Parte II – Lezione 8
Dottrine, politica, declino.
È possibile produrre, oggi e in questo clima, un manuale di Storia delle dottrine politiche che tenga conto del comune sentire degli studenti? Meglio ancora: è possibile insegnare al Storia delle dottrine così come viene ed è stata abitualmente praticata secondo i canoni della disciplina? In che modo coniugare sapere, saper essere e saper fare in seno all’insegnamento di Storia delle dottrine politiche?
L’onda d’urto che, nel nostro Paese, la comunicazione politica ha assunto nei mass media, la continuata quanto oppressiva presenza di uomini politici e di governo nei format televisivi e nelle rubriche di quotidiani e periodici, pongono agli Storici delle dottrine politiche (ma certo anche a filosofi e scienziati della politica) qualche serio problema. Come coniugare il linguaggio, gli statuti ideologici di riferimento, la cultura dell’attuale classe politica alle elaborazioni teoriche che, nei secoli della modernità, hanno costituito il vettore dello sviluppo della civiltà occidentale? Che relazione sussiste tra il declino certificato del sistema Italia e il degrado della cultura politica fondata sul sistematico oblio del lessico e dei concetti cardine delle strutture delle dottrine sul potere, lo stato, i diritti e le ragioni della socialità?
La deriva è di tali sconcertanti proporzioni, si parla di un vero “inabissamento” della politica, che non offre più spazio nemmeno al dibattito, a semplici ed elementari processi di alfabetizzazione. E ciò non pone solo problemi, ma anche una crescente crisi di identità professionale agli storici del pensiero politico. Scienza della politica e filosofia della politica, allo stesso titolo, non sono in grado di offrire paradigmi interpretativi di questo massiccio declino. La sociologia si è esasperata in tecniche di sondaggio che, esse stesse, sono oggetto di una analisi e di un dibattito “scientificamente” fuori controllo. Ma per noi gli interrogativi mettono in questione il significato stesso del magistero del docente.
Che relazione sussiste tra Grozio, Erasmo, More, Fichte, Engels, Mazzini e il comune sentire? e quale la disponibilità degli studenti a un rigoroso approccio storico verso la sfera del politico? Quale il suo possibile riscontro-fruizione nella realtà della comunicazione politica attuale? È possibile produrre, oggi e in questo clima, un manuale di Storia delle dottrine politiche? Meglio ancora: è possibile insegnare la Storia delle dottrine così come viene ed è stata abitualmente praticata secondo i canoni della disciplina? In che modo coniugare sapere, saper essere e saper fare in seno all’insegnamento di Storia delle dottrine politiche? A conclusione del corso di quest’anno, grazia anche all’attivo contributo dei miei studenti, questi interrogativi si pongono con maggiore evidenza che per il passato. E la risposta immediata è no.
La passerella dei grandi pensatori del pensiero politico da Machiavelli ai nostri giorni appare polverosa e non raccoglie applausi. E le ragioni di questo disagio, mio nell’insegnamento e degli studenti nel seguire il corso rigorosamente istituzionale, sono certo molte. Non si perde occasione per declinarle. Innanzi tutto il mutato orientamento dei percorsi curricolari nella facoltà che hanno confinato la disciplina in un solo indirizzo. Lo slittamento della didattica verso una progressiva “licealizzazione” che è conseguenza certo del tre più due, ma ha radici in un mutato clima culturale e politico degli ultimi quindici vent’anni, sia a livello nazionale che internazionale. L’onda d’urto della storia contemporanea divenuta dominante e che, per vero, non è una Storia, ma un susseguirsi di storie e microstorie su consunte palafitte ideologiche. La conseguente cancellazione della storia di lungo periodo (a cominciare dalla storia moderna). La rigidità dell’assetto disciplinare in vista dei concorsi che blinda un po’ tutte le discipline e rende impossibile una adeguata collaborazione tra i saperi. E così via; il rosario è più o meno sempre lo stesso. Dibattiti e convegni, inchieste e costernazioni per lo più a sfondo corporativo; poco di più.
C’è anche la reale possibilità che la didattica praticata da me e in genere dai docenti (lezioni frontali, libri di testo e referenze bibliografiche, esami tradizionali, orari di ricevimento studenti, ecc.) sia invecchiata, ma il tentativo di superare questi limiti (ricorso alle nuove tecnologie, allargamento a campi paralleli, a fonti alternativa, a gruppi di lavoro, ecc.) è sempre più arduo. I risultati modesti. Modesti per quanto attiene all’”indice di gradimento” non del singolo docente (del che non posso lamentarmi), ma della disciplina. In base ai miei sondaggi, il fenomeno coinvolge in realtà quasi tutte le discipline storiche, il che fa riflettere e porta lontano.
Scaricare la responsabilità di questo stato di cose sugli studenti mi pare, più che ingeneroso, inutile; inutile inalberare geremiadi sul degrado della cultura tradizionale (scolastica e accademica): il mondo va avanti lo stesso così come è, e insistere sul mutarsi dei tempi, su un certo declinismo di maniera che stancamente rientra nei nostri discorsi e nelle cose neppure più dette ma solo pensate, risulta un approccio lievemente masochistico quanto sterile.
Qualcosa non funziona o funziona sempre meno nel rapporto domanda/offerta del prodotto culturale, del servizio alla conoscenza. L’offerta di sapere è ormai formidabile, articolata, persino ridondante. Si inventano corsi e format disciplinari buoni per tutti gli usi e per tutte le fasce di ascolto, per tutti i settori produttivi, tutti i comparti e sottocomparti del sapere. Scuole e università rigurgitano di studenti e la richiesta di spazi è divenuto un imperativo strategico delle istituzioni. Gare, appalti, investimenti.
In compenso l’intero sistema è un colabrodo, il Paese viene retrocesso a livello internazionale anche su questo settore un tempo blindato, per definizione protetto e per tradizione fondato su solide basi. Il made in Italy della cultura liceale.
Cosa chiedono i giovani? I giovani chiedono novità e realtà; meglio ancora, chiedono un approccio culturale capace di coniugare novità e realtà. Si tratta di una domanda latente, ma che è facile intuire se si tien conto del processo di accelerazione storica (o di mutamento o di metamorfosi) che caratterizza il loro tempo (tutti sono nati negli anni ’80 e hanno aperto gli occhi sul mondo dopo il 1989); una accelerazione che non trova riscontro né nelle società tradizionali di cui abbiamo perso memoria, né nelle società moderne che sembra ci stiano ormai lasciati alle spalle. Per loro il passato remoto è morto, quello prossimo in via di rapido oblio. Il problema per chi ha vent’anni o poco più è semmai quello di ridurre la novità a realtà e viceversa. E probabilmente questa esigenza inespressa tanto più si rafforza quanto più avvertono la situazione di arretramento del Paese, la sua marginalità che sta divenendo depressione da un lato e il nostro imbarazzo generazionale dall’altro.
Si tratta allora di sapere se noi e la pratica dei nostri saperi siano in grado di coniugarle novità e realtà, e come. L’esercizio è tutto qui e non mi pare che il dibattito sulla riforma Moratti ci stia portando in questa direzione.
Sicuramente non per quanto riguarda la specificità di Storia delle dottrine politiche, disciplina per certi aspetti cardine della Storia (tutta la storia è politica) e la più deputata a registrare le novità del presente e il confronto con la realtà del quotidiano (tutta la comunicazione culturale nel nostro Paese si esaurisce ormai nella comunicazione politica).
Il pensiero politico e i paradigmi dottrinari che lo sorreggono, è stato, e su ciò non vi è dubbio, un fattore essenziale della sviluppo nei secoli della modernità, oggi è anche un vero settore del sistema produttivo e la rivoluzione digitale rischia di porre al centro della socialità non solo la conoscenza (la “società della conoscenza”, come si usa dire), ma l’agire politico, la partecipazione, la centralità del potere. Le condizioni per il successo della disciplina, sulla carta almeno, ci sono. Senza le mitologie del sentire politico moderno e cioè il processo di laicizzazione e autonomia del Politico, senza l’idea di Sovranità e il mito dello Stato, senza la Dichiarazione dei diritti, la fondazione del costituzionalismo, il sistema rappresentativo, i partiti non vi sarebbe stata né Europa, né Occidente, né modernità, questo è certo. Forse l’evoluzione della specie avrebbe preso altre strade.
Si dà il caso tuttavia che queste mirabili fondamenta svelino oggi la loro intima struttura quella cioè di essere miti e mitologie di un passato remoto che si è concluso, con il XX secolo, nell’esasperazione e poi nel crollo delle ideologie. Delle grandi correnti del pensiero politico, l’assolutismo, il liberalismo, il socialismo, la democrazia in tutte le loro molteplici varianti, troviamo poche tracce nel presente se si esclude la retorica del linguaggio parlamentare e degli addetti ai lavori; sulla universalità della Dichiarazione dei diritti a più di duecento anni dalla loro proclamazione e legittimo nutrire più di un dubbio; quanto poi alla perfezione del sistema rappresentativo le critiche si sprecano. Volontà generale, utopia, rivoluzione, riforma e riformismo, lotta di classe, terzomondismo, fanno parte di un convoglio semantico che si ritrova solo nei dizionari specializzati della disciplina. Di “nuove vie” verso la revisione e la rigenerazione dei vecchi apparati ideologici non si parla più. Anche il piatto forte del pensiero politico, Sovranità e Stato, pongono seri problemi se non di archiviazione per lo meno di radicale riclassificazione. Persino il dibattito democrazia/totalitarismo ha fatto il tono di un secolo ormai passato: il secolo scorso.
Cosa ci dicono i grandi autori, i classici del pensiero politico? Come intervistarli, farli parlare? Quale la loro novità e che rapporto intrattengono con la nostra realtà?
Penso sia questo il problema che incontriamo insieme a Guicciardini, Bodin, Locke, Robespierre, Burke e tutti gli altri amici della premiata Machiavelli & company, quando affrontiamo il nostro giovane pubblico di clienti e utenti del sapere. E penso che su questo dovremmo riflettere.
Per coniugare novità e realtà (alla verità penso che ci abbiamo ormai rinunciato da tempo come del resto i nostri utenti) le piste ci sono e ci sono tracce lungo il percorso che lo rendono rischioso, ma percorribile.
Innanzi tutto vi è lo shock temporale, la “contesualizzazione” e cioè l’operazione di ricondurre un evento, un autore, un testo alle circostanze storiche che lo hanno generato; è un artificio o, se si preferisce, una tecnica complessa. La localizzazione nel passato comporta, in prima istanza, problemi di datazione e periodizzazione che la storiografia non ha mai risolto e che sono mutevoli, capricciosi, continuamente revisionati in relazione alle tesi di ricerca e alle scelte individuali del ricercatore: datare significa scegliere e scegliere significa interpretare. Ci si deve chiedere se davvero è possibile richiamare in vita il passato, ma occorre almeno ammettere che l’idea di resuscitare il quadro storico de Il Principe o delle Serate di Sanpietroburgo, del Viaggio in Icaria, comporta il controllo di una complessità e di reti sistemiche di eventi che non si possono più affrontare individualmente. Sulla Rivoluzione francese sono stati censiti un numero di titoli di studi e ricerche centotrenta volte superiore a tutta la letteratura (le fonti dirette) prodotta nel periodo 1789-1794 con un rapporto di 1/13. Sul Contratto sociale la produzione critica super di un migliaio di volte l’opera omnia dello stesso Ruosseua. L’esperienza individuale del ricercatore che intenda affrontare la contestualizzazione del capolavoro roussoviano comporterebbe un impegno che va oltre il corso della sua esistenza terrena.
La via d’uscita è quella dell’analisi del frammento del frammento, della storia della microstoria. Ma a questo punto l’evento ipercontestualizzato perde ogni contesto per effetto del suo limitato grado di comunicabilità che non raggiunge neppure gli esperti della disciplina. Senza l’ausilio di tecnologie appropriate di archiviazione, data base interattivi neppure una equipe sarebbe oggi in grado di offrire un quadro coerente del contesto storico di un evento culturale. Le conoscenze storiche cumulate su ciascun evento sono ormai tali e tante (e in via di costante, casuale aggiornamento) da introdurre variabili così numerose e articolate (stoira sociale, economica, delle passioni, demografica, della socialità e del costume, della sensibilità e così via all’infinito) che solo modelli matematici potrebbero consentire di conciliare e rendere tra loro dipendenti. Il ricercatore o il gruppo di ricerca può certo intercettare l’evento, parteciparvi, addirittura immedesimarsi con il suo corso temporale, ma la ricostruzione del contesto al quale esso si riconduce rimane, per ora, un fatto letterario, un artificio narrativo. Trasmettere poi nel nostro presente reale una dimensione della temporalità storica che ha generato le Lettere persiane o le Riflessioni sulla Rivoluzione francese, l’esperienza di Marat nella scrittura di questo o quel documento, è un’impresa didatticamente impossibile.
Morale: lo shock temporale non si riesce a superarlo e, diciamolo francamente, neppure se ne vede la necessità. Riusciremo mai a sapere l’insieme di percorsi razionali ed emotivi che si sono generati tra la scrittura de
Il Manifesto del partito comunista e i suoi autori? Che dire e cosa comunicare agli studenti se non le proprie impressioni ed emozioni a seguito della lettura diretta dei testi?
Qui si apre il secondo problema. Oltre allo shock temporale si deve mettere in conto lo shock linguistico comunicativo: l’analisi de testo e cioè il corretto uso delle fonti, la comprensione del linguaggio dell’autore, del suo lessico personale e dei travagli che esso ha subito nello specifico corso culturale connesso alle circostanze storiche personali. Le analisi filologiche e le varianti interpretative comportano anch’esse lo spoglio di intere biblioteche. La vitalità del linguaggio implica una continua riscrittura e aggiornamento dei vocabolari interpretativi. Qui inoltre linguistica, semiotica, psicologia del linguaggio, antropologia, scienze cognitive sollevano, nel loro intreccio, una tempesta metodologica inimmaginabile solo cinquant’anni fa. La “traduzione” interpretativa dei testi (chi mai riuscirebbe a leggere in originale Machiavelli. Loyseau o Hobbes?) nel linguaggio corrente di uno studente di vent’anni si impone. Anche ai più assidui frequentanti del corso ho durato fatica, e conseguito modesti risultati, nel reintrodurre parole come “fortuna”, “virtù”, “onore”, “moderazione”, “volontà generale”, “privilegio”, “statuto”, “regalità”, “principato” e così via. Il vocabolario politico della modernità non è fruibile, la traduzione in gergo obbligata, il risultato talvolta spassosamente paradossale. Anche qui l’esperienza di una analisi del testo sconfina con il laboratorio linguistico assistito da tecnologie che forse sono solo in via di preparazione. La ricerca si svolge in un ambito interdisciplinare complesso che esige strategie di organizzazione e gestione dalle quali siamo lontani e delle quali neppure abbiamo l’idea o duriamo fatica a farcela.
E così non vi è dubbio che la strada del corso monografico è tanto impervia quanto lo è quella “rifugio” del corso istituzionale, passerella di avanspettacolo dietro alla quale lo spettacolo vero poi non c’è.
Alla fine, occorre ammetterlo senza complessi di colpa, i nostri corsi sono autobiografici, impressionisti, sono spettacoli dialogici senza interlocutori. L’utenza si conquista con una performance commerciale a livello comunicativo (il “rigore professionale”). In realtà, nella migliore delle ipotesi, l’attività didattica consente di offrire dei modelli e dei paradigmi interpretativi dell’attualità degli autori, di rimodellare un passato, incerto quanto mitico, su un presente (quello che scorre a partire da poco più di dieci anni a questa parte) che si caratterizza esso stesso per la produzione continua e drammaticamente accelerata di nuovi linguaggi e novità. L’operazione, dispendiosa e a volte violenta, non riesce: non siamo in grado di intercettare la domanda di novità e realtà da parte dei giovani utenti. Il processo formativo appare mutilato.
Perché, e sta qui a mio giudizio il cuore del problema, proprio questo necessario processo di attualizzazione del pensiero politico (la rincorsa del filo di Arianna tra presente reale e passato virtuale) e del contesto storico che lo giustifica e lo rende comprensibile, questo processo di “modernizzazione” è esso stesso fuori campo, cioè si situa al di fuori dei confini del rapporto novità/realtà che caratterizza i processi comunicativi e conoscitivi del presente.
Mi spiego. In realtà i paradigmi e i modelli interpretativi che ci appartengo e sono l’asset della disciplina, sono essi stessi varianti di un modello di cultura, quello dei secoli della modernità, caratterizzato da un fondamentalismo antropologico, radicalmente eurocentrico e storicamente datato (secoli XV-XX), un modello a sua volta in via di radicale, quotidiana revisione. Insomma i nostri modelli interpretativi nascono da un dialogo intimo con Altusio, Botero. More. Bacone e così via, e sono figli di una cultura europea che oggi deve confrontarsi non solo con altre culture, ma con processi di integrazione che mettono in discussione e forse superano il linguaggio stesso della modernità, l’albero del sapere enciclopedico, la gerarchia delle discipline, i loro singoli approcci, il significato stesso della ricerca scientifica e del valore dalla conoscenza come fondamento della socialità. Le dimensioni dello spazio di questi nuovi processi alterano i dibattiti sulla periodizzazione e prevalgono sui canoni tradizionali della temporalità. In qualche modo la dimensione del tempo viene superata dalla velocità della comunicazione nello spazio. L’era dell’accesso all’informazione e dei linguaggi digitali, alterano il tempo-storia a tutto vantaggio di uno spazio-azione, se così si può dire. Insomma non solo il passato non illumina più il presenta, ma quel che è peggio, il presente non illumina più il passato.
Se questo è il fronte interno, professional-didattico, quello esterno (della ricerca e della costruzione dei contenuti) appare ancora pi difficile e in via di cedimento. La Storia nell’insieme è assediata e travolta dalle nuove discipline umanistico-scientifiche (sociologia, psicologia, economia, antropologia, linguistica, ecc.) che hanno preso il via nel corso del XX secolo e, frammentando ogni pretesa di universalità del sapere di stampo ottocentesco, l’hanno detronizzata. Tutte questi nuovi format disciplinari insieme, devono poi vedersela con i “nuovi saperi” (o con quella che adesso si chiama la “terza cultura”): un fronte mobile in continua tensione. Quanto alla Storia delle dottrine politiche (che i suoi problemi di confine già li ha da tempo con Filosofia politica, Scienza politica e Storia delle istituzioni, Storia dei partiti e movimenti politici) il problema è drammatico per la progressiva erosione dell’oggetto: autori, opere, dottrine.
Le cose van prese e dette per quel che sono senza costernazioni, drammi o rimpianti. L’epilogo della modernità come modello culturale storicamente datato (XV-XX secolo) e localizzato (l’Europa occidentale nel suo significato pi ampio), coincide con la fine delle ideologie che l’avevano sorretta e ne avevano costituito il motore (le dottrine politiche appunto). Oltre all’invenzione della Sovranità, dello Stato, della Democrazia rappresentativa, dei partiti, del totalitarismo, che ha fatto il tono delle riflessione teorica di cinque secoli, non c’è altro che una continua orchestrazione della sinfonia della crisi.
Non saprei dire da quando gli storici abbiano inaugurato la periodizzazione decennale, probabilmente nel Novecento, sicuramente essa viene utilizzata ampiamente per la segmentazione del XX secolo. Fanno parte del lessico di una Storia ormai famigliare. Gli “anni Venti”, “Trenta”, “Cinquanta” e cos’ via, offrono la rappresentazione di altrettante fasi storiche. Si tratta di una modalità di approccio cronologico (e cronosofico) che da l’idea dell’ampia frantumazione di tutto un secolo, di una nuova accelerazione del tempo e del ridursi dello spazio generazionale all’arco di un solo decennio. Vista dal capolinea al quale siamo arrivati questa periodizzazione rivela uno scarso grado di consistenza del tempo-storia, una sua progressiva volatilità,
Ho sotto gli occhi una bibliografia di opere attribuibili al pensiero politico del Novecento, un centinaio di titoli che hanno accompagnato la curiosità e l’impegno della mia generazione e che non trovano riscontro presso i miei studenti e neppure presso i loro professori di liceo. A ben guardare la produzione del secolo scorso non registra un testo che potremmo dire “classico”, non un’opera di pensiero organico che abbia fatto scuola, si sia imposta e abbia fondato una teoria del potere su solide basi. Il cuore del problema sembra ridursi al tema vetusto democrazia/totalitarismo. Prima il decliniamo fino agli anni Trenta, poi l’analisi del fenomeno totalitario fino agli anni Sessanta che si trascina nel cuore del revisionismo marxista fino al 1989, lo supera, e nella sue molteplici varianti (stato autoritario, stato criminale), lambisce il XXI secolo. Poi l’era nuova dell’elaborazione politica si accentra sul terrorismo (di cui manca qualunque definizione teoricamente fondata) e nella guerra al terrorismo che minaccia di fare il tono di tutto il secolo. È la guerra tra le forze del bene e quelle del male, anticipata dai cartoni animati giapponesi degli anni Ottanta, che si esalta nel modello teorico, se tale lo si vuole chiamare della “scontro tra civiltà”. Gli storici dell’ “altro ieri” o, se si preferisce, del “presente” hanno già individuato e puntualmente datato la svolta epocale, il punto di non ritorno: tra i989 e il 2001 si sarebbe inaugurato il nuovo corso della vicenda umana, una nuova Storia che archivia tutti gli edifici teorici del passato. Quelli politici innanzi tutto.
Occorre non solo prenderne atto, ma trarne le conseguenze. Oggi siamo in presenza di una erosione e di un ripiegamento in ordine sparso delle categorie e degli assunti teorici che hanno fatto la linea evolutive del pensiero politico della modernità. Crisi dello stato, revisione della sovranità, archiviazione dell’irenismo, rifondazione del nazionalismo, oblio dei diritti dell’uomo, rimessa a punto dei rapporti in tema di pace e guerra tra le nazioni, emergenza dei poteri occulti e della criminalità organizzata (che rischia ormai di divenire un nuovo soggetto politico), conseguente ridefinizione delle sfere della legalità e dell’illegalità e delle strutture delle istituzioni politiche. Ancora, crisi del sistema rappresentativo, rinascita della politica a fondazione etnica e tribale, confusione dei diritti di cittadinanza, e si potrebbe continuare con tutti i paradossi del rovesciamento postmoderno: impegno politico che si trasforma in depoliticizzazione, concorrenza tra partiti e movimenti, diritti di cittadinanza che si misurano sui confronti interculturali… e così via. Queste sono le novità e questa è la realtà dalle quali i nostri giovani sono investiti e di cui chiedono una sorta di paradigma conciliativo con il pensiero del passto e le passate esperienze creative..
E per di più siamo anche in Italia. In particolare il nostro Paese sembra travolto da questa confusione che fa della politica un evento spettacolo e delle istituzioni un che di plastico, duttile, caratterizzato dai confini incerti tra legalità e illegalità e nel quale la sfera stessa del potere mostra un volto mascherato, un qaui des brumes. Se si segue il dibattito politico di questo avvio del terzo millennio, almeno in Italia, si capisce che del patrimonio culturale di cui la Storia delle dottrine politiche si è posta la servizio non sopravvive più nulla, nulla si salva da un complessivo oblio. Misurato sulla scorta di un normale corso istituzionale, il grado della cultura politica del nostro Paese si presenta su una soglia che precede l’alfabetizzazione. Ed è impressionante che la voce dei tutori di questo patrimonio non si sia fino da ora levata oltre gli angusti confini dei distinguo disciplinari. Qualcosa si sarebbe potuto fare e si deve fare.
Un pensiero e un “pensare” e un pensiero politico nel nostro Paese non esiste più, né come capacità di elaborare strategie di medio lungo termine nell’impegno politico, né come strumento di socialità e di coesione sociale. Una retorica volatile e di stampo deamicisiano (nel migliore dei casi) o intollerante e vagamente autoritaria (nel peggiore) resuscita (e brucia) concetti come “patria”, “riformismo”, “comunismo”, “federalismo”, “sviluppo democratico”, “prospettiva storica”, “pace” senza alcun rispetto lessicale, filologico e culturale; e queste parole in libertà fanno il tono della comunicazione politica divenuta del tutto autoreferente e celebrativa di mitologie da curva nord di San Siro.
E così siamo tornati dalle domande dalle quali siamo partiti. È possibile e utile produrre oggi un manuale di Storia delle dottrine politiche per un processo di alfabetizzazione che non riguarda più solo gli studenti, ma l’intera classe politica e di governo? Meglio ancora: è possibile insegnare al Storia delle dottrine così come viene ed è stata abitualmente praticata secondo i canoni della disciplina? In che modo coniugare sapere, saper essere e saper fare in seno all’insegnamento della disciplina? Domande alle quali molte altre se ne possono aggiungere. Ma questo è un impegno che, per ora, lascio ai miei studenti più volonterosi e soprattutto ai miei colleghi.
Personalmente, ed è questo il mio contributo a un dibattito che forse non riuscirà a vedere la luce e l’adeguata partecipazione (forse non interessa a nessuno), credo che le risposte possibili a questi interrogativi siano due e tra loro intrecciate.
In primo luogo si esige uno sforzo per ridare centralità all’insegnamento nell’alveo del tradizionale albero della discipline. Non illudiamoci però che ciò avvenga in base alle tradizionali procedure della ritualità e del cerimoniale accademico. L’opera di promozione deve avvenire sulla scorta di un ampio dibattito, ampio e aperto alle più svariate componenti e in prima istanza agli studenti. In secondo luogo, che è però anche la condizione per il buon esito del primo, si tratta di innovare, innovare e innovare sul piano della didattica, della comunicazione, dei contenuti lo scheletro stesso della disciplina e intervenire sul suo DNA. Il che comporta un processo di apertura del dibattito non solo tra docenti, ma soprattutto tra studenti con l’avvio di forum, la creazione di comunità e gruppi di studio virtuali, programmi trasversali, messa in comune di fonti e di esperienze a livello nazionale (interfacoltà e interateneo) e internazionali. Il fuoco del dibattito e del problema deve necessariamente coinvolgere l’utenza; in qualche modo di lì deve partire e di essa deve porsi al servizio. Che altro se no? Senza questa rete dell’utenza studentesca non vi è né massa critica possibile, né oggetto del contendere. Si tratta allora di realizzare strategie di organizzazione e di gestione delle aree tematiche che fanno capo al format tradizionale della disciplina. Aprire i confini di queste aree alla ineterdisciplinarità (non declamata, ma praticata) verso il superamento del solco tra umanistiche e scientifiche e proprio a cominciare da queste ultime. Accettare le diversità per fondare la collaborazione e collaborare in virtù delle diversità, dell’incertezza dei risultati, della rinuncia alle metodologie canoniche.
Insomma si tratta di declinare novità e realtà alla luce del sapere e di un patrimonio la cui tutela non si consegue più con la sua conservazione e l’ordinaria manutenzione, ma con il suo pieno diritto di cittadinanza nell’ambito dei nuovi saperi. Nulla di meno, nulla di più.