation, scritto in Inghilterra nel 1790, che acquista tutta la sua forza dopo Varennes. Un tema che riprende anche Mathiez, cercando di dimostrare che Marat voleva la dittatura non tanto come un prolungamento della rivoluzione, quanto come una parentesi, giusto il tempo di schiacciare definitivamente la classe sconfitta. Ma l’appello di Marat alla dittatura è ben lontano dall’essere un’anticipazione: esso è insieme una fantasticheria personale e una visione del tutto arcaica del tribunato, che mescola la guerra alla giustizia. Come gli uomini del suo secolo giocano a “se fossi legislatore”, Marat gioca a “se fossi tribuno del popolo”: nella sua immaginazione si attribuisce “il concorso della forza pubblica” e il privilegio di punire i colpevoli. Questo sogno, per giunta, in lui è circostanziale e convulsivo. Qui come altrove, Marat mescola senza criterio conservatorismo e radicalismo, e nessuna teoria fa di lui un uomo eccezionale.
Lo è stato, almeno, per il suo ruolo effettivo nella rivoluzione? Pur abbandonando la tesi di un destino particolarmente sfortunato o di un pensiero singolarmente avanzato, la straordinaria violenza di Marat potrebbe essere ancora riferita agli avvenimenti da lui vissuti. Si è costretti tuttavia a constatare che questa violenza non è quella dell’azione: la partecipazione effettiva di Marat alle giornate rivoluzionarie resta dubbia. Il ruolo che svolse il 14 luglio 1789 è un arrangiamento letterario retrospettivo. La sua partecipazione al 10 agosto è testimoniata solo da uno scritto del 9 agosto, in cui egli suggeriva di tenere in ostaggio la famiglia reale: una proposta il cui impatto è difficile da valutare, e che aveva già avanzato cento volte in precedenza. I massacri di settembre, cui lo si associa automaticamente, gli sono attribuiti in genere a causa della sua ingiunzione del 19 agosto “Passate a fil di spada tutti i prigionieri dell’Abbaye, in particolare gli svizzeri…” e per la sua firma sulla circolare del 3 settembre che invita la provincia a far pressione su Parigi. Come ha dimostrato Caron in modo definitivo, sono sempre i discorsi di Marat, prima o dopo l’avvenimento, a determinare le sue responsabilità. In compenso’ la sua partecipazione alla proscrizione dei girondini è meglio accertata; Michelet ed Esquiros, ripresi da Aulard, fanno di Marat l’organizzatore del 2 giugno: “Vi amministrò grazia e giustizia e giustizia,” scrive Michelet. “I re non fanno niente di diverso.” È lui, infatti, che ottiene la prima abolizione del “Comitato dei dodici”, impedisce che il compromesso proposto da Barère abbia successo, fa rimaneggiare la lista di proscrizione. Tuttavia, il giorno decisivo non è dai giacobini, ma alla Convenzione, per qualche intervento insignificante. Marat è sempre fisicamente assente dalle giornate rivoluzionarie. Interpretarle come il frutto dei suoi scritti significa precisamente adottare la sua logica megalomane: Marat ha voluto essere colui la cui penna valeva quanto un esercito di centomila uomini, e a cui bastava scrivere una parola La sua convinzione fondamentale è quella dell’identità dell’azione e della parola: rifiutargliela, per lui, equivale a operare la controrivoluzione.
Qui si arriva a quel che costituisce, molto più del suo pensiero o delle sue azioni, il carattere eccezionale di Marat. Egli si è inventato una parte destinata a un bell’avvenire quella del giornalista che orienta e forma l’opinione pubblica e si è identificato con il suo giornale, al punto che la sua vita durante la rivoluzione si confonde con il suo foglio: è pubblica quando esso esce, clandestina quando è proibito. E per l’Ami du Peuple, che è la sua vita, si è inventato un linguaggio: qui sta la sua originalità.
L’originalità è innanzi tutto quella dell’analista della rivoluzione: nessun giorno passato della rivoluzione trova grazia ai suoi occhi, nessun giorno futuro gli sembra promettere nulla di buono. I1 pessimismo circa il passato è il frutto di un procedimento retorico, l’uso meccanico di un “non … che” tale da sgonfiare tutti gli entusiasmi. La notte del 4 agosto? Non è stata ottenuta che con l’incendio dei castelli. La federazione? La sua euforia non si spiega che con la frivolezza francese. I1 20 giugno? Non si è fatto altro che “calcare un berretto rosso sulle orecchie di Luigi XVI”. Il 10 agosto: non è che l’illusorio voltafaccia dei deputati arcicorrotti. In quanto ai giorni avvenire, sono tutti gremiti di immagini di sventura. L‘Ami du Peuple è pieno di “atroci misteri svelati”, di “trame infernali scongiurate”, di pronostici (Jaurès, sempre penetrante, ha avvertito che, in tal modo, Marat comunicava con l’immaginazione popolare). Marat non si stanca di preannunciare la partenza delle zie del re, la diserzione di La Fayette, la corruzione di Mirabeau, la fuga a Varennes, il tradimento di Dumouriez. E siccome tutto ciò avviene realmente, i lettori del giornale hanno buon gioco a sottolineare la straordinaria prescienza di Marat, e Marat stesso a vantarsi: “Più di trecento predizioni avverate provano che so giudicare gli uomini e le cose.” Dopo di che le predizioni non avverate, evidentemente, non contano nulla.
I1 profeta di sventura, nel quale Mathiez vedeva “un meraviglioso psicologo”, attinge la sua costanza da un’interpretazione assai monotona dei mali della rivoluzione e dei loro rimedi: quella del complotto universale ordito contro la rivoluzione dalle classi privilegiate, dai ministri favoriti, il divino Motié, l’infame Riquetti, tutti e nessuno. Malgrado la violenza verbale, Marat mostra una specie di indifferenza per quelli che recitano la parte dei cospiratori: essi servono soprattutto a dimostrare che lui, Marat, non lo è, e a garantire la purezza e l’integrità del suo discorso.
L’unico rimedio adatto a una causa così meccanicamente identificata delle sventure dell’epoca è la purga. Secondo i casi, Marat reclama la testa dei Capeto fuggitivi, oppure “seicento teste ben scelte”, oppure le “duecentomila teste” che i girondini non gli perdoneranno. L’importante, però, non sta nel numero, dato che questo è comunque irrisorio se paragonato alle vittime del dispotismo: uno dei temi ricorrenti di Marat è quello delle “gocce di sangue da versare” per evitare di versarne fiumi, dei “pochi individui” da punire per salvare la massa dei miserabili. Questa logica sacrificale, che contrabbanda la violenza, è contagiosa. Robespierre non disdegna di servirsi di ciò che Marat chiama “un calcolo semplicissimo”, e proprio lui, che tanto rifugge dall’esibizione, imita ancora Marat presentandosi come un uomo quasi morto e offrendo, per risparmiare altro sangue, il proprio sangue.
Si indovina perché Marat, personaggio così solitario della rivoluzione, possa tuttavia sembrarne, qualche volta, l’incarnazione. L‘Ami du Peuple non solo diffonde la filosofia del complotto, inseparabile dal giacobinismo, ma inventa anche il linguaggio del Terrore. Con, al centro di tale linguaggio, l’ossessione della visibilità. I1 male assoluto, per Marat, non è tanto l’ostilità dei controrivoluzionari quanto l’ostinazione del popolo a non accorgersene. I francesi ci vedono male: ora perché gli orpelli delle “vanità” li abbagliano, ora perché sonnecchiano. I due peccati nazionali sono la grullaggine si crede di vedere quando non c’è niente da vedere e la letargia non si vede nulla quando occorrerebbe vedere. E principale delitto è sfruttare queste debolezze, come fanno i “Brissotini”, o Pétion “lo spacciatore d’oppio”, o “Roland l’addormentatore”. Fra addormentati e bricconi, non c’è che Marat, nella parte solitaria di sentinella del popolo, che veglia sulla rivoluzione mentre tutti dormono, instancabile accusatore dei colpevoli: l’unico a vederci chiaro, a strappare i veli, a far fuggire i traditori che “nulla temono quanto gli scritti luminosi degli scrittori patrioti”. Marat è l’occhio del popolo.
Qui Marat tocca una corda sensibile nell’immaginario della rivoluzione, preso dall’ossessione della vigilanza o della sorveglianza, il cui occhio risplende sulle sue bandiere. Essa spiega, più dell’odio, cosa significa la denuncia per Marat. Félix Le Peletier l’ha detto meglio di tutti: “Marat fu tanto più grande in quanto rovesciò il pregiudizio più radicato che sia mai esistito, quello che copriva di vergogna e d’infamia chi denunciava un traditore, chiunque egli fosse. La denuncia è la madre delle virtù, come la sorveglianza è la più sicura garanzia della felicità del popolo e della libertà.” La denuncia è infatti per Marat una semplice indicazione che all’istante strappa la benda dagli occhi, dissipa i sortilegi. Quest’immediatezza non sa che farsene delle prove; ha bisogno solo di induzioni, sempre sicure per “l’osservatore che conosce i moventi delle passioni umane”. Donde il carattere non falsificabile del discorso di Marat. Nel maggio 1791 egli scrive a Desmoulins che, per giudicare gli uomini, non ha alcun bisogno “di fatti positivi, chiari, precisi. Spesso mi basta la loro inazione o il loro silenzio nelle grandi occasioni.”
Questo discorso non argomentato, ansimante, infarcito di imperativi di vendetta (arrestate, visitate, impalate, calpestate ecc.) conferisce a l’Ami du Peuple il suo aspetto di monologo frenetico, così ripetitivo da far pensare quasi che si tratti di un solo e identico numero, di una sola e identica idea martellata da un solo uomo. E da un uomo solitario. Marat ha rivendicato fieramente la propria solitudine (“l’unico uomo ad aver visto chiaro”), l’ha provata e costruita (nella seduta del 26 febbraio 1793, quando la Gironda lo attacca, ricusa l’unico deputato che si sia levato in sua difesa, Thirion) e non ha creduto neppure per un istante di poterla infrangere: né attraverso il dialogo con un popolo sostanzialmente vile, imbecille, stupido, cieco; né attraverso l’idea consolante della posterità (“l’esperienza dei padri è perduta per i loro figli e ogni individuo, partendo sempre dallo stesso punto d’ignoranza, si istruisce solo a proprie spese”). A quest’uomo così solo, come vede benissimo DuboisCrancé, è l’attacco girondino a dare consistenza, è il pugnale di Charlotte Corday a creare dei seguaci inaugurando il culto di Marat.
Ecco perché, nella rivoluzione francese, Marat è insieme esemplare e marginale. Marginale: lo attesta la difficoltà, per gli uomini della rivoluzione, d’integrare Marat, la loro propensione a considerarlo come un limite invalicabile; la difficoltà degli storiografi a farne un eroe; il fatto stesso che egli, la rivoluzione, più che metterla in atto, l’ha messa in parola: “Ho partecipato agli affari pubblici solo con i miei scritti.” Ma, proprio per questo, esemplare: figura emblematica del giornalista al servizio del popolo, incarnazione del nuovo e decisivo potere, l’opinione pubblica; portavoce anche delle paure più profonde dell’immaginazione popolare: la carestia, il pane avvelenato, il complotto; espressione, infine, come ha ben capito Thiers, di un pensiero atroce “un pensiero che le rivoluzioni ripetono ogni giorno a se stesse, a mano a mano che i pericoli si accrescono, ma che non si confessano mai, la distruzione di tutti i loro avversari”. Aver guidato instancabilmente questa verità nascosta tale è stata invero l’eccezionalità di Marat.
MONA OZOUF
ORIENTAMENTO BIBLIOGRAFICO
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