Una premessa, in luogo di conclusione, ai margini del seminario di Giuliano Procacci

“Le “storie” sono racconti, narrazioni: miti (in greco mithos, perché appunto mithos è il racconto e, al tempo stesso, l’arte di raccontare)”; e la Storia  “non la fanno gli uomini, la fanno gli storici che la scrivono e, con i loro racconti, umanizzano il tempo dilatandolo oltre i confini del presente sino alle sue zone estreme nelle quali si cela il segreto delle origini”;  per questo “la storiografia del secoli XV-XX è una manifestazione originale ed esclusiva del pensiero mitico”; e per questo ancora “la storia è un racconto del potere dell’uomo così come il racconto è una affermazione dell’io narrante”; e poiché ogni storia ha la sua morale anche “la Storia, “maestra di vita”, “insegna” e svolge una funzione didattico-noormativa, nella trasmissione dei valori”. La storiografia, insomma, è la orwelliana manipolazione della memoria a beneficio del potere e dei poteri?

Questi luoghi comuni che denunciano la crisi delle discipline storiche e segnano in qualche modo quel processo di progressiva detronizzazione del sapere storico dall’albero enciclopedico che chiamiamo, per semplificazione, “fine della storia”, hanno trovato implicita conferma nel seminario di Giuliano Procacci “Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismo nei manuali di storia”. Un seminario di studio dedicato all’analisi della manualistica storica  e, nei fatti, all’insegnamento della storia. Il testo di riferimento e il dibattito suscitato, mi consentono un ulteriore approfondimento delle riflessioni che da qualche tempo vado svolgendo (vedi bibliografia allegata) sul senso e la funzione della nostra professione. Il seminario cade inoltre contestualmente alla conclusione un breve saggio che vi allego e ne costituisce proprio la conclusione e la premessa insieme (vedi oltre). 

Le fonti di riferimento del seminario, i manuali scolastici di storia (per lo più contemporanei), sono dei prodotti comunicativi di massa frutto di linee di “politica” culturale che includono nei processi formativi lo studio del passato storico come criterio di costruzione dell’ “identità” individuale e collettiva. Per questo, giustamente, il relatore ha sottolineato la contiguità tra questo genere di storiografia e la deriva nazionalista che segna il XIX e buona parte del XX secolo. L’insegnamento della storia nelle università, e poi nelle scuole di ogni ordine e grado, è infatti connesso ai consistenti sforzi di alfabettizzazione che caratterizzano l’emergenza degli stati nazionali nel corso della seconda metà dell’Ottocento secolo prima, poi lo sviluppo e l’affermazione del totalitarismo nella prima metà del Novecento.

Tutto ciò non basta tuttavia a spiegare la Storia essa stessa come una fase dello sviluppo storico. Penso che Procacci sia d’accordo con me e per questo mi permetto di andare oltre i confini fissati dal tema del seminario nella speranza di chiarire il mio breve intervento e continuare il dialogo. 

L’uso politico e ideologico della storia nel quadro dello sviluppo delle forma stato e del potere che esso rappresenta (la sovranità nella sua forma pura di “potere dei poteri” come l’ha inventata Bodin), non esaurisce, e forse tradisce, il significato che la cultura occidentale ha dato alla storiografia. Se è vero, infatti, che la storia, il suo insegnamento e la sua codificazione (la gerarchia degli eventi sulla quale si costruisce il racconto storico) sono un prodotto della deriva nazionalista e totalitaria della forma stato, è altrettanto vero che lo stato stesso è un prodotto della storia e che la storia è nata in Occidente e nei secoli della modernità proprio come “teoria critica della società” per spiegare e fondare lo stato.

La storia è nata, nell’Europa occidentale dei secoli XV-XVIII, con l’ambizione di essere una teoria critica della società e quindi una fondazione antropologica, una celebrazione del soggetto come attore unico della realtà sociale e signore del suo tempo. E, da questo punto di vista, il sapere storico ha costruito il mito stesso dell’humanitas come oggi noi lo pratichiamo. La centralità dell’uomo al mondo e il suo essere misura di tutte le cose (il principio antropico); il privilegio della razionalità che gli assicura la conoscenza; il sapere come potere di agire sul tempo e sul mondo; sono i fondamenti della antropologia della modernità dai quali prende vita la storiografia e cioè la narrazione delle vicende umane come spiegazione del razionale scorrere del tempo, come criterio di continuità nell’evidenza delle discontinuità. Per questo, e non per altro, la storiografia trionfante del XIX secolo ha individuato nell’Europa della modernità, il paradigma complessivo della civiltà umana: l’emergenza de soggetto e la sua funzione/diritto (ma anche responsabilità) di governo del mondo. E se la derivata di questa particolare teoria critica della società è stata l’espansione della civiltà occidentale a livello planetario (che chiamiamo “imperialismo”), nondimeno la teoria storiografica della modernità (antropocentrica ed eurocentrico) si è fondata non già sulla costruzione di identità nazionali, ma sull’affermazione delle dignità dell’uomo come prodotto finale del ciclo evolutivo e manifestazione della vita nel suo più alto significato. La storia insomma ha insegnato e dovrebbe insegnare la dignità dell’uomo come prodotto esclusivo di un modello di cultura.

Che poi la deriva imperialista della seconda metà del XIX secolo e quella totalitaria del XX secolo, creando fenomeni di concorrenza tra gli stati-nazione abbia assunto la storiografia come strumento di legittimazione del potere (a base territoriale, culturale, etnica o razziale) ciò a ben poco a che fare con le funzioni originarie del sapere storico o ne costituisce un processo degenerativo (forse anche un irreversibile esaurimento). 

L’invenzione della tradizione (processo di decelerazione del movimento storico, adozione di rituali sociali e politici a base temporale, reazione conservatrice alla libera circolazione delle idee e dei racconti) è tutt’altra cosa rispetto alla funzione e al ruolo originario della storiografia. E l’insegnamento della storia che ne è derivato, e che attualmente in buona misura pratichiamo, è semplicemente un continuata manipolazione del passato a beneficio del presente, un presente per altro, di durata sempre più breve. Il processo è “storicamente” circoscritto al XX secolo, si intreccia con al proliferazione della forma stato e ne segue la crisi a livello planetario.

L’illusione poi che questo genere di storie “nazionali” possa creare identità a livello individuale e collettivo, non solo ci viene smentita quotidianamente dai nostri studenti vieppiù incoercibili a questo genera di manipolazioni, ma non trova riscontro alcuno nella funzione stessa del sapere storico che è quella di unificare, universalizzare l’humanitas, non di frammentarla. La Storia, innanzi tutto, è amicizia tra gli uomini.

Al riguardo va anche ricordato che la storiografia, quando scende sul terreno della nazionalizzazione delle masse nella seconda metà dell’Ottocento, dispone di strumenti teorici e metodi primitivi: il paradigma dei “caratteri” nazionali. La carratteriologia di buona memoria (Teofrasto), una filosofia dei modelli culturali piuttosto fantasiosa e una antropologia in fasce sono le fragili metodologie di cui gli storici dispongono. Piste di ricerca che si richiamano tutte in qualche modo a un darwinismo perlomeno poetico. Per questa sua supponente fragilità il sapere storico genera, distanzia, e perde per strada, il fascio delle scienze umane che hanno fatto il tono della cultura del XX secolo (psicologia, antropologia, linguistica, sociologia, e epistemologia, ecc.); si chiude su se stesso in un processo autoreferenziale, in alcuni casi si asservisce e racconta storie su commissione che, proprio a partire dai manuali, tradiscono l’impegno e la ricerca. Che cosa sia l’identità gli storici forse non lo hanno mai saputo e non è loro mestiere.

Che ne è dunque della storia e del suo insegnamento?

Le domande che stanno in premessa a questi interrogativi, che il seminario sembra aver suscitato senza dare risposte, dovrebbero forse essere le seguenti: siamo così certi che oggi (un tempo che sembra ormai aver superato l’esperienza della modernità come modello di cultura) la storia-storiografia possa costituire e costruire una adeguata teoria critica della società? Siamo poi così sicuri che la celebrazione e l’emergenza del soggetto (dell’humanitas intesa come centralità dell’uomo al mondo) sia una procedura di crescita morale della realtà?

Domande alle quali implicitamente ho cercato di dare una risposta nelle riflessioni che vi affido. E sulle quali il dibattito è aperto.

Roberto Moro

Tempo, memoria, linguaggio.

riflessioni patafisiche tra Grande scienza e piccola Storia

Roberto Moro

Tempo, memoria, linguaggio.

riflessioni patafisiche tra Grande scienza e piccola Storia

Scriveva madame de Stael, nel tentativo di interpretare e dare ordine agli eventi della Grande rivoluzione: “gli uomini camminano verso il futuro con la testa rivolta al passato”. In altri termini: gli uomini, giganti immersi nel tempo, vivono della loro memoria, del sedimento di esperienze cumulato nel passato, dei valori che il ricordo di queste esperienze consente di praticare e trasmettere, insomma della Storia che, “maestra di vita”, “insegna”, attraverso il racconto, le origini del tempo umano e ne fissa le leggi di moto. Per questo forse, oggi, gli storici non riescono a vedere il futuro e neppure il presente che ci avvolge.

Gli storici operano su alcune essenziali dimensioni della percezione umana individuale e collettiva: il tempo e la memoria, l’interpretazione e la narrazione. Che cosa siano il tempo e la memoria, per ora, non si sa e gli storici non sembrano interessati ad approfondire il problema. Per quanto attiene all’interpretazione e alla narrazione si tratta di dimensioni speculative che, nel corso del XX secolo, hanno investito un ordine di saperi (linguistica, semeiotica, semantica,  psicolinguistica, scienze cognitive, ermeneutica, ecc.) dai quali gli storici si sono tenuti a debita distanza lasciando il campo alle romanticherie dei filosofi della storia e ai labirinti concettuali degli epistemologi. 

Per questa via il Novecento ha finito per essere il secolo della Grande scienza e della piccola Storia. La crescita dei saperi scientifici è stata così rapida che il 90% di tutti gli scienziati nati e vissuti sulla terra vive ai nostri giorni e appartiene alle ultime tre generazioni. Il ritmo di sviluppo della ricerca, in termini di produzione scientifica, è esponenziale e la disponibilità di conoscenze, dal 1600 a oggi, è di uno a un milione. Lo stesso non si può dire per le discipline umanistiche che registrano ritmi di crescita e di investimenti (in termini di risorse umane e supporti tecnologici) assai più modesti. In particolare, per quanto ridondante, la produzione storiografica, dopo la stagione delle ideologie trionfanti del XIX secolo (per intenderci dall’Esaais sur les Moeurs all’Histoire socialiste) è in decremento costante a livello internazionale, le grandi scuole sono in disarmo e la microstoria è divenuta intrattenimento. Inutile dire che la storia patria del nostro Paese arranca a fatica.

Il tempo in cui viviamo è certo quello della Grande scienza il cui ritmo di crescita ha modificato l’approccio e la struttura delle conoscenze umane e forse verrà ricordato come quello della Piccola storia incapace di inseguire le nuove velocità del tempo. I nuovi saperi, generati dalla ricerca scientifica, dalla sua organizzazione e dalla collaborazione tra tecnologi e scienziati della seconda metà del Novecento, paiono, del resto, anch’essi in buona misura già obsoleti per effetto di nuove ondate (vere e proprie ere) dello sviluppo tecnologico degli ultimi due decenni. A partire da 20/30 anni or sono (la data convenzionale è generalmente indicata dagli storici del presente nel 1989) un formidabile impulso di conoscenze ha offerto nuovi approcci a una pluralità di discipline e si va facendo strada l’ipotesi che proprio gli scienziati  e i tecnologi siano i “nuovi umanisti”. Il distanziamento tra saperi scientifici e sapere umanistico, che nel corso del XIX secolo aveva trovato il suo punti equilibrio nella “malattia del futuro” positivista, sembra ora condannare molte discipline all’oblio. Filosofi e storici si muovono a disagio nelle nuove dimensioni dello spazio e del tempo.

Si tratta di sapere, e la curiosità è legittima, che opportunità di riflessione e approfondimento i nuovi approcci di ricerca offrano alla storiografia e alla professione dell’insegnamento storico. Che stimoli se ne possono ricavare e quali azioni di riallineamento al dibattito culturale questi approcci possano offrire al sapere storico e ai suoi metodi.

I approccio – Orologi e cronologie.

Le dimensioni del tempo “storico” sono profondamente mutate. Facciamo due conti, in date larghe e larghissime perché geologi, biologi e paleoantropologi lavorano così e da circe venti-ternt’anni sono loro a tenere banco. 3,8/3,5 miliardi di anni fa inizia la vita (concetto complesso e ancora da definire che per noi umani si intercetta agevolmente solo nella contrapposizione con quello di morte): è la prima cellula, scatta l’orologio biologico

L’evoluzione prende il via e procede con i suoi ritmi misteriosi. Il tempo passa e le date corrono. 13/8 milioni di anni fa (milione più, milione meno) si fanno avanti le prime scimmie antropomorfe e prende il via una galleria di antenati per nulla rassicurante; si tratta di un cespuglio evolutivo che allinea un insieme di specie sempre più numerose a partire dai ritrovamenti fossili dell’ultimo decennio. Il tempo può sembrare lungo e interminabile, ma è quello che sta tra l’organismo unicellulare e i primati i quali organizzano, nelle loro dimensioni corporee, un miliardo di milioni di cellule e le fa interagire. Poi, 500/300 mila di anni fa, compare la nostra specie annunciata dall’erectus. L’Homo, nelle sue molteplici varianti, è ormai assai poco diverso biologicamente dal suo risultato finale. Si forma il linguaggio umano (si ipotizza che Homo erectus avesse acquisito una sintassi condizionale) e scatta l’orologio culturale

L’accelerazione temporale prende il via per effetto di inattese discontinuità evolutive (la corteccia cerebrale) e, poco più poco meno di 100 mila anni fa, arriviamo noi, i Sapiens sapiens: il prodotto finale  dell’evoluzione che in un lampo (70/90 mila anni) occupa l’intero pianeta senza incontrare ostacoli. A partire probabilmente dall’Africa il Sapiens arriva in Australia e Nuova Guinea 60/55 milioni di anni fa, occupa l’Europa 40/35 milioni di anni fa, migra nelle Americhe 35/15 mila anni or sono. Biologicamente il processo evolutivo della specie si è già concluso, ma l’invenzione dell’agricoltura consente un nuovo modello evolutivo, quello bio-tecnologico. Scatta l’orologio tecnologico

Nel giro degli ultimi cinquemila anni il moltiplicatore demografico è di 1 a 1000 e poco meno di 500 anni fa prende il via, a partire dal continente europeo, un processo di globalizzazione delle tecnologie che annulla i confini tra culture, razze, etnie.

Questa storia, scandita dai diversi orologi ciascuno dotato di una sua scala temporale e di ritmi propri, la possiamo raccontare solo ora per effetto delle rivelazioni di un insieme di discipline che non appartengono alla tradizionale storiografia. E, da questo punto di vista, il processo di globalizzazione in atto appare più un epilogo, una stazione finale che una novità inattesa, un punto di partenza, una svolta. Quello che il ticchettio di questi orologi (quello del tempo biologico, di quello culturale e di quello tecnologico) ci rivela, ma forse è solo un’illusione, un effetto acustico, è la crescente accelerazione del tempo e la progressiva impossibilità di umanizzarlo, di imporgli un ritmo attraverso la cronologia degli eventi umani e cioè di “fare” storia. La storiografia, infatti, è nella sua sostanza un generoso tentativo di umanizzazione del tempo, di ridurlo all’umana esperienza in un racconto lineare, dal principio alla fine. Verso gli anni Ottanta del XX secolo, però, sembra che la velocità del tempo e la sua capacità di produrre e organizzare eventi in un ciclo lineare, come vorrebbero gli storici, sia venuta meno. Per effetto di accelerazione abbiamo sfondato il muro della storia: il futuro e il passato si sono rovesciati sul presente. Agli occhi dello storico sembra in qualche modo che la continua dilatazione del tempo e il suo impressionante progredire corra verso un abisso apocalittico: “motus in fine velocior”!. Siamo arrivati a fine corsa? 

Storia e filosofia annunciano la fine a partire dagli albori del Novecento; nichilismo e decliniamo hanno fatto il tono di una battaglia campale degli umanisti contro la tecnica, ma anche contro la scienza che è stata ostinatamente negata. E tuttavia anche secondo cosmologi, biologi, astrofisici, geologi, etologi, ecologi, metereologi, ovviamente su scale temporali diverse da quelle della storiografia minimale, intravedono a breve un capolinea o per lo meno un nebbioso confine. In un Avviso degli scienziati del mondo all’umanità del 1996, la data limite per la sopravvivenza della specie e di Gaia non è molto lontana. Vi è chi proclama il nostro secolo come “Secolo finale” e chi, ripercorrendo la breve, istantanea avventura dell’Homo sapiens, ne denuncia la portata catastrofica nella storia geologica del pianeta. Non pochi sono coloro che annunciano una inevitabile estinzione di massa. Sul versante tecnologico si fa strada l’ipotesi (ma anche la pratica) di una coevoluzione di bios e tecne il cui risultato sarà una scomparsa del Sapiens a favore dell’Homo tecnolgicus (ma anche “uomo planetario”): a breve saranno le macchine a ereditare la terra. In qualche modo già ora la storia del futuro prevale su quella del passato.

II approccio – estinzioni e sopravvivenza

Ora lo sappiamo (lo sappiamo da poco meno di vent’anni) e possiamo anche tracciarne la sequenza. Estinzioni e speciazioni scandiscono il corso dell’evoluzione. L’estinzione di massa è un evento durante il quale un grande numero di esseri viventi (dal 70 all’90 per cento delle specie) si estingue in un tempo geologico breve (qualche decina o centinaia di migliaia o pochi milioni di anni).

A partite da mezzo miliardo di anni fa si registrano cinque estinzioni di massa che hanno determinato la scomparsa di un complessivo che va, a seconda dei casi, dal 76 al 96% delle specie viventi. Il calendario delle piccole estinzioni che si possono registrare da 370 milioni di anni a questa parte è più nutrito e sembra seguire cicli di 26/30 milioni di anni. Dal Paleolitico, quando scattano l’orologio culturale e quello tecnologico, le testimonianze si fanno più precise e, in epoca storica, sono state datate. Se si sommano le specie scomparse, quelle in via di estinzione e quelle a rischio di estinzione ne emerge il quadro complessivo di una estinzione di massa in tempi istantanei (poco meno di 20 mila anni) e senza precedenti. Già ora la natura è stata manipolata e il paesaggio che ci circonda è frutto di una strisciante coevoluzione bio-tecnologica imposta dalla presenza umana. Nel giro di un paio di secoli (anche meno) con il ritmo attuale il processo evolutivo avrà cambiato la sua stessa natura e imboccato altre strade.

A fronte di questa prevedibile estinzione, quale sarà il meccanismo delle nuove speciazioni? In altri termini quali processi evolutivi, quali tempi e quali storie potranno prendere il via dall’orologio tecnologico?

Per effetto dei processi migratori e di inurbamento, del controllo capillare delle terre emerse e degli oceani, al cadere del secolo in corso biosfera e planisfera avranno una consistenza sensibilmente diversa da quella attuale e radicalmente mutata rispetto a quella di qualche secolo fa. Ed è del tutto prevedibile che le biodiversità (ma più corretto “biovarietà”) e il multiculturalisno a base etnica e storica costituiranno poco più che un ricordo. Questi vocaboli potrebbero essere già fin d’ora archiviati e ciò che chiamiamo natura, ambiente, ecosistema (parole e concetti in rapida successione) sarà declinato con altri nomi per designare nuovi livelli di realtà e di coscienza: l’orologio biotecnologico corre veloce e senza apparente possibilità di controllo. Le previsioni apocalittiche che animano il coro, sempre più acuto e sempre meno ascoltato, di scienziati e filosofi considerano il nostro secolo una sorta di secolo “finale” dell’esperienza umana e per conseguenza delle realtà stessa (che generalmente viene intesa come il prodotto della conoscenza). Le previsioni alternative e più ottimistiche si attendono una svolta per effetto dell’evoluzione biotecnologia, un salto di qualità e una progressiva (rapidissima) metamorfosi della condizione umana. Alternative alle manipolazioni genetiche non sembrano per ora realistiche, i processi di costruzione delle intelligenze artificiali paiono inarrestabili. Depotenziare la scienza e rallentarne lo sviluppo è un intervento apparentemente contrario alla natura umana come si è definita e imposta fin dalle sue origini: il sapiens, appunto. Controllare socialmente e politicamente l’impatto della scienza sullo sviluppo tecnologico è, da più di 500 anni, una contraddizione in termini: per effetto di questa contaminazione tra sapere e sapere strumentale, la ricerca scientifica procede in forza della strumentazione tecnologica e viceversa. Anche il termine di sopravvivenza sembra incapace di indicare procedure che arrestino o rallentino la deriva dell’evoluzione biotecnologia in corso. La Grande scienza si orienterà verso una nuova definizione di vita e di humanitas e, in questo senso, scienziati e tecnologi si presenteranno appunto come i “nuovi umanisti”.

Probabilmente ci troviamo già in presenza di una graduale revisione del concetto stesso di vita, sinora generalmente intesa come azione ed evento di moto, espansione e autoriproduzione (creazione, rigenerazione) a fondazione antropica e cioè intesa come un misto impreciso di spiritualità e razionalità, di organicismo e meccanicismo con il quale ci si è illusi di definire una volta per tutte l’alterità delle specie rispetto al cosmo e alla sue leggi. Un segnale della tendenza in atto è l’affermarsi, nel linguaggio comune, dell’espressione “vita artificiale” (coniata appunto negli anni ’80 per andare oltre i limiti costrittivi della metafora “intelligenza artificiale”) cioè un bios effetto di procedure del tutto estranee al tradizionale meccanismo evolutivo.

Probabilmente quello a cui dobbiamo pensare è un evento di vita, un racconto di azioni, non più a fondazione antropica, ma assai più dilatato nelle dimensioni di spazio e di tempo, un’epopea che proprio l’orologio tecnologico ci consente di misurare e che ha già trovato ospitalità nel racconto scientifico (ciò che impropriamente traduciamo con il termine fuorviante di fantascienza). In altri termini quello che è in discussione, che insensibilmente muta sotto i nostri occhi, è quella stretta relazione tra vita e morte del soggetto in base alla quale abbiamo, nel corso dell’esperienza umana, affermato il bios.

Quanto è accaduto nel corso degli ultimi 20/30 anni, e segna l’imminente futuro, è il superamento del muro dell’invisibile e dell’inudibile (e dell’inimmaginabile) da parte dei nostri sensi per effetto del corto circuito tra approccio scientifico e tecnico nella ricerca assistita da nuovi attori strumentali: la nuove tecnologie. Quel che ci si può chiedere insomma è se l’evoluzione (o coevoluzione, che è lo stesso) biotecnologia non sia già una opzione per l’evoluzione futura di breve medio termine e cioè se sia il futuro prevedibile (la congettura immaginativa) e non il passato a fare storia, creare gli eventi e il metodo per narrarli. Un approccio per rispondere a questi interrogativi può essere offerto dalle nuove indagini su quella struttura della razionalità umana, il linguaggio, che per molti secoli ha fondato l’antropologia occidentale.

III approccio – linguaggio e brusio

Nella sua accezione più semplice e ampia il linguaggio è un mezzo per lo scambio di informazione, uno strumento e un’arte, insomma una tecnica. L’uomo e la sua cultura hanno sempre attribuito un carattere esclusivo al linguaggio come criterio identificativo dell’humanitas stessa. L’orologio culturale dell’umanità si muove in funzione del linguaggio che materializza, archivia e trasmette l’esperienza conoscitiva. Le organizzazioni umane, in base a una convinzione ormai universalmente diffusa, sono il risultato di un agire comunicativo che sviluppa linguaggi e metalinguaggi ai quali è conferito il compito di razionalizzare il sistema di relazioni e scambio tra i viventi. In virtù del linguaggio è, infatti, possibile anche la narrazione e questa è, per effetto dell’io narrante, la più forte affermazione del soggetto, il fondamento della sua identità. Per questo il problema delle origini e del significato di questa esclusiva tecnica, “dono degli dei”, è stato al centro della riflessione e della ricerca probabilmente di ogni sistema culturale, sicuramente della cultura occidentale. Esiste un flusso coerente nello studio del mezzo a partire dalle prime ipotesi greche: grammatica, fonetica, etimologia e morfologia hanno sviluppato, sull’arco di duemila anni, una conoscenza sistematica dei segni parlati e scritti; glottologia, cronoglottologia e filologia hanno poi disegnato il sistema complessivo delle parentele di tutte le lingue vive, in via di estinzione e morte del pianeta. Nel XIX secolo l’insieme di questi saperi rivendicava un ruolo di vera scienza e una sua crescente centralità nell’albero enciclopedico: “la scienza linguistica è un paso avanti dell’uomo che acquista una crescente consapevolezza di sé”.

Nel corso del XX secolo la linguistica (la scienza del linguaggio) si è stabilmente insediata nel corpo delle scienze umane e vi ha svolto un ruolo egemone. Ha generato nuove discipline e nuovi approcci metodologici (semeiotica, semantica, psicolinguistica, antropologia strutturale, scienze cognitive, ecc.); ha dato fondamento a scuole di pensiero come lo strutturalismo e, sul finire degli anni Settanta, si è incrociata con i linguaggi informatici e i nuovi territori offerti dall’intelligenza artificiale per dare vita a quel fascio di discipline che vengono ormai declinate come “scienze della comunicazione”. E la comunicazione, con le sue molteplici tecniche e i suoi linguaggi in via di espansione e moltiplicazione, è divenuta la metafora e il paradigma del presente: viviamo nel mondo della comunicazione, conoscere è comunicare, la civiltà è comunicazione. Il nostro mondo, da poco meno di cinaquant’anni si vuole aperto, libero e senza confini negli scambi di esperienze, linguaggi, cultura, identità e prodotti.

Proprio sulla scorta di un così ampio paradigma interpretativo, da poco meno di una ventina d’anni, biochimica, audiochimica, bioluminosità, in forza di nuove tecniche di ricerca e della collaborazioni tra  fisici, informatici, biologi, genetisti e psicologi hanno dilatato il campo della linguistica e del linguaggio oltre i confini delle comunicazioni umane.

Risulta oggi del tutto evidente che anche i primi organismi vissuti sulla terra hanno sviluppato meccanismi e tecniche per lo scambio di informazioni sulla specie, il sesso, le intenzioni e le emozioni. Segnali chimici hanno fornito per milioni di anni lo strumento più efficiente per la comunicazione tra i viventi ed è in seguito a questo processo evolutivo che è nato il linguaggio nelle sue forme via via più complesse ed efficienti. Oggi sappiamo che ciascuna organizzazione di esseri viventi è dotata di un linguaggio e che ogni tipo di linguaggio nel mondo naturale è diverso dagli altri. Comunicano tra loro le cellule, parlano le piante, e gli animali realizzano sofisticate organizzazioni sociali in virtù di processi comunicativi costanti.

I linguaggi di insetti, uccelli, mammiferi sono in via di decodificazione. Sappiamo che i pesci non sono muti e che i cetacei cantano al pari degli uccelli, che all’interno del linguaggio di una specie vi sono varianti dialettali e vi è chi si è impegnato a decodificare il canto delle megattere nella speranza di raccogliere il segreto delle loro composizioni musicali che potrebbero narrare saghe mitiche e antiche epopee. La domesticazione dei cavalli è scesa da mesi a pochi giorni perché riusciamo a comunicare efficientemente con loro e per quanto riguarda i primati si sono registrati successi del tutto straordinari.

Alla fine degli anni Settanta è stato insegnato alle scimmie antropomorfe il linguaggio mimico dei sordomuti. Nella sua punta di eccellenza questo genere di esperienza offre il risultato di primati che utilizzano un vocabolario attivo e passivo di un migliaio di segni e si è proceduto a dar loro voce mediante una apposita tastiera che funge da sintetizzatore vocale. Ulteriori esperienze hanno dimostrato che l’abilità linguistica di tutte le scimmie è probabilmente identica, indipendentemente dalla specie.

Per effetto di nuove tecnologie che ci hanno consentito di superare il limite dei nostri sensi e delle nostre percezioni, scopriamo oggi un mondo della vita dotato, nelle sue infinite forme, di sistemi di comunicazione retti da regole, convenzioni e segni che coesistono e forse coevolvono con noi. E il nostro linguaggio sembra destinato a interagire con un infinito brusio nel quale siamo immersi e mai abbiamo sinora ascoltato.

Se non vi è una origine comune di tutti i linguaggi del mondo, così come non sembra vi sia una lingua primigenia dell’homo sapiens (né una Eva primigenia) le ricerche  in corso sembrano tuttavia rendere vieppiù evidente che la nostra unicità di esseri umani non risiede nel fatto di essere l’unica specie detentrice del linguaggio, così come è ormai accettato che non siamo la sola a fabbricare utensili; forse semplicemente siamo l’unica specie ad avere innovato in modo originale il sistema della comunicazione in modo da realizzare modelli di organizzazione e di scambio molto più elaborati. Ad avere in altri termini fatto della techne il logos

IV approccio – contaminazioni e generazioni.

Se, quando e come saremo nelle condizioni di rendere coerenti tutti i sistemi comunicativi del mondo e delle specie ovviamente non si sa, ma fin da ora sono state aperte piste di ricerca e, per effetto di accelerazione, molte se ne potranno aprire. I percorsi possibili suscitano quell’approccio al futuro che è divenuto l’imperativo del presente.

Le previsioni generalmente condivise dai linguisti sono che, al cadere di questo secolo, poco meno di un migliaio di lingue sopravvivranno rispetto alla 5.000 attualmente in uso sul pianeta. 4/5 degli idiomi che reggono gi attuali sistemi comunicativi (e organizzativi) tra esseri umani e persistono da centinai e migliaia di anni scompariranno in poco meno di tre generazioni. La consistenza del fenomeno fa pensare, anche qui, ad una estinzione di massa. Assisteremo a fenomeni di contaminazione, a conflitti e a una vera e propria “selezione naturale” all’interno dei sistemi di comunicazione. Gli effetti di tutto ciò sull’orologio culturale e tecnologico dell’evoluzione, possiamo appena intuirlo, saranno certo di vasta portata, al pari degli effetti che ne conseguiranno sul piano sociale e politico.

Negli anni ’90 del secolo scorso (quindici anni fa) la linguistica ha generato un nuovo campo di ricerca (una disciplina vera e propria per ambiti e metodo) per effetto del confronto/contaminazione con le discipline informatiche: la linguistica computazionale. Nei sui fondamenti questa nuova modalità di approccio alla scienza del linguaggio si giustificava e si giustifica con l’opportunità di mettere a profitto il computer (memoria più intelligenza artificiale). In pratica i linguisti usano il computer come accessorio e supporto tecnologico per elaborare il linguaggio naturale e per capire meglio, grazie all’analogia con il computer, in che modo funziona e viene usato. Sono stati così generati dizionari, sistemi automatici di analisi sintattica, esperienze fonetiche e programmi di traduzione e comparazione linguistica. Oggi i processi di apprendimento linguistico sono affidati al computer e hanno generato una profonda contaminazione/concorrenza tra i linguaggi naturali e quelli artificiali di programmazione. A breve lo scambio e l’interattività tra uomo e macchina avverranno in voce e con processi di metamorfosi simbolica che lasciano intravedere la progressiva universalizzazione delle comunicazioni a livello umano e di cybersfera. Si tratta di un futuro indicativo che, nel corso dell’ultimo decennio, ha visto sorgere una infinità di scenari possibili e di dibattiti speculativi.

Tuttavia quanto già accade sotto i nostri occhi è una quotidiana reinvenzione di ciò che si intende con la stessa parola “linguaggio” e, anche se le lingue naturali esistenti continuano a vivere e ad evolvere, si è ormai alterata per sempre la dimensione linguistica tradizionale. I fondamenti etnico-territoriali dei linguaggi, le loro radici e ragioni ambientali, la loro trasmissione mediante le tradizionali procedure di insegnamento sono sconvolti per sempre; le comunicazioni in rete avvengono in virtù di complessi intrecci semantici che creano nuovi modelli, i linguaggi di programmazione sono vere e proprie lingue dotate di sintassi, semantica, vocabolari e strutture morfologiche; le comunicazioni via e.mail rigenerano e reinventano il processi della oralità e quelli connessi alla mimica espressiva dei primati; nuove foreste ed enciclopedie di simboli e di segni dilatano e trasformano gli orizzonti e persino la funzione delle lingue umane tradizionali nei loro processi tradizionali temporali e spaziali di crescita e mutamento; i newsgroup che vivono (cioè comunicano, parlano), muoiono o galleggiano in rete assumono forme idiomatiche originali ed esclusive frutto di una messa a profitto e una stretta collaborazione con i linguaggi artificiali.

Che questo genere di evoluzione bio-tecnologica porti verso l’universalizzazione del sistema di comunicazioni o verso una progressiva frantumazione e generazione di infiniti linguaggi specialistici (magari a base burocratico-castale) è un dibattito aperto. Certo però è in via di formazione una sorta di bilinguismo crescente che accompagna il linguaggio tradizionale a quello artificiale figlio di una contaminazione tra logos e techne. Che questa deriva bilingue naturale/artificiale porti a una unificazione delle culture o crei radicali separazioni è rotture tra ammessi ed esclusi, superiori e inferiori è lì da discutere in quadro di riferimento che non mutua nulla dall’etica. Il linguaggio non è solo un archivio di valori e identità, semplicemente li crea. Quel che è certo, e universalmente avvertito, è che siamo a un big bang della comunicazione e dell’agire comunicativo e che la massa di energia comunicativa (in velocità e quantità) e la sua forza espansiva (entropia) è ai limiti di una implosione capace di generare galassie e processi evolutivi imprevedibili e discontinui.

V approccio – il futuro reale tra nostalgia e oblio

Se è vero che il linguaggio, inteso come arte e tecnica di scambio delle informazioni mediante artifici simbolici, ha assicurato in un recente passato (poco meno di 50/100 mila anni) quell’acceleratore dell’evoluzione umana che chiamiamo cultura e che proprio questo orologio è un carattere della specie, la metamorfosi in essere del linguaggio e dei processi comunicativi generati dai supporti tecnologici produrrà effetti di vasta portata sulla stessa natura umana. Su questo assunto sembrano concordare tutti gli analisti, ricercatori e osservatori. La coevoluzione del sistema mondo (e della specie) con intelligenza artificiale e vita artificiale segna il ciclo dell’antropologia del futuro, un futuro secondo i più di breve-medio termine. Se il linguaggio materializzando il pensiero rappresenta (comunica) e in certo senso crea il reale, allora questa emergenza del rapporto uomo-macchina nell’agire comunicativo ricostruisce insieme il mondo e l’uomo. In particolare le macchine che supportano le facoltà conoscitive e le estendono oltre i confini dei sensi si intrecciano e interagiscono con la mente umana e creano condizioni ambientali (evolutive) nuove le quali, a loro volta implicano procedure di selezione.

Si deve all’emergenza tecnologica lo sviluppo prodigioso del sapere in questi ultimi anni, la crescita delle conoscenze scientifiche e il potenziamento della ricerca come non mai era prevedibile in passato e anche in un passato recente. Tutti sappiamo di disporre di conoscenze in numero assai più rilevante di quante ne possiamo acquisire e, quel che è peggio, siamo del tutto consapevoli della incapacità di gestire il complessivo di quelle da noi controllate. Per questo e non per altro il potenziamento delle nostra capacità cerebrali è divenuto per molti un imperativo di sopravvivenza e per certi aspetti l’evoluzione dal Sapiens verso un homo tecnologicus è già segnata. La comparsa della corteccia cerebrale negli ominidi (e la conseguente capacità di astrazione, formalizzazione, costruzione di modelli e costruzione del mondo) è stata sicuramente la più recente e significativa discontinuità evolutiva; quello a cui assistiamo nell’intreccio tra mente, cervello e intelligenza artificiale promette di essere un episodio altrettanto traumatico. Anche la nostra capacità congetturale e immaginativa è già profondamente mutata: l’utopia (ma anche la distopia) è divenuta progetto e il progetto, programma operativo.

Oggi sono già tracciate le linee di sviluppo a breve e medio termine dei programmi di ricerca e gli obiettivi che si devono raggiungere sull’arco dei prossimi decenni. Se il futuro, inteso come dimensione ignota e aspettativa passionale, non è prevedibile, tuttavia il “futuro indicativo” (chiamiamolo pure “futuro reale”) è nel presente e del presente e questo presente-futuro è l’ambiente temporale nel quale la nostra specie vive, si riconosce e intercetta quotidianamente.

Modelli matematici di simulazione dinamica sviluppano, in tempi istantanei, innumerevoli azioni umane nei loro reciproci intrecci e nei loro remoti effetti e consentono di costruire scenari futuri dotati di un grado di attendibilità sempre più elevato. Se il futuro non è dominabile e non è qui, nondimeno cessa di essere una semplice incognita e diviene un ventaglio di possibilità, un futuro possibile e a volte probabile ben più fondato di quello costruito a partire dell’interpretazione del passato storico. 

L’Homo tecnologicus che si può intravedere in questo futuro probabile, generato dall’evoluzione biotecnologia, non è un mostro e neppure un alieno, piuttosto è un discendente da noi voluto e sperato. Non è un mostro perché in qualche modo l’uomo “tecnologico” lo è sempre stato in virtù della sua capacità di costruire utensili e linguaggio come tecnica elaborata di comunicazione e in questo senso è  già un nostro progenitore. Il balzo semmai e quello tra un uomo a “bassa tecnologia” e a “tecnologia intensa”, e quello che davvero cambia è che quest’uomo in via di formazione non è un “uomo+tecnologia”: è un’unità evolutiva nuova, un’entità organica, mentale, corporea, psicologica, sociale e culturale che crea nuovi linguaggi, miti, necessità, desideri suoi propri e inediti rispetto al complessivo delle tradizioni culturali che hanno fatto il tempo della tradizione, il tempo passato. Le sue radici non sono nel passato, sono semmai in questo imprinting di un futuro al presente che si nutre dell’oblio e non prova nostalgie per il tempo che fu, che non gli appartiene e contro il quale lo stiamo generando.

E dunque, per tornare da dove siamo partiti, l’uomo nuovo che per certi aspetti è gia nel presente e al quale già apparteniamo non è il prodotto della storia, ma di un ambiente temporale e di una spazio che si intrecciano con il futuro programmato dalle conoscenze presenti, sperate o immaginate che siano. E questo uomo è probabilmente la risposta della vita ad ogni possibile estinzione di massa.

Nulla di drammatico, dunque, in questa necessaria discontinuità e per certi aspetti, scusando il bisticcio concettuale, nulla di nuovo. Perché è proprio la continua ricostruzione della realtà il compito precipuo che la vita persegue nel suo processo di autogenrazione e la specie umana non si sottrae a questo imperativo genetico che chiama in campo e mette a profitto la specificità delle sue capacità conoscitive. Così la scienza costruisce l’ambiente-mondo sotto forma di modelli razionali, computabili, sperimentabili e tra loro coerenti; per effetto del linguaggio e delle tecniche di comunicazione queste astrazioni e questi modelli si trasformano poi in macchine, strumenti e manufatti che via via creano un ambiente artificiale e questo seleziona a sua volta le specie che lo possono abitare. E in questo nuovo habitat “artificiale” (frutto dell’emergenza tecnologica) gli orologi che scandiscono la realtà e ne fissano il tempo (quello biologico, quello culturale e quello tecnologico) continuano a funzionare con i loro ritmi e la loro inattesa collaborazione. Il mondo così ricostruito non è meno vivo e meno reale di quelli che lo hanno preceduto possiede e possiederà un suo linguaggio, può e potrà essere raccontato nella sua creazione e nelle sue vicende future dall’io narrante di qualunque soggetto.

Si tratta ora, per concludere, di proporre qualche interrogativo che ha suscitato queste riflessioni. Quale può mai essere il senso, il significato, il valore e la funzione della storiografia nella costruzione di un ambiente-mondo nel quale l’orologio tecnologico sposta le origini dal passato al futuro reale? Che senso ha la narrazione e l’interpretazione di fatti accaduti in frazioni temporali tanto piccole da non essere in alcun modo coerenti con le dimensioni di spazio e di tempo che i nuovi saperi generano, frequentano e ci propongono? E ancora, che rapporto vi è tra la vita artificiale e i programmi di ricerca che ne definiscono le modalità evolutive e l’ancoraggio agli scenari virtuali di un mondo in via di estinzione? Come spiegare la ragione e gli effetti di questa forza centripeta del futuro che allontana il passato e lo disperde in una progressiva entropia?

VI approccio – il futuro tra il principio e la fine.

Riordiniamo le idee per concludere. Lo sviluppo delle conoscenze umane in questo ultimo lustro ha prodotto effetti significativi sul tradizionale assetto del sapere occidentale. Dei tre grandi interrogativi (i programmi di ricerca prioritari e fondamentali dell’humanitas) che abbiamo attribuito all’esperienza culturale dell’homo sapiens: da dove veniamo?, chi siamo? e dove andiamo?, almeno due sono stati risolti. Intendiamoci non tutto è chiaro, non possediamo la Verità (che non è una disponibilità umana), né abbiamo raggiunto una sorta di onniscienza in merito a questi interrogativi (che implicherebbe la fine stessa della scienza), ma abbiamo piste di ricerca, procedure e paradigmi conoscitivi che ci consentono di raffreddare il potenziale magico/emotivo delle nostre aspettative per il futuro cosi come la continua produzione di miti delle origini per ricongiungerci al passato.

Semplicemente queste nuove conoscenze, e le aree di ricerca che le rendono fruibili e le accrescono, allontanano dal nostro orizzonte conoscitivo l’idea stessa della Verità, rendono meno legittimi e cogenti gli interrogativi stessi e ci dicono che proprio questi interrogativi sono nati in una fase di idolatria del sapere e di opera al nero della ricerca. Sono nati e hanno preso forma in tempo umanamente assoluto e totalitario nel quale il sapere  è Sapere, la verità è Verità, la natura Natura, la ricerca Magia, la scienza Fede, certezza.

La cosmologia offre oggi un accettabile modello circa le “origini”, e i cosiddetti “misteri” dell’universo sono appannaggio di centri di ricerca e programmi oprativi di gruppi di ricercatori i quali “pensano” a cielo aperto e comunicano in tempo reale l’avanzamento dei lavori e le nuove scoperte. Sappiamo dunque con un buon margine di approssimazione da dove veniamo e per quali vie la vita si sia affermata e sviluppata sul pianeta fin dal primo istante. Sappiamo chi sono i nostri antenati e si sta lavorando a una genealogia universale attraverso la mappatura del genoma umano. Di conseguenza, sappiamo anche chi siamo in forza delle scoperte relative al nostro esser corporeo oggi del tutto esplorabile e manipolabile. La vita insomma, quella della nostra specie e di ciascuno di noi, non appare più come un evento miracoloso, gravido di sacralità e mistero, e la morte si manifesta come una frontiera temporale dotata di confini mobili e non necessariamente imperativi (“politicamente” definiti). L’uomo di oggi non è già più l’uomo di ieri e la matematica delle sue passioni sta prendendo forma nei laboratori di neurobiologia molecolare. 

Il paradigma più profondo delle speculazione è mutato. Gli obiettivi e il metodo della ricerca sono definiti per l’immediato futuro e se la Grande opera ancora non si è conclusa (né si concluderà mai) ci siamo lasciati alle spalle senza rimpianti le ingenue ambizioni degli alchimisti, cosi come il vaticinio dei sensitivi. Scienza e techne, techne e psiche, logos e techne hanno trovato un punto di equilibrio e collaborano attivamente; sapere e sapere strumentale si sono organizzati per modellare il soggetto e l’ambiente in vista di una nuova prospettiva evolutiva. E l’immediata conseguenza di questo nuovo ordine del pensiero, di una sua potenziata e mutata sostanza, è appunto il fatto che l’unico interrogativo della speculazione umana rimasto in piedi, dove andiamo?, è divenuto un territorio di ricerca esclusivo, di più, un programma operativo aperto e quasi un imperativo biologico. 

In conclusione: oggi il futuro si è scaricato sul presente cambiandone la sostanza e al funzione. Probabilmente a livello di comune sentire non vi è più tempo per il passato e il passato non ha più un tempo perché necessariamente consumato dalla procedura dell’oblio. Il futuro reale nel quale siamo immersi non sembra infatti essere il frutto dell’esperienza della memoria sedimentata, ma ilo prodotto dell’immaginazione congetturale e della memoria breve. 

Per cogliere il distanziamento dal modello tradizionale del tempo sorretto dalla memoria “storica” rispetto a quello generato dal presente, occorre riflettere sul fatto che l’ evoluzione biotecnologia in corso ha alterato in via definitiva il ritmo e la sostanza delle età della vita (e dei relativi riti di passaggio) che, per millenni, hanno segnato l’esperienza umana, lo sviluppo dell’organismo corporeo, la costruzione dell’identità di singoli e gruppi, le maschere della loro reciproca interazione. Oggi, nel corso lineare tra la vita e la morte si insinua il “nuovo” (ciò che in modo corrivo chiamiamo “moda”, cioè  “qui” e “ora”): una presenza del futuro o una sua anticipazione. Per effetto dei nuovi linguaggi che ci appaiono come una incombente Babele, ricerca e tecnologie creano processi di accelerazione nella costruzione del mondo e della realtà i quali segmentano il corso lineare dell’esperienza umana. Gli ambienti umani si modificano e si moltiplicano con una tale rapidità che l’adattamento (e i processi di selezione che ne conseguono) implica un rigenerazione continua e una continua flessibilità/produzione di conoscenze per adattarsi, vivere e sopravvivere. Le fasi di apprendimento rischiano di estendersi a tutte le fasi della vita umana; gli ambienti tecnologici si riducono a corsi temporali sempre più compressi Vi sono farmaci specifici per la crescita, per l’invecchiamento, per la ricostruzione corporea, a tutte le età e in ogni età della vita. Gli ambienti tecnologici segmentano l’esperienza umana in frazioni di pochi anni offrendo standard di consumo appropriati ad ogni età. 

Le nuove generazioni di linguaggi e di strumenti comunicativi si intrecciano con il corso naturale delle generazioni e lo comprimono (vi sono veicolo per bambini “fino a tra anni”, spazzolini da denti che coprono l’arco che va dagli otto ai dodici, programmi e computer per ogni possibile età, regimi alimentari mirati per gruppi e sottogruppi a base biochimica, riti di passaggio e status simbols differenziati e tra loro coerenti e concorrenti). La costruzione e lo scambio dei processi di identità crea una sorta di metamorfosi permanente nella quale la tradizionale sequenza delle età delle vita (infanzia, adolescenza, maturità vecchiaia) è divenuta una sorta di teatro narrativo istantaneo. E chi è nato intorno agli anni Novanta del secolo scorso ha già attraversato diverse era dell’evoluzione biotecnolgica e sta aprendo gli occhi su un mondo sempre nuovo nel quale nulla sembra essere conseguenza del passato e tutto si presenta come una compresenza del futuro. Insomma il Sapiens non sembra più in grado di controllare il suo stesso corso narrativo dal principio alla fine, dalla culla alla morte.

Nel nostro presente non solo produciamo più conoscenze di quante se ne possano individualmente acquisire e gestire, ma produciamo più eventi di quanti se ne possano indagare e narrare. Per effetto dell’orologio tecnologico abbiamo superato il muro passato e quello della storia; per effetto delle nuove potenzialità dei linguaggi comunicativi stiamo realizzando innumerevoli galassie di eventi che si espandono, scompaiono all’orizzonte delle memoria e forse sfuggono, nella loro istantaneità, ad ogni possibile archiviazione e interpretazione: gli eventi non sono più “storici”, i fatti non fanno più Storia. O, se si preferisce, la Storia non è più storia, ma un universo di ambienti virtuali nei quali si ospitano e prendono vita infiniti racconti possibili. Storie.

VII approccio – tempo chiuso e narrazioni infinite.

Storie. Una premessa è necessaria. In qualche fase dell’evoluzione la nostra mente ha acquisito una capacità di riflessione su se stessa: ciò ci consente di immaginare che cosa succederebbe se compissimo determinate azioni. Si tratta di un’abilità che gli altri animali non sembrano possedere: essi apprendono per esperienza diretta e non immaginata. La coscienza della specie umana realizza prodotti di tutti i tipi e, tra questi, crea schemi conoscitivi che ci consentono di controllare e rendere coerente quell’insieme di percezioni che chiamiamo esperienza.  Noi costruiamo, infatti, una visione del mondo (un paradigma conoscitivo) a partire dalle nostre percezioni sensoriali personali e lo rappresentiamo concretamente come un complesso di oggetti dall’esistenza coi quali interagiamo e trasformiamo in patrimonio: questa visione genera in qualche modo la nozione di realtà. Per effetto del sistema di comunicazioni umane che chiamiamo linguaggio, noi scambiamo l’insieme di queste percezioni e, a seconda del grado di intensità delle tecniche di comunicazione, alteriamo e modifichiamo la nozione stessa di realtà. Non appena ci allontaniamo dal livello personale per addentrarci nel sociale (nella rete di comunicazioni tra individui o gruppi) le rappresentazioni diventano via via più astratte, realizzano forme simboliche e cedono gradualmente spazio alla nozione complementare di virtualità. E questo insieme di rappresentazioni mutevoli è ciò che chiamiamo cultura.

Le “storie” sono racconti, narrazioni: miti (in greco mithos, perché appunto mithos è il racconto e, al tempo stesso, l’arte di raccontare); e ogni racconto è un prodotto comunicativo, una produzione di rappresentazione e forme simboliche in successione temporale, che certifica un’azione la quale, a sua volta, si realizza (prende forma e vive) nel linguaggio. Le storie e i racconti, per quanto finora ne sappiamo, appartengono alla cultura della nostra specie e, per effetto dell’io narrante, sono innanzi tutto azioni che consentono l’affermazione (la creazione) del soggetto e gli conferiscono identità (lo creano agli occhi di sé stesso e dell’interlocutore). Proprio per questo il racconto, come lo abbiamo praticato da sempre o ancora lo pratichiamo, è un che di esclusivamente umano: ha un tempo, questo tempo è lineare e si sviluppa dal suo inizio alla fine. Ogni storia “ha la sua morale”, cioè ha un senso e spiega qualcosa, e le storie che ci raccontiamo spiegano agli interlocutori il nostro io, il nostro essere e offrono una mediazione (una comunicazione, appunto) tra la realtà e la rappresentazione che noi ne facciamo in relazione alle tecniche strumentali che adottiamo (il e i linguaggi). Ma questa “morale” altro non è che la logica conclusione del racconto nella quale l’inizio spiega la fine (e viceversa). Per questo ogni racconto è la narrazione di un mito delle origini e, al tempo stesso, una affermazione di identità (un atto unilaterale dell’io) e una manifestazione di potere del soggetto. In questo senso noi stessi siamo eventi creati dal nostro linguaggio e un continuato susseguirsi di narrazioni del nostro mondo.

Anche la Storia con la S maiuscola è stata ed è una narrazione mitica delle origini che l’evoluzione del linguaggio e delle sue tecniche (dall’oralità alla scrittura, dal reperto allo scenario virtuale) comunicative ha reso sempre più replicabile, comunicabile, collettiva: cosmogonie, saghe, epopee e narrazioni a fondazione magico-religiosa svelano il segreto delle origini (da dove veniamo?) e conferiscono identità (chi siamo?). La Storia, così definita, racconta, spiega e “insegna” (comunica) l’origine e l’rodine del mondo in relazione all’io narrante: la specie umana.

Ma la storiografia praticata dalla cultura occidentale nei secoli della modernità (in date approssimative dall’Essais sur les moeurs di Voltaire all’Histoire socialiste di Jaures) ha messo a profitto in modo esclusivo l’arte del racconto e le potenzialità del linguaggio per umanizzare (addomesticare e manipolare) il tempo, spiegare la centralità dell’uomo al mondo, al tempo e la sua funzione divina di creatore della realtà e del mondo stesso nel tempo. E, da questo punto di vista, la storia-storiografia è una affermazione del potere dell’uomo, la fondazione del mito delle origini della specie e una comunicazione politica in senso lato che spiega il potere umano, le leggi che lo organizzano e i valori che legittimano queste leggi. 

Nell’insieme dei processi e delle storie raccontate fi dalla notte dei tempi, una discontinuità si è realizzata nell’VIII secolo avanti la nostra era (precisamente tra il 750/730 a.c.): a Gerusalemme e su commissione di un re, un gruppo di scribi ha dato corso alla scrittura del Libro. Raccogliendo un fascio complesso di miti delle origini lievitato nelle culture medio orientali, ha preso forma una storia della creazione del mondo che pone al centro delle origini dell’intero universo l’uomo, gli conferisce il potere di governo di tutte le creature animate e inanimate. Quest’uomo si materializza in un popolo e questo popolo in un re. Il Regno, il popolo e il re sono contraenti di un patto con Dio per la conquista e il governo della terra di Israele. La forza comunicativa di questo racconto è destinata ad attraversare i secoli e dare corso all’orologio culturale dell’umanità. L’uomo è al centro della vita ed è la giustificazione della storia, il tempo della storia, tutto politico, è quello dell’uomo e del su potere. All’antropocentrismo di matrice giudaico-crisitiana, la storiografia dei secoli XVI-XX ha poi aggiunto l’etnocentrismo della tradizione culturale europea. E proprio per questo la Storia è divenuta il linguaggio della modernità (del potere dell’Occidente e dei suoi paradigmi ideologici) i cui vocaboli sono gli eventi umani, un metalinguaggio al quale si affidato il compito di razionalizzare il reale. Camminando con la testa all’indietro, oggi possiamo dire che l’impresa, bene o male, è conclusa: homo sapiens ha conquistato il mondo, domina gli organismi viventi, modifica il pianeta e lo ricrea attraverso il suo bimillenario racconto.

In quanto “narrazione di fatti/eventi veri e realmente accaduti” la storiografia della cultura occidentale ha fondato “storicamente” i miti delle origini e di questa fondazione ha fatto il criterio di selezione del vero dal falso.  Per questo la Storia, “maestra di vita”, “insegna” e svolge una funzione didattico-noormativa, nella trasmissione dei valori (la sua morale e la morale di ogni racconto). Ma l’interpretazione dei fatti (attraverso l’uso delle fonti anche le più sofisticate) li deforma, li ricrea e rende veri i fatti solo per l’io narrate e per la forza comunicativa che il fatto narrato porta con se in forza delle tecniche di comunicazione che lo generano. In realtà un evento è tale solo perché comunicato, la storia esiste solo se la storiografia la certifica e i lavoro delle storico, come quello del narratore, è la costruzione di un tempo virtuale come scenario dell’azione narrata.

Oggi però sappiamo che l’uomo non è il prodotto finale dell’evoluzione (è semmai un “incidente” evolutivo). In qualche modo sappiamo che la vita è un che di dionisiaco e non di apollineo; che la razionalità umana non coincide necessariamente con l’ordine dell’universo e delle leggi che lo governano, tantomeno con l’onniscienza e con il potere assoluto di certificare la Verità. E sappiamo infine che forse il futuro dell’uomo, come lo abbiamo creato e prodotto “storicamente”, è solo il suo passato.

Fisici e cosmologi si impegnano (e con competenza) a ricerca un “principio antropico” capace di ricondurre l’intero universo alla nostra specie. Nei fatti però, abitatori di un pianeta sperduto ai margine dell’universo tra miliardi di sistemi stellari e galassie in movimento, siamo alla ricerca di altre forme di vita e progettiamo una evasione di massa verso altri mondi. Vogliamo sfuggire dal nostro tempo chiuso ed esploriamo tempi nuovi e spazi senza confini; e questa esplorazioni sono il frutto della nostra collaborazione con macchine, intelligenze e forma di vita artificiale ai cui sensi (estranei ai limiti del tempo “storico”) affidiamo il racconto di nuove storie infinite nelle quali non saremo più i protagonisti esclusivi.

Milano –ottobre 2006

Bibliografia minima di approfondimento:

Jean Baudrillard, L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Anabasi 

Jean Baudrillard, Cyberfilosofie. Fantascienza, antropologia e nuove tecnologie, editore Mimesis

Enrico Bellone, La scienza negata, Codice e dizioni

Giuseppe O. Longo, Homo tecnolgicus, editore Meltemi

Roberto Moro, Storia, storici, identità Il grande racconto della modernità, oltre la modernità, edizioni di WWW.lastoria.org

Roberto Moro, Mondo nuovo,  altro mondo. Presente, passato e futuro remoto, ai confini tra reale e virtuale, edizioni di www.lastoria.org

Roberto Moro, Politica, innovazione e cultura delle idee, edizioni di www.lastoria.org

Giuliano Procacci, Carte di identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismo nei manuali di storia,  Carocci editore