Parte II – lezione 7
L’albero, la mela e il serpente.
Il fondamentalismo è costitutivo della cultura dell’Occidente e caratterizza l’antropologia della modernità. Ha fondato la vocazione espansiva e universalistica dell’Europa e oggi regge la vocazione imperiale del potere USA. Di recente però i nuovi saperi e gli esiti del neodarwinismo, la rivoluzione biologica e quella digitale consentono qualche approfondimento sul tema. E tra le molte possibili la domanda che dobbiamo porci e la seguente: la teoria della conoscenza dominante fino al secolo XX è stata una “ideologia” fondamentalista del potere, una “aspettativa di Verità” e dunque un paradigma profetico? Probabilmente sì.
A tutta prima la sequenza è semplice. Bin Laden uguale Al Qaeda, Al Qaeda uguale terrorismo, terrorismo uguale fondamentalismo, fondamentalismo uguale Islam, Islam uguale Bin Laden, e così daccapo. Il cerchio si chiude e tutto si spiega. Più o meno la pensiamo così; così la pensano i miei studenti che interpretano un comune sentire, un modo di pensare diffuso dai media e dalla vulgata della politica “mondiale” di questo avvio del XXI secolo votato alla crociata contro il terrorismo internazionale.
Tuttavia, con buona pace di chi ha fondato le sue fortune politiche e televisive, editoriali e accademiche sul fondamentalismo islamico, il fenomeno è un po’ più complesso, meno circolare e tautologico. Del resto, seppure distrattamente, i miei studenti lo avvertono e tutti lo avvertiamo. Cerchiamo qualche informazione in più e, automaticamente, siamo subissati da intere biblioteche e da una galassia di fonti che aprono la strada verso inesplorabili foreste interpretative. Prima o poi tutti siamo costretti a ripiegare sulla sequenza popolare che è solida, sta in piedi da se e alla fine spiega tutto quel che si può spiegare. In alternativa l’approccio storiografico, quello dei libri scolastici e dei fromat di RaiEdu, offre un paradigma abbastanza consolidato per spiegare l’emergenza del fondamentalismo islamico.
L’Islam costituisce ormai un capitolo importante dei manuali di storia e la civiltà araba un segmento significativo delle Storia universali disponibili settimanalmente in edicola. Il Califfato è un faro di luce nei secoli bui del nostro medioevo e, in qualche modo, assicura la continuità storica tra il mondo antico e la civiltà occidentale. L’unità del Mediterraneo non si spezza in virtù della conquista araba e lo spirito di crociata ha creato più opportunità di scambio e integrazione che fratture. L’impero Ottomano è una unità geopolitica di tutto rispetto; una Grande potenza che, fino a tutto il XVII secolo, consente lo sviluppo dell’Italia rinascimentale, e il take off della modernità. La fine della centralità del Mediterraneo deriva dalla scoperta delle Americhe, non certo dalla battaglia di Lepanto. Semmai è il fondamentalismo-imperialismo coloniale dell’Europa moderna che disgrega l’unità del mondo arabo-maditerraneo e, proprio a partire da questa deriva ottocentesca dell’espansione occidentale, si possono cogliere le tracce dell’attuale tensione internazionale e le radici “storiche” del dramma medio orientale: colonizzazione tardiva, modernizzazione forzata, decolonizzazione traumatica, occupazione della Palestina, sfruttamento incontrollato della risorse e tutto quanto ne è conseguito nel corso della seconda metà del XX secolo.
Se viene letto in questa “prospettiva storica” di lunga durata e romai canonica, il fondamentalismo islamico può facilmente apparire un fenomeno di breve momento; un modello di cultura residuale, capace di far morti e feriti sì, ma di semplice resistenza allo sviluppo evolutivo tracciato fin dalle origini (e quelle più remote) della vicenda umana. Non si tratta di uno “scontro di civiltà” (del resto la parola e il concetto stesso di “civiltà” hanno perso molto del loro significato), ma piuttosto di una diversa percezione del mutamento storico tra standard culturali (quello familisitico-coranico e quello laico-individualista), delle sue velocità, delle modalità stesse di elaborare la cultura come necessario processo della conoscenza scientifica e tecnologica: un processo esclusivo della specie di cui, proprio l’Europa moderna si è fatta esclusiva interprete. E neppure, proprio per questo, il fondamentalismo avrebbe nulla di inedito e nuovo: la resistenza ai processi di modernizzazione (cioè all’accelerazione nelle discontinuità del mutamento storico) è un fenomeno ben noto all’esperienza della cultura occidentale del secoli XVI-XX. Tuttavia qualcosa di nuovo, di più tenace e imprevisto, in questo processo di resistenza c’è, e l’orchestrazione della campagna mediatica così come il susseguirsi degli eventi bellici ce lo mette ogni giorno sotto gli occhi. Qualcosa di nuovo c’è, cominciare dal vocabolo stesso che fonda il problema e fa il tema del dibattito.
E infatti è l’uso stesso della parola che fa novità, segna la forza del fenomeno e ne precisa il contenuto: più che resistenza e freno, “fondamentalismo” indica reazione, rivolta, violenza irriducibile (che è cieca) ed esasperata (che non ammette moderazione) nel confronto/scontro culturale, ideologico, politico, persino antropologico. In realtà il vocabolo, nel suo significato attuale, è nato nell’oscura provincia americana, Thenessy negli anni Venti del secolo scorso all’occasione di un celebre caso giudiziario che oppose evoluzionisti e creazionisti e cioè la moderna fondazione scientifica a base darwiniana ad una fondazione mitica (un mito, per altro storicamente fondato) circa le origini della specie e l’intima natura dell’uomo.
Un bel film degli anni cinquanta, nato nel clima maccartista della Guerra fredda ci restituisce con immediatezza il clima di questo scontro irriducibile, cieco ed esasperato, tra gli opposti paradigmi circa la natura e lo scopo stesso della condizione umana. Clima di sopraffazione psicologica e morale che si fonda, da parte dei creazionisti, su un ossequio alla Verità Rivelata e al dogma religioso (che è l’ottusa e irresponsabile fedeltà al testo), il quale in realtà altro non che è ebbrezza del potere, il desiderio esclusivo di consenso e dominio psicologico delle coscienze, autoritarismo e, appunto, “fondamentalismo”. Molto di più e molto di peggio del nostro casereccio integralismo cattolico.
Di questo evento che ha generato il vocabolo, al pari delle fonti linguistiche e filologiche del vocabolo stesso, ci siamo dimenticati, ma dopo gli anni Venti, e anzi a partire dagli anni Venti, il clima di sopraffazione psicologica e di intimidazione morale e intellettuale si è materializzato davvero. Il fondamentalismo ha governato il mondo.
In termini di pensiero politico il totalitarismo è stato il prodotto finale, e forse il più sofisticato, della modernità: un epilogo inglorioso al quale la cultura dell’Occidente non ha ancora posto rimedio. Dall’avvento del Fascismo, alla reazione verso i processi di decolonizzazione, alle infinite guerre e guerricciole che han fatto la cronologia della Guerra fredda, per arrivare alla Serbia e all’Iraq che sono qui dietro l’angolo, il clima dell’intolleranza e della guerra civile mascherano appena quello che è un percorso rettilineo: la crescente concentrazione del potere imperiale di stampo ottocentesco. Lo certificano la rinascita hobbessiana e quella della politica internazionale come “gioco”, si fa per dire, delle Grandi potenze.
C’è di più. Il fondamentalismo islamico che la sua storia già ce l’ha con l’avventura komeinista prima e l’utopia talebana poi, ha fatto scuola e modificato, forse nel profondo, il comune sentire della modernità, cieè la percezione del tempo storico, e ha messo in crisi, in parte addirittura azzerato, le più solide categorie elaborate dal pensiero politico europeo. All’indomani del crollo delle Torri gemelle si è avuta la sensazione di un capolinea della civiltà, di una inversione del tempo storico verso le sue origini mitiche. L’analisi politica si è trasformata in profezia e l’annuncio di un nuovo regno caratterizzato dal confronto finale tre le forze del bene e del male ha scosso le coscienze. È una impressione che ancora non ci abbandona per effetto dell’arroganza del potere e della grancassa dei media che lo interpreta. Fondamentalismo e terrorismo sono divenuti sinonimi e, in fondo, nella apperente novità delle parole e dei paradigmi interpretativi la sequenza che va da Bin Laden a Bin Laden passando per tutto il convoglio semantico che vi è connesso ci riporta alle più profonde radici interpretative del fenomeno.
Se, per effetto di questi nuovi contenuti, il fondamentalismo rischia ormai di tingere il nostro secolo e di caratterizzarlo il fatto è che siamo giunti alla resa dei conti con il prodotto più sofisticato della modernità: l’ideologia, e cioè quel primato totalizzante delle idee sulla ragione che ha fatto l’esperienza e la fortuna della storia umana negli ultimi quattro o cinque secoli. Il fondamentalismo islamico e quello del potere imperiale statunitense (dire imperialismo capitalistico non è più alla moda) non riflettono solo una radicalizzazione nel processo di sviluppo/confronto a livello mondiale (un confronto tra ideologie o modelli e paradigmi del mutamento storico), probabilmente segna anche una nuova fase del “disincanto” (il processo di laicizzazione che caratterizza appunto la modernità), inaugura la fine del rapporto tra potere e sapere, implica l’archiviazione del pensiero politico tradizionale e della “scienza” storica che si è incaricata di celebrarlo e farne un grande racconto. C’è di che riflettere.
Il pensiero Occidentale, come tutti i modelli culturali prodotti dell’uomo, è a fondazione mitica. Dunque ritorniamo per un attimo alle origini, alla madre di tutti i racconti e al fondamento della storia universale come noi la pratichiamo. La scena e l’azione sono note a tutti. Un’oasi delimitata da quattro fiumi in mezzo allo sconfinato deserto (l’attuale Iraq), un giardino botanico ricco di piane alimentari, l’Eden; il primo uomo, la prima donna, un serpente maligno, un albero.
Questa storia dell’origine più o meno la sappiamo tutti perché, pur in mille varianti, ce l’hanno raccontata. È importante tuttavia rileggerne i passaggi essenziali. Il testo del Genesi scrive così. “Elohim creò gli uomini a norma della sua immagine, a norma della sua immagine li creò, maschio e femmina li creò. Quindi Elohim li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”. Fin qui si tratta di un’opera magica di clonazione e della costruzione di un codice di potere, una gerarchia definita retta da precise regole di governo. La funzione di governo e dominio (soggiogare) dell’uomo sulla natura, è una carattere costitutivo della specie. Continuiamo. Poi Elohim “rapì l’uomo e lo depose nel giardino dell’Eden per lavorarlo e custodirlo” imponendogli l’interdizione di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza, posto al centro dell’Eden, pena la morte. Ma il serpente, l’animale “più astuto” dell’intero creato, disse: “ non morirete affato! Anzi Elohim sa che nel giorno in cui ne mangerete diventerete come lui, conoscitori del bene e del male”. Il racconto fa carico al genere femminile di avere accettato la sfida e compiuto il misfatto, ma ormai ogni recriminazione è inutile; il frutto proibito della conoscenza l’abbiamo mangiato ed Elohim-Jahweh ne è uscito sconfitto: “disse allora. Ecco che l’uomo è divenuto come uno di noi conoscendo il bene e il male! Ed ora ch’egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della vita, sì che ne mangi e viva in eterno”. E lo mandò via dal giardino dell’Eden per lavorare il suolo donde era stato tratto.
Il conto profitti/perdite, costi/benefici, di questa operazione all’apparenza drammatica è presto fatto: è stato il miglior business che i nostri antenati potessero fare. Moltiplicazione delle risorse, accesso alle tecnologie, sviluppo demografico, in una parola, civiltà, umanità. Lo sfratto dal paradiso terrestre è stato il più grande affare dell’umanità. Si potrà dire che questa è una favola, che non è storia “vera”, ma non è così. Per una decina di migliaia di anni il paradiso terrestre c’è stato davvero e ha funzionato perfettamente: niente albero, niente mela, nessun serpente, nessuno sfratto.
I primi esseri umani hanno raggiunto l’isola di Tasmania circa quindici, ventimila anni fa quando quel lembo di terra era ancora connesso al continente australiano. Gli immigrati ci sono arrivati a piedi in poche decine, forse un centinaio, di individui e lì ci sono per sempre rimasti quando l’istmo di terra che li congiungeva al continente è stato conquistato dal mare. Un clima accettabile, ampia disponibilità di territorio, una natura rigogliosa. Quando, dopo più di dodicimila anni dal loro arrivo nell’Eden la prima nave lanciata dall’occidente alla scoperta del mondo toccò la Tasmania (precisamente nel 1624), trovò in questo “ultimo paradiso” una comunità adamitica di circa quattrocento individui che neppure avevano varcato la soglia del paleolitico. I tasmaniani scomparvero subito nel giro di qualche settimana per effetto dell’impatto biologico. E forse, se avessero avuto l’albero, la mela, il serpente e lo sfratto, se la sarebbero cavata. Quel che Elohim non aveva messo in conto, infatti, era l’evoluzione e cioè la capacità di risposta della specie umana proprio al suo smisurato potere di creare e fissare le regole della creazione a suo piacimento.
Piaccia o non piaccia, il fondamentalismo nasce nel cuore del monoteismo giudaico-cristiano-islamico come risposta allo “spossesamento originario” di ogni potere da parte del dio Uno, onnipotente, onnisciente, eterno, signore del cielo e della terra. Ha ragione Gauchet quando fonda la modernità a partire da questo DNA del monoteismo che suscita, fin dal suo nascere e all’atto stesso del racconto, una lotta radicale, fondamentale appunto, per la conquista del potere la cui prima posta in gioco è il sapere, la conoscenza.
Oggi ci siamo fatti un’idea diversa di come sono andate le cose: il sapere e la conoscenza sono anch’esse il frutto dell’evoluzione che non è un percorso rettilineo ma piuttosto una rete sistemica complessa e costruita da infinite variabili. Quel che i nuovi orientamenti della ricerca e l’intreccio degli approcci disciplinari supportati delle tecnologie della conoscenza (ciò che chiamiamo “i nuovi saperi”) ci svelano è una sorta di creazione continua dominata da formidabili correnti di collaborazione/selezione per nulla esclusive della specie umana. I rapporti tra il cervello e la mante cominciamo a conoscerli quanto basta per intravedere una nuova e più coerente formulazione del concetto di anima o spiritualità. Abbiamo scoperto catastrofi cosmiche e genetiche, pluralità di origini, energie caotiche che caratterizzano il moto dell’universo e della vita in dimensioni di spazio e di tempo tali da archiviare in via definitiva il tradizionale racconto delle origini e i canoni della storia universale dell’umanità. La morale diviene un territorio di indagine empirica nelle scienze cognitive e l’evoluzione si presenta come un processo accelerato che intreccia biosfera e cybersfera. Anche la teoria della Conoscenza ha perso la sua “C” maiuscola e, da laboratorio alchemico di filosofi e intellettuali, è divenuta ricerca, programma, rete di esperienze, collaborazione, gioco, socialità (la “società della conoscenza”, appunto). Quello che oggi è in gioco è la riclassificazione della natura umana, del bene e del male che la concerne e del rapporto che la specie intrattiene con l’identità terrestre.
E tuttavia per almeno duemila anni, certo per quattro o cinque secoli, la conoscenza (poi il linguaggio che la costruisce e la rende operativa) ha tenuto banco come miracolo e dono esclusivo della specie, ha offerto all’umanità tutta intera quella funzione di dominio e controllo che le deriva dal peccato/rivolta delle origini e ha cucito insieme tutti gli eventi della storia universale. “Sapere aude!”. Nel ciclo storico della modernità la sequenza è semplice: conoscere, sapere, potere. Figli della rivoluzione scientifica del XVII secolo e della sua deriva illuministica del XVIII, ci portiamo dentro ancor oggi il racconto magico delle nostre origini monoteiste e il fondamentalismo del confronto di potere originario.
A pensarci su da Pico a Kant a Hegel a Nietzsche la storia della cultura occidentale è il frutto di questa strategia delle origini, cioè di una gestione “ideologica” della conoscenza (di ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo) o di un suo depistaggio metafisico: un percorso alchemico verso l’aspettativa/scoperta della Verità.
Basta rileggere il Discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola, che è il vero Libro della Genesi del modello di cultura dell’occidente europeo dei secoli XV-XIX, per capire che, nel tempo, questo depistaggio metafisico dell’approccio alla conoscenza si è radicalizzato. Solo di recente antropologi, archeologi, etnologici e filosofi ci offrono un quadro delle specificità culturali del pensiero classico. Ma, in età rinascimentale, la riscoperta della cultura greca, mediata dal neoplatonismo, viene piegata al mito delle origini. L’uomo viene definito da Pico come “un miracolo grande e un meraviglioso essere animato”, perché “nell’uomo nascente, il Padre depose semi di ogni specie e germi di ogni vita”. Qui il fiat di Elohim si precisa e diviene più esplicito, la sua sconfitta più evidente.
“La natura degli altri esseri creati è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu, Adamo, non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale né immortale, perché, di te stesso quasi libero e sovrano artefice, ti plasmasti e ti scolpisti nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai secondo il tuo volere rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.
È questo il passo decisivo, la grande frattura nel corso lineare della civiltà. La discendenza di Adamo diviene una esclusiva e la palma dell’humanitas passa all’uomo europeo e l’eurocentrismo fissa le direttive dello sviluppo dell’antropologia occidentale dei secoli XV-XX.
L’idea di natura umana che regge il modello di cultura della modernità è a fondazione mitico religiosa e, oggi si potrebbe dire, non ha nulla di scientifico (leggi: realistico). “Siate Dei e tutti figli dell’Altissimo” è il proclama che Pico affida alla modernità: l’uomo si autodefinisce come un prodotto della divinità e si riconosce nella stilla ultraterrena che gli ha dato il soffio vitale. Con una espressione corriva si potrebbe dire che è un alieno sbarcato improvvisamente su questo pianeta da remote sfere celesti.
Ma vi è di più. Questo mito fondativo ed esclusivo della nostra identità è a base storica. La creazione è un evento, si fonda su una rivelazione e una testimonianza scritta, ha una sua possibile datazione e il giardino dell’Eden c’è stato davvero in un certo luogo dell’area medio orientale o altrove. E non si tratta di una età dell’oro sconvolta da sismi e inondazioni o cancellata dai conflitti clanici tra gli esseri umani,il Paradiso è il primo prodotto della cultura umana, il vero atto creativo e un laboratorio sperimentale, non un apparato magico. Per questo lo abbiamo cercato e lo stiamo cercando ancora adesso, cerchiamo di ricostruirlo all’unico scopo di affermare il nostro potere e la libertà della trasgressione.
I giovani di oggi alle utopie non credono più e questo glorioso genere di letteratura politica ha fatto il suo tempo. Ora che la modernità ce la siamo lasciati alle spalle sappiamo che ricostruire il laboratorio delle origini forse è possibile ma certo non è opportuno. Tutte le esperienze utopiche si sono tradotte in drammatiche distopie, e si è scoperto che la strada verso la pratica realizzazione dell’Eden porta direttamente all’inferno. perché ciò che è bene e male per l’uomo non è stato definito una volte per tutte dal monoteismo giudaico cristiano. Oggi la storia della natura ha preso forma come un processo del tutto indipendente dal programma provvidenziale della storia universale annunciata dalle profezie. Si tratta di un percorso su scale temporali ancora da scoprire e sicuramente caratterizzato dalla complessità e discontinuità dei suoi itinerari. L’affermazione dell’uomo è divenuta un incidente della storia della vita su questo pianeta e nell’universo, e sappiamo che questa nuova storia è ai primi capitoli e offre infinite alternative al racconto delle origini di un uomo-dio che si fa da se nel tempo, lo domina e ne detta il corso cronologico. Se progredire nella conoscenza significa penetrare nella mente divina, percepiamo con chiarezza l’infinita lontananza che ci separa dalla meta e la nostra assoluta alterità alla Verità estrema alla quale non arriveremo mai semplicemente perché non c’è nello spazio e nel tempo che ci è dato praticare. Però nella pratica e nel vissuto quotidiano la forza del mito fondativi, questa ideologia della centralità dell’uomo votato all’onnipotenza e sempre obbligato a superare il suo stesso potere, questo eurocentrismo fondamentalista fa ancora il tono del nostro pensiero messianico, fa il contenuto dell’agire politico.
Insomma, per come vanno le cose, si può ritenere che generalmente, a tutt’oggi, tra esperti e intellettuali delle discipline umanistiche prevalga ancora una teoria semireligiosa della natura umana la quale comprende sia idee empiriche su come funziona la mente sia un corpus di valori etici che le persone applicano a queste idee.
La teoria della conoscenza dominante fino al secolo XX è stata una “ideologia” fondamentalista del potere, una “aspettativa di Verità” e dunque un paradigma profetico? Probabilmente sì. E lo certifica il preteso universalismo del sapere occidentale nei secoli della modernità (quel che oggi si chiama la “teoria unificata”), la sua ferocia nominalistica, la lotta, sul filo dell’intolleranza, per l’egemonia di questo o quell’ambito disciplinare, la presunzione centripeta di ogni campo di assorbire in sé tutti gli altri, di governarli gerarchicamente e la conseguente risposta fondamentalista per il rischio dell’emarginazione e della cancellazione. La filosofia (nel XVI secolo), poi la scienza (XVII-XVIII), la storia (XIX), la sociologia e l’economia (XX) si sono avvicendate alla conquista del primato per offrire alla natura umana il risarcimento definitivo della caduta, la revoca delle sfratto o la costruzione di una Città terrena di incomparabile bellezza rispetto a quella delle origini, la Città divina. La lotta per il primato tra discipline umanistiche e discipline scientifiche è ancora in corso; se non fa morti e feriti è solo perché è residuale come il fondamentalismo stesso.
C’è un’altra cartina di tornasole. Il pensiero politico nella sue molteplici varianti (filosofia, scienza, storia delle dottrine) è lo specchio di questo depistaggio della conoscenza al servizio di una natura umana a fondazione magico religiosa. Forse lo abbiamo colto con chiarezza nel corso delle nostre lezioni e dei nostri dibattiti alla ricerca dell’homo politicus della modernità. E’ mai esistito il Principe-condottiero di Machiavelli, o re Utopo o il perfetto Cortegiano? Che cosa è mai la sovranità, questo potere di tutti i poteri, se non un mito in azione che certifica la possibile esistenza dell’Eden? Possiamo credere davvero all’uomo-meccanismo di Hobbese e al Leviatano se non come a un mito delle origini volta a rimontare la china della primitiva cacciata? Dove stanno davvero i diritti naturali se ancora non conosciamo la natura umana? Che fondamento hanno le leggi “scientifiche” di Montesquieu e lo stato di natura di Rousseau? E al citoyen della Rivoluzione che universalità possiamo attribuire? Dov’è la vocazione irreversibile alla democrazia profetizzata da Tocqueville e dov’è, nel mondo che hanno costruito i nostri maggiori, la liberazione finale dal bisogno annunciata nel Manifesto?
Porsi questi interrogativi non significa certo che le monumentali architetture costruite dal pensiero politico occidentale per definire e organizzare la sfera del politico e l’ordine sociale, non costituiscano un picco della creatività umana. Le domande certificano solo che il pensiero politico è il figlio diletto e primogenito di un fondamentalismo della conoscenza al servizio di una creatura divina che ben poco ha a che spartire con Gaia (il pianeta vivente) e cioè la consapevolezza di un pianeta di vita non ad esclusivo servizio della specie homo sapiens.
Oggi l’asimmetria tra l’essere e il dover essere, tra l’immaginario e la realtà, tra sapere e potere, tra uomo e natura è divenuta evidente, palpabile, per effetto del riscontro che l’era dell’accesso al sapere e alla sua libera comunicazione, consente quotidianamente di fare tra menzogna e realtà, vero e falso, possibile e probabile. La teoria della conoscenza sulla quale si fonda il pensiero politico e il modello di essere umano del quale si pone al servizio appartengono a un passato che le nuove piste dell’esperienza scientifica stanno rapidamente archiviando.
Il fondamentalismo che torna alla moda in questo avvio del XXI secolo, islamico o no che sia, è forse il residuale magico della teoria della conoscenza fondata sulla natura divina dell’uomo. Il pensiero politico e la sua storia ne tracciano il percorso, ne svelano le origini e il DNA. La risposta del sapere politico tradizionale ai problemi che, nel mondo di oggi, il potere pone è inadeguata e appunto “fondamentalista”. La lotta tra le forze del bene e quelle del male, alla quale si sono votate la Presidenza Bush e le correnti neoconservatrici della cultura d’oltre Atlantico, appare un rigurgito del passato millenario dei monoteismi, rivelazioni esclusive fatte all’uomo e per l’uomo. Fondamentalismo, insomma.
Questa riflessione ai margini del corso, naturalmente, offre solo di un modello interpretativo (una proposta e una provocazione per il dibattito) che può tuttavia illuminare circa l’attuale progressiva liquefazione della sfera del politico, la difficoltà di applicazione e gestione dei miti del potere che hanno caratterizzato il ciclo della modernità e che non sembrano più in grado di generare un pensiero strategico per la costruzione di una Città terrena immune dai germi dell’autodistruzione. E forse il superamento di questa situazione di stallo potrebbe derivare da una “teoria unificata del potere” e da una politica capace di assorbire e mettere in pratica nuovi orientamenti di ricerca. Forse anche nell’ambito delle discipline politologiche in tutte le loro varianti e approcci (storia, scienza, filosofia) potrebbe essere giunto il momento di una frattura dei confini disciplinari e di un modello di collaborazione nella ricerca sul campo a fianco di biologi, informatici, matematici e fisici, cognitivisti, manager, e… e mi scuso per aver dimenticato qualcuno.