Parte II . lezione 5

Tra gli storici non si è aperto un dibattito circostanziato sul “mercato” della storia; un mercato che la recente ondata di opere storiografiche vendute in edicola sembra dilatare oltre i tradizionali confini. Come spiegare le vertiginose tirature di testi di storia e di intere collane, francamente indigeste e certo improponibili come semplice intrattenimento? Come spiegarle in presenza di tirature quasi miserabile dei libri che certificano l’impegno diuturno dei ricercatori? E perché mai titoli un tempo invenduti o passati inosservati, incontrano  oggi una domanda così vasta? Si tratta di una vera alluvione che rischia di sommergere il consumatore e per la quale il ricorso a paradigmi di riferimento come “uso pubblico della storia” e “memoria storica” non pare appropriato.

La storia come alluvione, il passato come illusione.

Oggi il menu del “collezionabile” in edicola (quella sotto casa a due passi dalla Metropolitana) offre: una Enciclopedia del mondo antico in due tomi, il trentaseiesimo volume  di una Storia universale, il terzo e ultimo volume di una Storia dell’impero Bizantino, la ventiduesima cassetta video della Storia del Terzo Reich, il quarto volume della Storia d’Italia di Montanelli giunto alla trentesima edizione, il secondo della Storia degli Italiani, il fascicolo settimanale della Storia della Repubblica sociale, il DVD sulla distruzione di Pompei,due games sulle conquiste di Alessandro, un volume sulla Storia del mondo a fumetti… che altro? Una Storia dei grandi condottieri del passato, un Atlante storico di un migliaio di pagine (seicento cartine a colori), un volume sui misteri di Tutankamum, una biografia di Pompeo Magno, una di Seneca e… una di Caligola… Vada per Caligola: sei euro e trenta. Fatto, e per oggi basta così. 

È l’ultima onda dello tsunami storico che investe la cultura nazionale, sommerge le edicole e fa tabula rasa.

L’alluvione storiografica ha tracimato i limiti del sapere, delle discipline tradizionali, del vaticinio accademico. La storia è per tutti e di tutti. Saggi, collane di saggi, intere storie universali in decine e decine di volumi, documentari, film, teleromanzi, dvd, games, inchieste e servizi da quotidiano e rotocalco, celebrazioni di cinquantenari, centenari, decennali, ventennali, quinquennali, anniversari fanno della storia il sapere ormai più diffuso a livello di massa. In apparenza nessuno si salva più, il processo di acculturazione alla storia è forzato; l’onda del passato sembra destinata a sommergere il presente e il quotidiano. Dove stanno gli storici?

Stanno nei loro santuari a dibattere sull’ “uso pubblico della storia” (per gli intimi: ups). Per un attimo il tema è stato oggetto di approfondimento e ora rimane come espressione verbale dei cui contenuti ci siamo dimenticati. In realtà quest’oblio è giustificato: l’espressione è infelice e fuorviante. Quando mai della storia si è fatto un uso privato? La storia è costruzione di miti, una mitografia della cultura della modernità il cui obiettivo altro non è che celebrare e insegnare la dignità dell’uomo. È un linguaggio, un processo comunicativo e non vi è storia che sia tale se non viene insegnata, resa pubblica. Inoltre storia e politica appaino indisgiungibili perché il compito della storia è raccontare e interpretare gli eventi, giudicarli e dar loro un significato nella continuità/discontinuità del mutamento storico. Il mestiere dello storico è impegno civile, è lo storico a decidere l’oggetto del suo studio: la sceglie, lo materializza nella cronologia (e per ciò stesso lo rende vero), lo interpreta fina a farne un prodotto privilegiato della comunicazione umana.

In realtà l’espressione “uso pubblico della storia” starebbe a indicare quella storiografia che nasce “nei luoghi non deputati alla ricerca scientifica”, come se vi fosse una Storia, con la “S” maiuscola, scritta dagli storici per gli storici, a circuito riservato, a fronte di una storia di secondo rango, non scientificamente fondata destinata al pubblico di massa. Nei dibatti e nei convegni con il loro seguito di pubblicazioni, il tema ricorrente è quello del confronto/scontro della storiografia tradizionale con i nuovi media da un lato e  con un approccio comunicativo che viene indicato come “divulgativo” e tendenzialmente estraneo al magistero del ricercatore, dall’altro. Un problema mal posto sia perché, piaccia o non piaccia, chi scrive di storia è per definizione storico (si occupa di storia proprio perché la storia è un sapere “pubblico”, un’esperienza di tutti), sia perché lo statuto di ricercatore e scienziato non esclude certo l’approccio divulgativo, anzi. I testi e manuali scolastici sono divulgativi per definizione e addirittura il loro contenuto è disciplinato dal direttive ministeriali e governative, accolgono la pluralità delle fonti mediatiche, talvolta sono addirittura prodotti intermediali. Si può discutere se questo o quell’autore sia un buono storico, ma di norma la grande storiografia, quella che resta e che lascia il segno è anche quella di successo che raccoglie, nel tempo, vasti consensi e, appunto, “fa storia”.

A entrare nel vivo del dibattito che gli storici hanno montato sull’”uso pubblico della storia” si avverte, a pelle, un conflitto territoriale per la definizione dei confini tra ciò che è accademico, riservato, paludato e tutto quanto sfugge al rigore genealogico disciplinare fatto di settori, comparti e sottocomparti disciplinari governati dalla legge ferrea del “pubblicare o perire”, e della produzione di libri che vanno direttamente dall’editore al macero passando peri concorsi e sorretti da una editoria compiacente perché finanziata. L’impressione personale, a scorrere gli interventi sull’”uso pubblico della storia”, è quella di un faticoso arrampicarsi sui vetri e di una incerta vocazione da parte degli storici a invadere, in solitario, i territori, generalmente ignoti alla storiografia nazionale, delle scienze della comunicazione. Hic sunt leones. Una battaglia, se non corporativa, certo di retroguardia. 

Ma l’eventuale ricorso a questa espressione di “uso” della storia è anche mal posto perché, nella fattispecie, l’onda d’urto storiografica che investe i cittadino consumatore al suo appuntamento settimanale con l’edicolante, allinea una produzione di titoli di prestigio, magari datati, ma sottoscritti da storici di tutto rispetto o comunque di qualità.

A fronte dell’alluvione storiografica che sconvolge il panorama editoriale e mediatico, un altro genere di riflessioni si impone, una inchiesta è necessaria e forse di pubblica utilità. Il problema va affrontato a livello di marketing e editoriale e intermediale, e c’è di che uscirne pazzi da parte degli addetti ai lavori.

Chi mai, nell’Italietta di oggi e di sempre, può essere interessato a Caligola, alla struttura della falange macedone, ai Templari e al sacro Graal? Chi alle cause del precoce decesso di Tutankamen e della regina Ashepsut, agli ultimi dieci minuti di Hitler, agli amori segreti Bottai e Ciano, alla storia di Bisanzio in quattro volumi o a quella della Cina in novecento pagine? E chi si becca le trentaquattro cassette video del telegiornale nazista degli anni Trenta, o la ricostruzione virtuale della villa del Fauno di Pompei? Il medioevo e l’antichità più remota, la storia moderna e quella contemporanea hanno sfondato tutte insieme senza vincoli e senza guerre di confine. Decine di titoli e intere collana monumentali con tirature in decine e decine di migliaia di copie travolgono i punti vendita, fanno la fortuna dei distributori e probabilmente saturano le librerie della famiglie. E la cosa non è di breve momento: tra qualche anno queste migliaia di libri di storia finiranno ai remenders e sulle bancarelle per il necessario riciclo. In queste torbiere destinate alla conservazioni dei reperti editoriali fino alla loro fossilizzazione, forse rimarranno per interi decenni. L’onda è lunga.

L’offerta di storia e di tempo passato va in tutte le direzioni e non sembra conoscere ostacoli in una domanda che pare inesauribile, scoordinata, sconsiderata e onnivora. Questo sisma editoriale è da studiare perché celebra un paradosso e una netta controtendenza. L’inattesa domanda e la smisurata disponibilità all’acquisto si manifesta in un pubblico tendenzialmente pigro, numericamente esiguo, indisponibile all’acquisto in libreria (un settore del commercio al minuto in via di estinzione), del tutto disinteressato al genere storico, alle sue novità e ai dibattiti che queste dovrebbero suscitare. Un dato infatti è certo: tutte le inchieste rivelano che, almeno presso il pubblico giovane (quello della scolarità), l’ignoranza della storia è abissale, irreversibile. Sembra anzi trattarsi di un oblio collettivo, di una scelta di vocazione (culturale) della quale occorre prendere atto apparentemente senza rimedio possibile. Il continuo richiamo alla necessità di tutelare la “memoria storica”, lo certifica. Insomma la storia non la sa nessuno e nessuno, si sarebbe detto fino all’attuale alluvione, la vuole sapere. La storia del nostro Paese così povera di miti fondativi nazionali, non ha mai avuto il successo del grande pubblico e la storia locale è un cenacolo riservato alla ubbie di assessorati alla cultura che di politica culturale non hanno mai sentito parlare. Quando poi alle metafore storiche o gli exempla si affaccino politici, giornalisti, conduttori televisivi, manager c’è di che disperarsi (o vergognarsi). Qualcosa non funziona. Il paradosso è evidente.

Come spiegare allora le vertiginose tirature di testi di storia e di intere collane, francamente indigeste e certo improponibili come semplice intrattenimento? Come spiegarle in presenza di tirature quasi miserabile dei libri che certificano l’impegno diuturno dei ricercatori e che, il più delle volte, necessitano di contributi per motivare l’impegno dell’editore? E perché mai titoli un tempo invenduti o passati inosservati, trovano oggi una domanda così attiva e vasta?

La parola dovrebbe passare all’esperto di marketing. Buoni libri, belle edizioni a basso costo, efficiente canale distributivo, formula vincente del “collezionabile”, adeguata promozione dei prodotti. Oggetti di pregio e, se non beni rifugio, complementi indispensabili all’arredamento della casa. Si potrebbe anche fare una digressione sul design made in Italy, ma si rischia di andare troppo lontano. C’è anche da considerare la tradizione tipografica nazionale che oggi è in crisi, ma che mette in campo un qualità della produzione più che accettabile accompagnata da politiche di prezzo di un Paese alla deriva. Qualità e quantità si sposano bene, il rapporto qualità prezzo appare vincente. Infine è parte del piano l’infimo valore dei titoli in diritti di autore: siamo in presenza di opere vecchie (aggiornamenti non se ne fanno) e già da tempo ammortizzate, strok e scampoli rimasti in magazzino.

I magazzini editoriali hanno riserve infinite di storiografia, migliaia di titoli, intere collane e archivi inesauribili. Tra poco, da qualche parte, uscirà sicuramente una nuova collana periodica in trecento volumi, “i classici della storiografia globale” (una collana di Storia delle religioni in dodici volumi è già annunciata), integrata da film, dvd, games. La storia diverrà davvero l’intrattenimento universale, lo spettacolo della socialità quotidiana? Si parlerà di Nerone e di Himmler, di Parcifal e del Valentino, di Robespierre e Pizzarro al bar come si parla dei calciatori, delle veline, dell’ultimo scandalo vip?

Questa alluvione e le domande che suscita certificano che il mestiere dello storico forse è definitivamente mutato. Storia e storici han fatto divorzio. L’uso pubblico della storia è una evidenza e un nonsenso insieme. Ricerca e comunicazione seguono strade diverse. Insegnamento della storia ed educazione entrano in grave conflitto, si elidono. Il passato non è più una realtà (come forse, del resto, non lo è mai stato), è semplicemente una illusione del momento e la storia di massa una fuga dalla realtà. Che siano affermazioni o interrogativi queste riflessioni meritano davvero un dibattito o anche una inchiesta.

L’inchiesta andrebbe condotta con cura, metodo e procedure appropriate, “scientifiche”. Ma un’idea su questa alluvione storica che sommerge il Paese e ingombra le edicole, personalmente me la sono fatta. Si tratta, a mio parere, di una rivisitazione del liceo anni Cinquanta da parte dei meno giovani. Il pubblico di questo mercato della storiografia di grande consumo che incatena opere eccellenti e autori di indubbio prestigio a una produzione “leggera” e di intrattenimento, è quello dell’università della terza età, un po’ al di sotto del Rotary, un po’ più su del circolo del bridge. I titoli premiano questa intuizione: il mondo romano, la storia universale, la storia della seconda guerra mondiale (quest’ultima in televisione supera di gran lunga i telegiornali, ed è come se la stessimo ancora combattendo), la cronologia degli eventi da ricordare e mandare a memoria. Poi vengono le biografie, la celebrazione degli “uomini illustri”: sono il retaggio dei medaglioni storici delle elementari, dell’aneddotica delle medie e delle “vite” (Cornelio Nipote, Svetonio, Plutarco) del corso superiore di studi. Alla fine si tratta di un rigurgito   della mitologia del Ventennio e più in generale dei miti della guerra fredda (quelli di destra però). Per ora le rivoluzioni (quella francese e quella bolscevica) ancora non si sono viste in edicola, ma basta aspettare. Si tratta di una produzione che non ha link con il mondo reale, di un intrattenimento retrò relativo al fondamentalismo storiografico di fine Ottocento.

Visto così, dal mio osservatorio domestico affacciato su mille edicole e mille canali televisivi, questo tsunami appare subito per quello che è: la solita trappola del nostro Paese da provincia; una fuga dalla realtà, un tornare indietro, un passato che fa illusione. Illusione di cultura, illusione di solide radici che, per stare davvero in piedi, si mandano a memoria; compito in classe per il maestro di scuola. Nostalgia insomma: e cioè sentimento di ripiegamento malinconico verso ambiti di esperienza del passato che sorge dall’insoddisfazione del presente. Nulla dà più il senso amaro della fine della storia, del suo essere disciplina marginale, ospedaliera, di piccolo intrattenimento borghese. Sacerdozio vecchio di una parrocchia per anziani. Una storia invertebrata che non fa né dibattito né passione.

Gli storici, si direbbe, stanno in trincea. Tacciono in imbarazzato silenzio. Non si vedono recensioni (se non quelle promozionali), non prese di posizione, non dibattito sullo sconvolgente fenomeno. Alla chetichella prendono la piccola mancia di una “prefazione al testo”, di una curatela e di una consulenza clandestina miserabilmente pagata. La “domanda” di storia, di storie e di storiografia, se davvero c’è, non li riguarda. Quest’uso pubblico della storia per la terza età, questo passato che è nostalgia di un liceo mal fatto, questo narrativismo per medaglioni storici non li riguarda: la “vera” storia, sembra che dicano con la coda dell’occhio, quella “buona”, sta altrove nella manualistica universitaria e scolastica, nelle dispense e nelle monografie a limitatissima tiratura  che è la sola che conta e si impone in virtù degli esami. 

Ci si potrebbe consolare dicendo che, come tutto fa brodo, tutto fa “memoria storica”. Ma anche questa espressione, alla moda nel lessico e nel dibattito tra storici, lascia il tempo che trova; è più un modo di dire che un concetto fondato. Deriva probabilmente dall’idea di “memoria collettiva” che è nata nella psicologia e nella psicologia sociale di quasi un secolo fa e lì è rimasta. Ma dopo quasi un secolo, anche se non ce ne siamo resi conto, le cose sono mutate. 

Non sappiamo ancora cosa sia davvero la memoria, ma biologi e cognitivisti, neurologi e informatici qualche passo avanti, e decisivo, lo hanno compiuto. Nei millecinquecento lemmi di un sorprendente Dizionario della memoria e del ricordo (l’unico del genere che mi sia capitato tra le mani), vengono elencati i vari livelli e campi che si possono rubricare come i processi cerebrali e culturali relativi alla memoria (involontaria, di breve termine, autobiografica, collettiva, comunicativa, culturale, dichiarativa, eroica, implicita, formale attva, iconica, procedurale, referenziale, semantica, ecc.), ma la memoria “storica” non vi compare. La memoria infatti, questo ormai si sa, è un processo cerebrale misterioso, ma sicuramente individuale, soggettivo; gli “archetipi” del profondo di Jung sono ancora da dimostrare e i “quadri sociali della memoria” (Halbwachs) sono stati abbandonati da sociologi e psicologi. La memoria storica, insomma, è il frutto dei programmi di insegnamento della storia e ddei processi di comunicazione dei media, nulla di più.  

Oggi però ne parlano un po’ tutti, non solo gli storici ma anche i politici, i giornalisti e i commentatori a giornata: chi lo sa cosa intendono dire? Che i giovani debbono entrare come parte attiva nella elaborazione dei miti nazionali? Oppure che lo sguardo al passato da fondamento al presente e al futuro? Anche qui vi è un paradosso o forse una inconsapevole sottile i ipocrisia (o ironia, se si preferisce).

Nei fatti la memoria storica del nostro Paese appare oggi più breve che mai. Lo sviluppo della storia contemporanea potenziato di recente dalle direttive ministeriali e supportato dall’onda d’urto del mezzo televisivo, si è orientato verso lo studio del passato prossimo: il fascismo, le cui radici estreme vengono rintracciate poco addietro alla Grande guerra ( Mussolini è nato nel 1883). La ricerca e la produzione storiografica hanno aperto cantieri e a non finire e raschiato il fondo del barile. Prima è stata la volta di centinaia di centri per lo studio della Resistenza, poi si è passati all’analisi critica della Seconda guerra, poi all’esperienza coloniale italiana, poi ai movimenti sindacali, al socialismo e alla tradizione politico-marxista. Nulla di più connotato ideologicamente, declamatorio, esclusivo e, per certi aspetti, monotono fino all’oppressione. Quel che è peggio è che infine su tutta questa attività si è abbattuta l’onda del revisionismo. Morale: entrando in libreria o scorrendo manuali e corsi universitari si ha l’impressione che storia d’Italia e storia del fascismo siano tutt’uno, che il mito delle origini e della cacciata dall’Eden si da ritrovare lì, che si debbano attendere nuove rivelazioni sulla prossima seduta del Gran Consiglio. E siamo arrivati al punto che, per via di questa deriva, i nostri studenti e forse qualche ricercatore credono in buona fede che la posta in gioco di tutto questo impegno storiografico sia quello di dare un “giudizio” storico sul fascismo. Giudizio che non gli storici, ma questa volta la Storia ha dato il 25 aprile del ’45. Un giudizio definitivo e inappellabile.

L’esito finale di questo riduzionismo e di ciò che si chiama memoria storica è visibile nella confusione complessiva di una classe politica e dirigente del Paese in merito alla storia nazionale, al corretto uso delle istituzioni, dei simboli, del linguaggio e della retorica politica. Ed è in questo clima di una “memoria del giorno dopo” che si è giunti a al dramma del dottor Calidari in terra di Iraq il compito di restituire il “senso della patria” agli italiani e alla classe dirigente dello Stato la memoria dei Caduti conservata nel sacrario del Milite ignoto. Insomma sulla base di questa storia corta sembra sia impossibile uscire da un “abuso della storia” e della memoria ridotta a strumento per il festival dell’autoreferenza provinciale dell’italietta di sempre più incline alla commedia dell’erte che al senso del tragico. Dall’oppressione si passa alla depressione e c’è da chiedersi: che male vi è a dimenticare?

Ma il problema non è solo quello degli storici assenti (il che per vero non fa novità), il problema è la piega che, nel pieno disastro politico, economico e morale del Paese e delle sue istituzioni (a cominciare da quelle scolastiche e universitarie), ha preso il senso stesso della storia. Il fenomeno è quello, ormai celebrato da un coro, di una fuga dal nostro tempo presente e futuro, fuga dai nostri problemi, dal contatto con la nostra gioventù della quale questa politica culturale non si pone certo al servizio. Questa storia vecchia, venduta all’ammasso, è per i vecchi, per gli scaffali poveri e vuoti di case ristrutturati dagli architetti di quartiere. Non vi è da illudersi che il dilatarsi del mercato del collezionabile al settore ripristini la centralità del sapere storico, di cui per vero vi sarebbe bisogno, in un paese in via di arretramento culturale e sempre meno consapevole della distanza che lo separa dal resto d’Europa.

Sarebbe interessante comparare i dati della immaginaria ricerca che qui propongo, con il panorama internazionale di diffusione della cultura scientifica e tecnologica (dalla Finlandia alla Spagna, dalla Polonia alla Bulgaria) tutta in lingua rigorosamente inglese che da noi non ha mercato. Non mi pare che questa clamorosa vittoria degli antichi sui moderni, ravvisabile nell’alluvione storiografica nazionale, trovi riscontro nel resto del mondo. Intanto altri paesi si sono impegnati a presidiare storie nazionali di più lunga durata. Storie imperiali (quella dell’Inghilterra, della Spagna, della Francia, dell’Austria e della Germania, dell’Olanda persino) di una Europa-Mondo che si è sviluppata sul corso plurisecola della modernità. In secondo luogo la cultura storica, anche quella di massa (divulgativa e da edicola) coesiste da tempo negli altri paesi con una nuova vocazione culturale verso lo sviluppo tecnologico e i saperi scientifici che da noi e semplicemente balbettata.  Le riviste scientifiche, le collane di divulgazione scientifica sono più numerose nel resto d’Europa; il giornalismo scientifico (che di storia si occupa davvero) è certo più sviluppato (la categoria conta 1700 addetti in Germania, 800, in Francia, 700 nel Regno Unito,  160 in Italia), l’offerta di sapere tecnologico più organica, i servizi di rete incomparabili rispetto a quelli dei nostri artigiani locali. I miei studenti a Milano (Facoltà di scienze politiche) sono alfabetizzati all’informatica solo per effetto di una solidarietà e socialità di gruppo che ha un che di eroico e clandestino insieme. Le facoltà scientifiche arretrano rispetto a quella umanistiche e, in qualche modo, seppure sotto i baffi, gli umanisti se la ridono e declamano il ritorno alle fondamenta del sapere/identità nazionale: la storia del genio italico.

Può sembrare, il mio, uno sfogo antistorico e anticorporativo, ma non è così. È un richiamo al senso di realtà che significa consapevolezza del futuro alla luce del presente e dunque percezione del mutamento, senso della storia, ma anche immedesimazione con i giovani e con il mondo che li attende una volta superata questa laguna geriatrica che è il nostro Paese di ora. Questo mondo, e questa storia, li stanno costruendo, e da qualche decennio, gli altri e i nostri studenti dovranno andare oltre i confini per trovarlo, viverlo e crescere davvero. Vogliamo renderci conto che i paesi dell’est sfornano tecnici e specialisti di più alto profilo dei nostri e a costi più ragionevoli? In quei paesi la tradizione socialista ha per ora archiviato la storia a tutto vantaggio della tecnologia che la nuova cultura. Crediamo ancora alla favola che la Cina e l’India si sviluppano per via del basso costo del lavoro? In Cina c’è più cultura, in India più sapere di quanto non ce ne sia da noi. La società della conoscenza si sviluppa laggiù e non da noi e il declassamento del nostro Paese, il suo “declino”, è prima di tutto culturale. 

Fa difetto una cultura dell’innovazione in grado di coniugare, business, mercato e nuovi saperi (che è poi ciò che chiamiamo “società della conoscenza” senza peraltro coglierne il vero significato), una cultura che è umanistica e scientifica insieme (la “terza cultura” ormai codificate e operante) e che ha preso piede da vent’anni a livello planetario. E’ una cultura di progetto nella miglior tradizione illuministica, una cultura dell’esperimento e del fare che intreccia razionalità, tolleranza e creatività e si fonda su quel che da noi manca da sempre: la collaborazione (che vuol dire anche democrazia).

Se anche non fosse vero che questa alluvione storiografica denuncia un’illusione che è fuga dalla realtà, guardiamoci dentro, guardiamoci in faccia: da vent’anni siamo fermi, ripetiamo le stesse cose, battiamo le stesse strade. Il problema è che quelli che da noi sono stati vent’anni nel mondo che si muove sono stati duecento. Al di là di ogni alluvione storiografica e di ogni orto conchiuso forse quel che abbiamo perso è proprio in senso e la percezione del mutamento storico. E, in questa materia, il compito, le responsabilità esclusive, la parola passano proprio agli storici.