Parte II – lezione 6
Rivoluzioni e metamorfosi
Per effetto delle tre rivoluzioni del Novecento (della fisica atomica, della biologia genetica, dell’informatica), storia della natura e storia umana si intrecciano e trovano punti di contatto, ragioni di scambio e di reciproca dipendenza. Tra le possibili vittime di questa nuova situazione vi è l’insieme delle metafore e dei programmi di azione della temporalità storica e della percezione del mutamento storico. Come utilizzare i paradigmi storici di Rinascita, Riforma e Rivoluzione, Progresso, Sviluppo nelle dimensioni temporali di questo avvio del XXI secolo? Quali sono i reali confini della nostra memoria in presenza di tecnologie alternative a quelle ormai primordiali delle scrittura e del racconto orale? E cosa significa l’espressione “prospettiva storica”? Siamo poi così sicuri che il tempo-storia così rigido nella sua struttura possa risolvere il problema continuità/discontinuità degli eventi, il loro concatenamento necessario?
“Così Alessandro, prima della battaglia, parlò all’esercito e disse”, “Allora Mirabeau si affacciò al balcone dell’Hotel de ville, e parlò al popolo di Parigi”. Mi chiedo in che modo, l’esercito macedone e il popolo di Parigi avrebbero potuto sentire qualcosa nella smisurata piana di Isso o nelle ragguardevoli dimensioni del piazza di Parigi ancorché non inquinata dal traffico di oggi. E quando mi scorre sotto gli occhi un discorso di Robespierre, mi chiedo come un’oratoria così articolata, un’eloquenza tanto densa di concetti teorici fosse davvero comunicabile nella sala dei Giacobini a stento illuminata e agitata dal rumore di più di quattrocento persone in stato di tensione emotiva. L’esperimento lo possono fare tutti: provate a leggere, nel corso di una lezione, un discorso tratto dalle pagine di Erodono o di Tucidide, un intervento oratorio di de L’Hopital agli Stati generali di Francia. Personalmente, in aula magna, non riesco a farmi sentire senza il microfono; l’agitazione di un centinaio di studenti, ancorché abbastanza attenti e disciplinati come lo sono i miei, mi infastidisce e distrae; tuttavia ogni condottiero che si rispetti, ogni politico che fa la storia riesce da più di duemila anni a parlare alle masse in condizioni proibitive e a comunicare concetti che la storia la fanno davvero, rimangono nei secoli come testimonianze vive e talvolta elaborazioni teoriche fondamentali. Il problema è inquietante perché sono queste le nostre fonti primarie alla quali lo storico fa riferimento; il problema si impone e forse, da qualche parte dell’universo della ricerca storica, è stato anche affrontato.
Le nuove tecnologie della storiografia virtuale (un ramo del sapere in via di progressiva espansione) non sono riuscite, per ora, a ricostruire, a partire dai reperti umani disponibili, il timbro di voce dei grandi eroi del passato da Ramsete, a Cesare a Luigi XIV, a Bonaparte a Garibaldi e così di seguito. E si deve aspettare il XX secolo per cogliere il senso della comunicazione auditiva. Prima di allora e per tutto il corso della Storia universale, queste azioni e questi pensieri decisivi noi ci limitiamo a leggerli su carte stampata. La tecnica della comunicazione scritta è stata, e per molti aspetti ancora rimane, il fondamento di ogni narrazione della vicenda umana fino a definire non solo il solco tra civiltà e barbarie, ma anche il ritmo lineare dello sviluppo della realtà e la struttura stessa della temporalità in un tempo-storia che l’emergenza tecnologica del XXI secolo e i “nuovi saperi” potrebbero mettere in discussione. Qualche riflessione su questo tema in attesa di un dibattito può costituire un contributo al rinnovamento della storiografia e una ridefinizione del mestiere dello storico. L’argomento ci consente anche un bilancio sul corso di Storia delle dottrine politiche di questo anno accademico dedicato alla esplorazione dei concetto cardine della modernità: Rinascita, Riforma, Rivoluzione.
La Storia, con la “S” maiuscola, è figlia di e dipende da una formidabile tecnologia di base: la scrittura, la fonte scritta, il testo/testimonianza. È sulla ricerca, l’analisi e l’interpretazione delle “fonti” scritte che si fonda, infatti, la professione dello storico.
Visto il corso del processo di alfabetizzazione, questo ramo del sapere (al pari e certo più di altri) è stato riservato a un ristretto universo sociale e culturale: la formazione e l’intrattenimento delle classi dirigenti o, se si preferisce, delle élites. Nel corso del XIX, al culmine dell’epopea storiografica, il grado di alfabeti e prealfabeti non supera, in Europa occidentale, il 60% della popolazione; se poi si tiene conto del prezzo dei libri e della complessità del prodotto culturale, la comunicazione storica e la percezione del mutamento storico risulta ancora patrimonio esclusivo di una sottile minoranza. Occorre attendere la scolarizzazione di massa, le nuove tecnologie della stampa e lo stato totalitario per fare del sapere storico quello che nei secoli della modernità in effetti è stato: “un plebiscito in azione” o “uno slogan continuato”, formule che oggi si riassumono nell’espressione, più fredda e anche più ambigua, di “uso pubblico della storia”.
Il che ha prodotto non solo un vincolo quantitativo nella circolazione del sapere storico, ma anche un limite nell’orizzonte temporale sul quale esso si è esercitato e una progressiva incapacità di affrontare la struttura, la sostanza e le dimensioni di Cronos: la Storia è, infatti, in qualche modo, una scienza del tempo, del suo governo e del suo movimento.
Per tradizione e canone consolidato la Storia principia dalla scoperta della scrittura (3500 a.c.), oltre questo confine cronologico vi è stata, per secoli, una zona del tempo nebbiosa, un continente inesplorabile e quasi fatto di una diversa qualità temporale: la Preistoria. Oltre il confine delle “fonti scritte” la storiografia occidentale si è sempre trovata a disagio. Racconti mitici, epopee delle origini, favole, tutt’ al più “storia orale” imprecisa nelle date, negli eventi, nella “verità” dei contenuti, hanno messo in sospetto gli storici. Niente date, niente Storia; per almeno tre o quattro secoli è andata così.
Votati alla tecnica della scrittura e signori indiscussi di questo mezzo comunicativo, gli storici, sono sempre stati ossessionati dal problema delle fonti e da una sorta di chimica degli elementi cartacei (papiri, epigrafi, pergamene, manoscritti, memorie cristallizzate nei segni) e solo di recente si accorda qualche attenzione alle “scritture” rupestri. Fino al cuore della modernità (il XVII secolo e in piena rivoluzione scientifica), l’origine della civiltà umana ha coinciso con la data della Creazione storicamente datata al 6.600 a.c. anno più, anno meno. La ricerca del paradiso terrestre non ha cessato di stimolare e illudere navigatori ed esploratori al tempo della grandi scoperte, e per primo Buffon avanza l’ipotesi che la presenza dell’uomo sul pianeta possa essere retrodata di qualche decina di migliaia di anni. Nel XIX secolo, con prudenza e in via clandestina, questi confini sono stati progressivamente violati, un passaparola, niente di più. Poi è venuta l’invasione dei fossili, oggetti alieni e di nessun interesse per la storiografia. La paleontologia (con quattro o cinque secoli di ritardo rispetto alla paleografia) si riorganizza nella prima metà del XIX secolo; lo studio della preistoria si affina e quello della “civiltà materiale” (XX secolo) consente l’utilizzo di nuove fonti e nuovi metodi di indagine e archiviazione. Poi finalmente alcuni tentavi di datazione. Poi ancora, sotto la spinta di etnografia e antropologia, nella prima metà del Novecento si assiste al collasso dell’universo temporale storico, la diga si rompe e il passato si dilata a dismisura.
Le nuove tecnologie di investigazione del passato consentono una più corretta datazione della creazione spostandola a circa tredici miliardi di anni fa, miliardo più, miliardo meno. Ora sappiamo che le prime forme di vita sulla terra risalgono a quattro miliardi di anni. I primi fossili degli ominidi a quattro milioni addietro. La storia della natura ha le sue date sull’arco di qualche miliardo di anni e dell’evoluzione umana conosciamo molto e molto di più. Essa si materializza in una vera Storia fatta di eventi, personaggi, azioni. Fatti veri, personaggi veri, azioni vere perché certificati dalle “fonti”.
Oggi sappiamo che le fonti storiche tradizionali, e cioè i documenti scritti, costituiscono, nella loro apparente immensità, una categoria di reperti in via di progressivo assottigliamento e che solo la produzione storiografica (libri che parlano di altri libri) alimenta a fatica. Nel XXI secolo la mano passa al digitale, le fonti si moltiplicano, gli archivi sono amministrati da intelligenze artificiali, che sviluppano integrazioni tra i dati, li organizzano, colmano le lacune, sviluppano modelli di interpretazione e offrono metodologie efficienti e complesse per al costruzione di realtà virtuali. Le metodologie di ricerca si raffinano e si intrecciano con una pluralità di discipline che di storico hanno ben poco, anzi sono del tutto estranee alla tradizione storiografica della modernità. Quel che cambia è la natura stessa delle ricerca scientifica che non insegue “verità”, ma esperienze e ipotesi, non è più il prodotto della fatica (e delle libertà) individuale, ma di collaborazioni e organizzazioni complesse dotate di tecnologie, laboratori, tecniche gestionali vieppiù complesse e costose.
Forse non ce ne siamo resi conto, ma di Troia oggi sappiamo più di quanto non si sappia di qualche borgo medievale; della storia dei Neanderthal abbiamo più dati di quanti non ne possediamo su molte unità etniche dell’arco alpino in epoca “storica” e in un tempo non molto lontano da noi. Della vicenda di Pompei ci dicono molto di più, meteorologi, vulcanologi, archeologi, biologi, fitodendrologi, antropologi, psicologi e informatici di quanto non abbiano mai potuto dire e scrivere i testi antichi e i reperti storiografici. Insomma le basi “letterarie” (documentarie) della scienza storica tradizionale sono divenute gracili palafitte.
Per la ricostruzione “storica” di un dinosauro disponiamo di materiali più significativi e affidabili, in qualità e quantità, di quanti ne possediamo per gli ultimi dieci giorni di Hitler. Sono i programmi per il trattamento dei dati digitali che ci consentono di ricostruire il volto di Filippo il Macedone e di Cristoforo Colombo; è l’analisi del DNA che svela alcuni misteri di questo o quel protagonista, delle ragioni di una catastrofe di questo o quel gruppo etnico. La biogeografia svela il perché del successo di questa o quella civiltà, e la ricerca delle aree mitogenetiche orienta con discreta efficienza a definire questo o quel ceppo culturale. I modelli matematici, assistiti dall’intelligenza artificiale, si stanno dimostrando strumenti efficaci nella simulazione dei processi temporali e offrono un approccio convincente per lo studio dei sistemi complessi come appunto la storia intesa come insieme della azioni umane nel loro sviluppo temporale. La storiografia fondata sulle fonti letterarie si restringe fatalmente a una porzione temporale di pochi secoli, una ventina, e rischia ormai di generare microstorie, a fondazione eurocentrica, difficili da comunicare nell’era della globalizzazione culturale e dello scambio interculturale. Il tempo-storia che possiamo costruire sulla scorta delle fonti tradizionali è per necessità angusto, lacunoso e lineare; un tempo sfugge alla complessità perché, sull’arco di poche migliaia di anni, le testimonianze che ci è dato scoprire e accostare rappresentano solo la punta di un iceberg irragiungibile nelle sue reali dimensioni e profondità. Figlia della comunicazione scritta la nostra Storia è la storia di “una” cultura e, solo per ricordarlo, senza Champollion avrebbe un corso temporale dimezzato.
Quel che più conta è che, per effetto delle tre rivoluzioni del Novecento (della fisica atomica, della biologia genetica, dell’informatica), storia della natura e storia della civiltà (storia dell’uomo), le quali nei secoli della modernità hanno percorso strade parallele e dotate di ampia autonomia, ora si intrecciano e trovano punti di contatto, ragioni di scambio e di reciproca dipendenza. A cominciare dalla natura stessa dell’uomo progressivamente detronizzato dalla posizione di esclusiva centralità (sovranità) e autonomia nel processo evolutivo che ha fatto finora il tono dell’esperienza storiografica e della filosofia della storia. Il racconto della origini non si limita più agli spazi angusti del giardino dell’Eden e neppure alla ricerca dell’anello mancante. Le dimensioni temporali sulle quali la narrazione della vita si articola, sono decisamente più vaste di quanto la cultura storica tradizionale potesse immaginare, le metodologie per la loro investigazione sempre più articolate e complesse. Sono approcci interdisciplinari e tecnologicamente assistiti dalle tecnologie.
Oggi, anche qui siamo in presenza di processi di globalizzazione, siamo alla ricerca di un tempo globale e totale, della vita e della specie, sul quale riflettono e dibattono da mezzo secolo fisici, biologi, matematici, informatici, filosofi della scienza. Le origini, la sostanza, il significato stesso di Cronos sono in discussione e questa discussione è all’ordine del giorno. Dal tempo-storia tradizionale caratterizzato dal succedersi di singoli eventi-cerniera ai quali è attribuito il compito di regolare continuità e discontinuità si sta inavvertitamente passando all’azione e ai tempi di reti sistemiche nelle quali i rapporti di causa effetto si dilatano a una infinita pluralità di eventi. L’idea rassicurante di un progresso lineare come motore del tempo-stopria è stata archiviata ormai da un secolo a favore di quella assai più fredda di “sviluppo; anche il concetto un tempo solido ci “civiltà e incivilimento sembra aver fatto il suo tempo con la fine dell’eurocentrismo e della modernità. Modernizzazione, innovazione e mondializzazione tengono il campo per designare un fase nuova del corso dell’esperienza umana e quella che è stata definita l’età del presente o l’era dell’accesso illuminano nuovi orizzonti della temporalità.
Tra le possibili vittime di questa nuova situazione non vi è tanto la Storia “universale” di matrice ottocentesca stanca e afflosciata in una produzione editoriale in via di estinzione, quanto piuttosto l’insieme delle metafore e dei programmi di azione della temporalità storica, nonché la percezione stessa del mutamento storico.
Per questo l’oggetto del nostro corso quest’anno è stato appunto l’esplorazione dei concetti di Rinascita, Riforma e Rivoluzione in quanto metafore del mutamento storico nei secoli della modernità. Cioè di quei motori del programma generale della ricerca storica che, in qualche modo, hanno consentito di leggere in successione, catalogare e dare una spiegazione (interpretare) della discontinuità degli eventi, di vincerne la forza centrifuga che li condanna fatalmente all’oblio. Certo si sarebbe potuto fare di meglio e di più: altri software per il programma generale del racconto storico sono stati messi a fuoco dalla cultura occidentale e nell’ambito della filosofia della storia: quelli, ad esempio, di “progresso”, “dialettica”, “evoluzione”, “sviluppo”. Per certi versi, però, anch’essi sono stati richiamati e sono rientrati nel nostro discorso. Perché Rinascita, Riforma e Rivoluzione li contenevano in sé e li hanno generati. Le parole chiave che abbiamo scelto, infatti, appartengo proprio alla fase di avvio, di incubazione e di lancio della narrazione della Storia universale (XV-XVIII secolo), ne consentono la scansione in ere, epoche, regni e costituiscono lo zoccolo duro dell’acculturazione al sapere storico, il fondamento del suo processo comunicativo il quale si confonde appunto con quel che ora chiamiamo “uso pubblico della storia”.
In buona sostanza, questi diversi motori del tempo-storia, di uso comune nel canone della manualistica, ci sono apparsi tutti figli di una stessa concezione della temporalità, quella lineare caratterizzata dalla necessaria sequenza tra passato, presente futuro. Un flusso che necessariamente implica un suo punto di partenza (la creazione come data zero) e un suo punto di arrivo (l’apocalissi/profezia che di date non ne ha), un cammino rettilineo riservato all’uomo nel tempo e nel suo tempo. A sua volta, nella sue origini “storiche”, questa sostanza o dimensione del tempo umano l’abbiamo rintracciata nel mito delle origini del monoteismo giudaico cristiano, in una epopea della creazione antropocentrica che narra il conflitto uomo/Dio per il possesso della conoscenza. La Storia, come l’ha praticata la cultura della modernità, è una deriva di questo racconto delle origini che con il Rinascimento segnerà la piena autonomia della storia umana su quella divina/provvidenziale e l’avvento di un uomo che si fa da se nel tempo.
Proprio l’idea di Rinascimento infatti, che si impone all’ombra dello storicismo trionfante nel XIX secolo, riflette il clima alchemico dell’esperienza esclusiva dalla quale prende il via la percezione del mutamento storico. Una civiltà morta (quella classica), un mondo decaduto (quello dei secoli bui), una ri-nascita (quella del presente). Una nuova Genesi (un nuovo mito, questa volta letterario) che colloca l’’uomo, non al centro del paradiso ma del mondo così come è, in un rapporto nuovo con le forze misteriose della natura (scambio, compenetrazione, somiglianze e simmetrie). Alchimia, biologia, magia naturale: la Rinascita lascia intravedere una vera e propria rifondazione della temporalità e un tentativo di conciliazione e classificazione tra storia naturale ed eventi storici. Nei secoli XIV-XV la scoperta del passato (un passato vero, perché storico), schiaccia e guida il presente. La linearità del tempo si ridefinisce e si rafforza. Il tempo scorre da questa data di ri-nascita, da questa data zero, verso il presente.
Anche l’idea di Riforma è figlia di questa ri-nascita. La metafora non è più tratta dalla biologia, ma dal cuore stesso dell’antropologia religiosa (la Riforma protestante, appunto). Il ritorno al mito delle origini qui si trasforma in un ripristino della Verità mediante la libera interpretazione delle fonti (le Sacre scritture). Il ritorno al passato è una conquista del presente, la sua liberazione dal peso dell’autorità e del potere di dettare le regole della Storia e il suo corso predefinito al di fuori del soggetto. L’uomo che si fa da sé nel tempo è responsabile del suo destino terreno: del suo futuro. In qualche modo, impercettibilmente il passato si piega al presente per offrirgli il futuro. È un percorso di emancipazione. Ciò che i secoli della modernità traggono da questa nuova percezione del tempo, è l’idea che il moto della storia può essere connesso alla libera azione del potere nel rimodellare se stesso, la società che governa, le istituzioni che ne fissano la prospettiva. Il dispotismo illuminato, l’età delle riforme è, in sintesi estrema, l’illusione di una razionalità del potere (e di un potere dal volto umano) che interpreta le leggi della natura umana finalmente scoperte (i diritti naturali) come un programma di continua messa in valore delle qualità morali dell’individuo e della specie. Riformare coincide infine con adeguare l’ordine sociale al corso del tempo, curarne e prevenirne l’invecchiamento.
L’idea di Rivoluzione infine, è una metafora tratta del vocabolario astronomico, ma si impone in un significo del tutto diverso proprio nel 17890/91. Rivoluzione, nel 1791, sta a significare non già l’orbita dei pianeti e il loro moto circolare nel tempo, il ritorno al punto dal quale si è partiti e dunque il ripristino di un ordine delle origini violato nella pratica di governo. Al contrario indica una rottura radicale e violenta, l’azzeramento del tempo storico, il trionfo di un presente che genera esclusivamente il futuro; la Rivoluzione è l’atto creativo, tutto umano, di un mondo nuovo frutto delle leggi che caratterizzano la specie e il suo DNA di crescita, e queste leggi/tendenza altro non sono che un progresso indefinito. Così intesa e vissuta, l’idea di Rivoluzione contaminerà tutto il XIX secolo imponendo una vera e propria “malattia del futuro” che segna il culmine dell’esperienza della modernità.
Questo insieme di esplorazioni e di proposte interpretative mi ha consentito di offrire un filo rosso per la lettura del pensiero politico della modernità e del clima culturale nel quale si sono mossi gli autori e le loro dottrine. Le dottrine ci sono apparse così come una sofisticata tecnica di produzione di miti, idee forza e ideologie volte a garantire l’emergenza del soggetto e a celebrare la dignità dell’uomo, un processo di lenta cumulazione e di consapevole innalzamento della storia intesa come progressivo controllo e governo del tempo. Sul filo di continue rinascite, riforma, rivoluzioni il Principe, il Cortegiano, l’abitatore di Utopia hanno creato le condizioni per il rovesciamento dell’idea stessa dell’uomo che da suddito è divenuto cittadino, Sovranità, Contratto sociale, Diritti naturali e Costituzione hanno consentito la creazione monumentale delle Stato di diritto e poi l’idea corale del conflitto come strumento necessario e naturale della regolazione dei rapporti umani ci ha fatto approdare allo Stato sociale e provvidenziale, ma anche autoritario e totalitario che caratterizza il recente passato e forse l’immediato presente. Ma proprio questo modello di una analisi possibile della percezione del mutamento storico, ha suscitato nei miei studenti un immediato riscontro circa la mutata sostanza e velocità del tempo che abbiamo di fronte e che ci tocca praticare in questo avvio del XXI secolo.
Ogni modello interpretativo comporta automaticamente qualche forzatura, un ordine logico che non rispecchia mai né la verità, né la realtà; tuttavia per come lo abbiamo costruito esso riconduce in qualche modo tutti questi motori della percezione/spiegazione del tempo-storia al fondamentale assunto di un tempo lineare e progressivo che si fa da se con forza crescente e si addensa per effetto della sua cumulazione. Un tempo esclusivamente umano o dell’humanitas, tempo breve per definizione, fragile e caduco per necessità.
Ora la domanda che dobbiamo proci è la seguente: questo tempo-storia lineare, progressivo, umano, come si concilia con i nuovi orizzonti della storia naturale? Il susseguirsi necessario di passato, presente e futuro che la nostra mente elabora in via automatica e che fonda il sapere storico è uno strumento sufficiente per navigare le dimensioni del tempo alle quali siamo approdati? Quali sono i reali confini della nostra memoria in presenza di tecnologie alternative a quelle ormai primordiali delle scrittura e del racconto orale? E cosa significa l’espressione “prospettiva storica”? Siamo poi così sicuri che il tempo-storia così rigido nella sua struttura possa risolvere il problema continuità/discontinuità degli eventi, il loro concatenamento necessario? E gli eventi stessi non potrebbero essere snodi di reti sistemiche temporali che sfuggono proprio alla linearità?
Domande che ne richiamano altre e altre ancora, ma che possono rendere l’idea del capolinea al quale siamo arrivati in questo avvio del XXI secolo.
Oggi alcune tempeste sono intervenute a scuotere il flusso maestoso della rassicurante linearità del tempo e delle sue pratiche di governo da parte del sapere storico e del pensiero politico in particolare. Sappiamo che il passato e il futuro non esistono per la buona ragione che il passato non c’è più ai nostri sensi e il futuro è il prodotto della nostra azione immaginativa. Questa è “l’età del presente” proprio perché il disegno di una completa autonomia dell’uomo dal suo passato (e dal mito delle sue origini privilegiate) si è realizzato: il soggetto, nella sua singola individualità governa ormai l’unico territorio del tempo che davvero gli appartiene. Sappiamo dunque che è il presente a generare il passato e il futuro come creazioni cerebrali e culturali connessi alla nostra personalità individuale, alla nostra specifica identità. Accettiamo l’idea che il passato sia in realtà un “passato-presente” o un “passato del presente” e così via. A sua volta il futuro (attesa, aspettativa) si configura come un orizzonte temporale del presente e, al pari del passato, è una grandezza variabile storicamente e culturalmente, è un prodotto del soggetto e dei rapporti misteriosi che tra loro intrattengono il cervello e la mente.
Poco ancora sappiamo dei processi mentali relativi al ricordo e all’oblio. Le nuove ricerche sulla fisiologia della memoria, i modelli psicologici che definiscono la regolazione di ricordo e oblio, la pressione sulla ricerca medica indotta dall’inedita diffusione di patologie della memoria hanno modificato in profondità la rappresentazione scientifica del rapporto con la temporalità. E neppure i tradizionali campi di analisi della trasmissione della memoria culturale, delle letterature, dei modelli pedagogici, delle ipotesi filosofiche sono rimasti immuni dalla spinta proveniente da queste tre grandi correnti di sviluppo della ricerca e gli studiosi sono vieppiù costretti a riformulare la propria impostazione, rivedere criteri stessi dei processi e delle strategie cognitive. Inoltre l’introduzione di nuove tecniche di immagazzinamento dei dati su base informatica, ha reso disponibile una illimitata possibilità di raccolta di informazioni e archiviazione di memoria; a sua volta questo insieme sistemico di fonti probabilmente modifica la percezione del tempo e impone di interrogarsi sulle forme di discernimento e strutturazione del ricordo e dell’oblio.
Certo il segreto del tempo e del suo moto non lo hanno per ora svelato, né fisici, né storici, né psicologi o filosofi o biologi, ma la sua sostanza e la sua densità, la sua velocità e la sua estensione ci appaiono oggi come una pluralità di sfere il cui moto è del tutto complesso. Nulla di definitivo, nessuna meta raggiunta; ma la percezione di diverse dimensioni e velocità del tempo è al centro della nostra esperienza, ne fa il tono e il clima. I nostri rapporti con il passato paiono vieppiù recisi per effetto della velocità che gli eventi hanno assunto nel loro nascere, e scomparire. Per la stessa ragione quelli con il futuro si sono schiacciati a frazioni temporali sempre più sottili e disperse. Le tracce del tempo non sono più disseminate nel deserto e celate alla nostra quotidiana esperienza e dunque visibili solo agli occhi di analisti e ricercatori piegati suo testi e sulle fonti tradizionali. Ci troviamo in presenza di un mare di eventi nei quali è consentita la libera navigazione: paradossalmente tutto il passato, tutto il presente e tutto il futuro sono a portata di clic. Forse è proprio vero che, in qualche luogo degli anno ’80 del secolo scorso, per una imprevista magia, la stessa velocità del tempo ne ha mutato la sostanza e la nostra cultura ha superato inavvertitamente “il muro della storia” e cioè quel tempo-storia nel quale gli eventi scoperti, narrati, e soggiogati dalla storico garantivano la possibilità della libera interpretazione. Questo sfondamento di una storia che si era fatta muro ha liberato infine gli eventi dal dominio dell’ordine del tempo-storia; privi della loro prigione lineare, sono liberi e forse sono anche entrati in sciopero e non sono più soggetti alle direttive degli storici.
Qualcosa del genere deve essere realmente accaduto perché, lo percepiamo con disagio ma con netta chiarezza, i motori che hanno assicurato la percezione del mutamento storico nei secoli della modernità sembrano essersi ormai esauriti. Rinascita, Riforma, Rivoluzione, ma anche Progresso, Evoluzione, Sviluppo paiono incapaci di guidarci al governo il nostro tempo. Forse oggi dovremo fare appello ad altri motori, altre formule, altra metafore per conquistare, se non il dominio, almeno una adeguata coabitazione con Cronos. Per esempio “metamorfosi” o “mutazione” e cioè quella situazione, inabituale per gli storici, nella quale l’evento non ha una sua personalità in quanto nuovo rispetto a quello che lo ha preceduto, ma e il “nuovo” stesso ad essere una categoria in se.
C’è da pensarci. E certo questo approfondimento meriterebbe qualcosa di più e di diverso da un tradizionale corso universitario.