Parte prima – lezione 4
La storia non la fanno gli uomini, la fanno gli storici che la scrivono e, con i loro racconti, umanizzano il tempo dilatandolo oltre i confini del presente sino alle sue zone estreme nelle quali si cela il segreto delle origini. Per questo la storiografia del secoli XV-XX è una manifestazione originale ed esclusiva del pensiero mitico: un racconto delle origini nel quale l’uomo non è un oggetto della creazione, ma il soggetto di continui processi creativi del tempo e del suo stesso tempo. La modernità è tutta qui, in questo Grande racconto di un tempo tutto umano, fragile e caduco, che ha generato nell’uomo europeo la consapevolezza di un destino di continua autoffarmazione attraverso il suo tempo e la sua storia. Nessun altro sistema di pensiero ha percorso un cammino tanto rischioso. Nessuna cultura ha conferito alla creatività e all’immaginazione del pensiero mitico il compito di umanizzare il tempo e di promuovere, nel tempo, l’espansione della conoscenza dell’uomo e del mondo. Per questo il pensiero storico è un’attività dell’immaginazione e nella storia nessun dato è definitivo, nessuna testimonianza certa. Instabile e indefinibile perché materia viva che si rigenera da se, la storia è un linguaggio iscritto nel tempo i cui vocaboli sono gli eventi.
Storia, modernità, comunicazione
“La storiografia (e cioè la “storia” e la “scrittura”) porta iscritto nel suo nome il paradosso – e quasi l’ossimoro – del porre in relazione due termini antinomici: il reale e il discorso. Ha per compito quello di articolarli e, là dove questo legame non è possibile, di fare come se li avesse collegati. Quale alleanza è possibile tra storia e scrittura?”
Michel De Certeau
“Nella storia oggettiva il reale non è nulla più che un significato non formulato, il quale si nasconde dietro un referente in apparenza onnipotente. Questa situazione caratterizza quello che si potrebbe chiamare l’effetto di realtà”
Roland Barthes
“troppo mi sono inoltrato in volo nel futuro, e ho provato orrore. E quando mi sono voltato: ecco! mio unico contemporaneo era rimasto il tempo. Allora mi voltai indietro, verso casa e sempre più veloce: così giunsi a voi, voi attuali, e nel paese della cultura”
Friedrich Niestzsche
1. Scienza, leggi, spiegazione…
“L’estraneità degli storici al dibattito sulla teoria della storia” (Rossi) ha abbandonato la ricerca di una nuova identità della professione di storico alla filosofia analitica, alla storia della storiografia, alla filosofia della storia, alla linguistica e alla semiologia, il che non ha certo giovato al superamento della crisi del sapere storico. L’aspetto forse più negativo, che ha i tratti della censura, è stato sicuramente un basso livello di dibattito interno alla corporazione la quale si è condannata all’autocelebrazione; ciò ha comportato, a sua volta, una progressiva esclusione dai processi di sviluppo e addirittura metamorfosi della cultura nel corso degli ultimi decisivi decenni. E’ così venuto meno un dialogo con le altre discipline umanistiche proprio nel momento in cui la tradizionale opposizione tra scienze dalla natura e scienze umane sta venendo meno e si aprono aree di ampia e originale collaborazione. Sul piano del metodo il dialogo della storiografia (tecnica privilegiata di comunicazione) con i nuovi media e dei loro linguaggi è stato freddo e, se si esclude qualche nuovo approccio posto in essere dai quantitativisti, inesistente; ne ha sofferto la professionalità dello storico e la ricerca rimasta per lo più un esercizio individuale, se non un limitante compito in classe accademico. Inoltre, forse proprio la presenza degli storici nel dibattito sulla teoria della storiografia e sul significato e ruolo del sapere storico, avrebbe evitato le sabbie mobili e il circolo vizioso nel quale, dopo un secolo di dibattiti tra filosofi della storia e della cultura, storici della storiografia e filosofi analitici ci si è, su questa delicata materia, alla fine trovati.
Il dibattito del XX secolo in merito a quest’ordine di problemi è, infatti, su un binario morto. Più che risolvere e superare lo stato di crisi della storiografia romantica, dello storicismo di matrice idealistica e del positivismo e del materialismo storico già evidente agli inizi del Novecento, la teoria della storiografia ha finito per certificarlo.
In linea generale si può ragionevolmente affermare che, nel corso della sua esperienza plurisecolare, il pensiero storico non è riuscito a darsi uno statuto scientifico (oggi si direbbe epistemologico), se non definitivo, per lo meno abbastanza stabile. Il problema, è ovvio, non riguarda solo questo ordine del sapere umanistico, ma è un dato di fatto che ogni qual volta ci si interroga sul significato e la funzione della storia, l’interrogativo ripropone tutte le carte in gioco, i temi irrisolti e non mai definitivamente accantonati o selezionati.
Verità e veridicità degli eventi. Che la storia e lo storico siano portatori della verità penso che neppure Tucidide, Valla, Bodin e Bossuet lo abbiano mai neppure immaginato; che la storiografia consenta di scoprire e conoscere la verità dei fatti del passato e come essi siano realmente accaduti (il che per altro ridurrebbe la storia ad una pura e semplice cronaca informativa), nessuno oserebbe più crederlo. La possibile autenticità dei fatti storici, la loro veridicità, non implica alcuna verità oggettiva perché la scelta e la costruzione degli eventi è un’esperienza soggettiva e una esigenza individuale (autobiografica). Tuttavia lo storico è stato sempre, e fino a non molto tempo fa, vissuto più come un maitre de verité che non come un maitre- a-penser, e ancor oggi, nell’intimo, il ricercatore e il lettore inseguono questa prospettiva.
Oggettività del discorso storico. Che poi la scoperta e la conoscenza degli eventi del passato svelino allo storico automaticamente la loro logica concatenazione, è una pura illusione e su ciò siamo ormai tutti d’accordo: gli eventi sono azione umane uniche e irrepetibili, ciascuna delle quali ha il suo corso temporale e costituisce una storia in sé. Nel sapere storico la formulazione delle teorie interpretative precede l’analisi dei fatti e gli storici costruiscono e scelgono gli eventi in funzione (per molti aspetti inconsapevole) delle loro istanze o intuizioni interpretative; le interrogazioni sul passato nascono dalle circostanze e dalla cultura del presente ed è la vita ad essere maestra di storia, non il contrario. Tuttavia il discorso storico è costruito e percepito come un che di oracolare, compiuto, coerente pur in presenza delle più contrastanti interpretazioni.
Tempo storico. Per quanto ci si sia lavorato a pieno ritmo da Sant’Agostino in poi, la storia non ha svelato la natura del tempo e non ha riconciliato l’uomo con il suo destino. Il tempo storico è un tempo umanizzato, un riflesso e uno specchio dell’esperienza individuale, una promessa e una certificazione della nostra possibilità di superare gli angusti confini del presente. Neppure la più recente ondata di studi sulla struttura della temporalità, l’intreccio dei tempi, il rapporto tra tempo e memoria, la percezione degli eventi, ci ha mostrato il vero volto del nostro padrone e ci ha spiegato l’intima materia di cui siamo fatti. Ma questo fascinoso mistero irrisolto e irresolubile che attrae verso l’esperienza storica e, inconsapevolmente, verso una illusione di longevità e immortalità, spinge negli archivi e induce ad aprire dossier, libri, cantieri di ricerca nelle nebbie del passato.
Unitarietà della storia e linearità del tempo. Quanto al fatto che la storia possa spiegare le leggi proprie al moto del tempo saldando passato e futuro in unico processo conoscitivo, anche qui il binario è morto. I molteplici modelli offerti dal pensiero storiografico razionalista, meccanicista, idealista, storicista, positivista, e dalle molteplici “scuole” o correnti storiografiche, funzionano tutti, appagano, convincono, pur essendo in completa contraddizione e in conflitto gli uni con gli altri. Continuiamo a leggerli e rileggerli, farne glosse senza avvertire né vetustà, né opacità di pensiero, i loro schemi e paradigmi interpretativi rimangono aperti e, alla lettura, convincono.
Centralità e “sovranità” del sapere storico. La sensibilità romantica ha trasformato la storiografia in una grande impresa patriottica e nazionale che oggi non avrebbe più senso alcuno. Saldando passato remoto e futuro anteriore nella unitarietà di un tempo a sviluppo predefinito, gli storici dell’epoca romantica hanno ripopolato il passato di popoli, nazioni, culture, hanno insegnato l’identità collettiva, le comuni radici, spiegato le ragioni dei conflitti e dell’unità nel potere. Tempo, storia, potere si sono saldamente intrecciati in una “sovranità popolare” del discorso storico che oggi non sembra avere più fondamento. Ma poiché il sapere storico costruisce da sé l’oggetto del suo studio, oggi riteniamo che lo sforzo romantico sia stato il più grande servigio reso alla storia e alla cultura della modernità e che le monumentali opere-epopea prodotte nella prima metà del XIX secolo siano fonti autorevoli e il punto di partenza dal quale non è possibile prescindere sia per la conoscenza del passato, sia per un corretto approccio alla ricerca.
Storia e ideologia. La riduzione di tutta la realtà a esperienza storica, e poi della storia a filosofia, operata dall’idealismo ottocentesco, ha ridotto la storiografia al ruolo di ancella dell’ideologia, professionalizzato lo storico come intellettuale organico al potere e limitato la ricerca a una sorta di adempimento politico-ideologico del quale ha portato il segno anche lo storicismo sub specie marxista. Si è forse toccato il culmine dell’espansione di questo specifico ordine del sapere, ma la riduzione della storiografia a propaganda ideologica ha suscitato revisioni che, a loro volta, si sono trasformate in rivolte e hanno generato la crisi profonda e forse insuperabile, alla quale abbiamo assistito nel corso del XX secolo e della quale portiamo ancor oggi i segni. E’ emerso infatti evidente il paradosso stesso del termine storio-grafia. Esso intende conciliare l’inconciliabile: la realtà (perché appunto tale si vuole la Storia come realtà del passato) e il discorso (la scrittura, che è una funzione immateriale del comunicare). Un ossimoro sicuramente (De Certeau), ma anche un processo concettuale che spinge il sapere storico verso la ideografia (Dilthey) e, in realtà, l’ideologia. La crisi delle ideologie, smascherate come metaracconti (Lyotard) e strutture mitiche dalla modernità (Horkheimer, Adorno, Habermas) dovrebbe avere definitivamente archiviato questo modello di una storia onnivora , ma anche dissimulatrice della realtà. Ma ancor oggi la deriva idealista, soprattutto nella sua versione “volgar-marxista” (Popper), e l’uso ideologico-politico della storiografia sono vitali e orientano l’impianto teorico di una pluralità di studi, ricerche, modelli interpretativi. Nonché ovviamente di ritrite polemiche.
Storia e scienze umane. Il tentativo di superare la metafisica dell’idealismo non è andato a buon fine e lo sforzo di “far rientrare la ribelle storiografia nei quadri della scienza una volta riconosciuta la sua autonomia di fronte alla scienze fisiche” (Dilthey) non ha lasciato tracce significative. Lo storicismo ha intrapreso il cammino di una più sofistica definizione dello statuto storiografico mediante una ricollocazione della storia nell’ambito delle scienze sociali (il cui obbiettivo sarebbe quello di comprendere i fatti sociali) in contrapposizione alla scienze della natura (alle quali spetterebbe quello di spiegare le leggi naturali), non è andato a buon fine e ha suscitato violente stroncature. Ma il tentativo di fondare il sapere storico come scienza dello spirito del tutto autonoma e autosufficiente rispetto a quelle della natura è stato un lungo travaglio del quale oggi rimane ben poco. Riemerge però puntualmente a ogni risveglio del dibattito sul senso e il significato della storia.
Scientificità del discorso storico. Sull’altro fronte, quello del positivismo ottocentesco, perseguendo l’unità del sapere scientifico, aveva attribuito alla storia il compito di determinare le leggi necessarie allo sviluppo dell’umanità o della civiltà (storia universale) rubricandola come scienza a tutti gli effetti in grado di scoprire funzioni esplicative degli eventi storici. Un compito e un ruolo centrale allo sviluppo nell’edificio complessivo del sapere enciclopedico che è venuto meno per effetto della crisi della modernità nel corso del XX secolo. Il neopositivismo ha ripreso, con maggiore prudenza, questo programma enciclopedico trasferendolo però sul terreno delle scienze sociali, facendo cioè della storiografia un procedimento esplicativo fondato sul ricorso a generalizzazioni e quindi leggi costanti del comportamento umano. Ma il confronto della teoria della storiografia “esplicativa” dei fatti storici mediante le costruzioni di leggi generali (Hempel), con le neonate scienze sociali è stato, diciamolo pure, impari e perdente nel corso della prima metà del XX secolo. Nella seconda metà, è il tema stesso della scientificità della scienza che, come ho accennato in premessa, viene messo in discussione dai nuovi orientamenti del pensiero scientifico e più in generale dalle mutate condizioni di approccio alla conoscenza. Nel corso del Novecento la storiografia, pur continuando ad affermare la sua autonomia e la sua centralità in quanto “mercato comune delle scienze umane”, è stata in realtà al traino dei nuovi saperi e delle metodologie che essi hanno sviluppato.
Metodologia e “teoria” delle fonti storiche. Il tentativo ricorrente di fondare l’autonomia del sapere storico sulla base di una rigorosa ed esclusiva metodologia, rappresenta per molti aspetti l’ultimo baluardo degli storici a difesa di una grave crisi di identità. L’uso corretto delle fonti e il rigore filologico che ne accompagna l’interpretazione, appare oggi più un rito di passaggio alla professionalità dello storico che non un carattere distintivo della ricerca. In primo luogo perché la ricerca, essendo un fatto creativo individuale, l’approccio metodologico si definisce in relazione alle ipotesi di investigazione che vengono definite in corso d’opera (Popper). In secondo luogo perché i nuovi media e i loro linguaggi hanno prodotto una vera e propria esplosione del concetto stesso di fonte storica. Ciò non di meno il richiamo alla teoria delle fonti scritte e al canone interpretativo filologico costituiscono un rituale costante e un metro di giudizio della produzione storiografica.
Si potrebbe continuare, ma questi, mi sembra, sono i temi più significativi e ricorrenti del dibattito sulla teoria della storiografia.
Il bilancio di questo dibattito riapertosi negli anni sessanta/settanta del Novecento (Rossi, Bianco) e ormai da tempo assopito, lascia dunque sostanzialmente irrisolti il problema, aperto da secoli, sullo statuto del pensiero storico. In realtà, alla luce di questo dibattito, occorre convenire che la storia non è una scienza e la storiografia non offre una spiegazione razionale e coerente degli eventi, non elabora leggi generali di spiegazione del corso temporale delle vicende umane.
La storia, nella sua comune accezione, è in realtà costituita da quell’insieme degli eventi del passato che la storiografia scopre, organizza e comunica: senza storiografia non esisterebbe storia. Ne consegue che la storiografia è l’unica fonte autentica della Storia e che essa costruisce da se l’oggetto del suo studio: storia e storiografia sono sinonimi. Ma la storiografia non è la realtà del passato, è un processo comunicativo tra gli esseri umani che vivono nel presente, un discorso, e il discorso storico esaurisce in se la Storia. Per quanto sofisticate le teorie della storiografia non risolvono questi assunti evidenti.
Che ne è allora di questo discorso praticato come un ordine del sapere enciclopedico per così lungo tempo e che si vuole autonomo, univoco e assoluto? Questo interrogativo ripropone la natura e le dimensioni della crisi di cui ci stiamo occupando.
Il complessivo rimescolamento della gerarchia del sapere enciclopedico che caratterizza il nostro tempo e l’emergere di nuovi intrecci e trame della conoscenza, ha marginalizzato la centralità della storia rispetto alla cultura del presente. Le nuove dimensioni antropologiche che si possono intravedere oltre la crisi del soggetto (addirittura “morte” del soggetto – Lipovetsky, Baumann) lasciano poco spazio alla fondazione storica dell’uomo moderno che ha caratterizzato, nel corso dei secoli, lo sforzo e l’impegno della storiografia.
L’identità storica appare oggi fragile e, per certi aspetti, di “retroguardia” rispetto alle forze di integrazione che agiscono a livello planetario; e bisogna prendere atto che proprio l’unità della futura Europa nasce contro la storia e la pluralità delle sue esperienze in omaggio a un pensiero unico (quello della globalizzazione economica) il quale prefigura un cittadino e un diritto di cittadinanza del tutto sradicato rispetto alle direttive etico-politiche della Storia moderna. Bisogna infine ammettere che, nell’attuale contesto del tempo e dello spazio politico e sociale (“geopolitico” si usa dire), la storia e l’insegnamento della storia, così come la costruzione e la manutenzione della memoria storica, possono apparire di poca o nessuna attualità, prive di valore pratico, ingombranti nell’analisi dei fenomeni del presente sui quali agiscono più agevolmente sociologia, filosofia, semiologia linguistica, antropologia, scienze cognitive e via così. E la scuola delle Annales, il più significativo atto di vitalità del sapere storico del secolo scorso, sembra oggi aver svolto azioni di rapina nei confronti delle scienze sociali più che offerto un contributo alla elaborazione dei modelli interpretativi del presente e del futuro. Marginale, appartata e stanca, la storia può apparire persino un sapere inutile nel tempo presente.
Ma certo non è stato così in passato e forse neppure oggi è così. Quel che infatti si evince da questa rapidissima, e quanto mai lacunosa, sintesi di un’intera biblioteca ormai zeppa di ponderosi e polverosi volumi, è il persistere della storia al di là della sua instabilità, dell’incertezza del suo statuto epistemologico, della contraddittorietà delle dottrine e delle teorie perennemente vive e in conflitto ad ogni insorgere del dibattito sulla natura della storiografia. Si direbbe anzi che proprio l’inafferrabilità del senso (o la continua pluralità dei significati) che caratterizza quest’ordine del sapere, abbia tenuto in vita, come un elisir, il discorso storico oltre ogni ragionevole dubbio sulla sua funzione e sul suo fondamento. Come spiegare dunque questa forza di attrazione, questa continua presenza e questo Convitato di pietra nella cultura europea della modernità e oltre la modernità?
2. … e narrazione
In occasione dell’ultimo ciclo del dibattito sulla teoria della storia, negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, si è proposto, con varia enfasi polemica, un fermo richiamo sulla spiegazione narrativista della storiografia da parte di alcuni autori (Veyne, Danto, With, De Certeau, Foucault, Ricoeur). Su questo versante del dibattito la domanda alla quale si tratta di rispondere è la seguente: “differisce la narrazione degli eventi passati, che nella nostra cultura è stata, dal tempo dei Greci in poi, generalmente sottoposta alla sanzione di “scienza” storica, legata al criterio del “reale” e giustificata dai principi della spiegazione “razionale”, differisce davvero questa forma di narrazione, in qualche tratto specifico o in qualche carattere particolare, dalla narrazione immaginaria che troviamo nell’epica, nel romanzo, nel dramma?” (Barthes).
Per tutti coloro che si pongono questo interrogativo, la scrittura degli eventi storici si colloca in quell’universo comunicativo nel quale la creatività e l’esperienza individuale prevalgono sulle preoccupazioni scientifiche e metodologiche che hanno, da sempre, caratterizzato il dibattito sul senso e il significato del sapere storico.
Al di là e oltre ogni legittima ipotesi di fondazione teorica, la Storia, nella sua forma più intima (nella sua struttura) altro non sarebbe, infatti, che una particolare modalità narrativa, un genere specifico di racconto. Intreccio narrativo fatto di documenti, monumenti, parole, suoni, immagini, segni. La scrittura evocatrice degli eventi sarebbe un racconto che svela l’ignoto di quella zona temporale (il passato) alla quale, senza l’estensione del nostro presente, non potremmo mai approdare; un racconto che parla a ciascuno di noi e suscita le nostre emozioni, le cattura.
Per il taglio di queste riflessioni e le anticipazioni già fornite a più riprese nel testo, risultano evidenti le mie posizioni e convinzioni: credo che una adeguata teoria della storia non possa prescindere da questo modello interpretativo. Esso riporta al senso comune e al comune buon senso. Alla luce del dibattito plurisecolare in merito alle teorie storiografiche, un dibattito ricorrente e irrisolto nei suoi temi centrali, mi sembra ragionevole prendere atto del fatto che “gli eventi storici non esistono isolatamente, nel senso che il tessuto della storia è ciò che noi chiameremmo intrigo, una mescolanza molto umana, e assai poco scientifica, delle cause materiali, dei fini, della casualità; in una parola un tranche de vie che lo storico taglia a suo piacimento e nel quale i fatti hanno il loro collegamento oggettivo e la loro importanza relativa” (Veyne). Un percorso di ricerca individuale e una “attività intellettuale” dell’immaginazione di costruzione di significati nel quale nulla è oggettivamente e “storicamente” fondato, se non l’evento singolo che lo storico sceglie di raccontare e che, nel contesto narrativo ed esplicativo, riflette più le emozioni dell’io narrante che non un processo oggettivamente razionale.
Al riguardo, mi pare, alcune evidenze sono emerse nel corso di queste riflessioni; evidenze che, nel loro insieme, fanno una massa critica difficile da censurare. La storiografia ha per oggetto la costruzione di un “discorso” e quindi di un insieme di proposizioni relative agli eventi. Questi eventi sono storici solo perché datati cronologicamente, e la loro datazione (cioè il loro inizio e la loro fine) è il risultato della libera scelta del ricercatore. Per effetto della sua specifica datazione ogni evento è unico, esclusivo ed è il prodotto di un programma di ricerca il cui obiettivo è comunicare un significato e cioè convalidare l’ipotesi che il ricercatore ha formulato sulla sequenza e coerenza del discorso. Ogni programma costruttivo dell’evento convalida automaticamente l’ipotesi che lo ha generato. La scelta dell’evento e la sua struttura esplicativa sono il risultato delle circostanze del presente e dell’esigenza comunicativa del soggetto. La storiografia è, al tempo stesso, un messaggio e un mezzo, un particolare linguaggio e, per questo, una struttura narrativa: un racconto.
Principiare la storia della Rivoluzione francese nel 1787 o nel 1789, o nel 1791, raccontarne il ciclo a partire dalla data di apertura degli Stati generali o dalle giornate di ottobre, implica automaticamente una trama narrativa dell’evento e un senso del tutto diverso. Costruire il pensiero e la figura di Montesquieu a partire dalle Lettere persiane, dallo Spirito delle leggi, dai Diari o dall’epistolario comporta un giudizio sull’autore ed esiti della ricerca quanto mai alternativi. Selezionare le fonti per la ricostruzione della II Crociata o la conquista di Alessandro, crea itinerari di ricerca e prospettive interpretative e narrative contrastanti. Scrivere la storia dell’economia mediterranea nel XVI secolo ponendo l’accento sui commerci marittimi o sui flussi migratori o sulle strutture demografiche, significa offrire scenari politici e sociali tra loro alternativi. E così di seguito, le esemplificazioni non finirebbero mai. Ogni evento, in quanto riflesso del soggetto narrante, è una storia in se: un racconto dotato di piena autonomia. E ancora la pluralità di questi racconti, degli approcci, delle interpretazioni, che costituisce appunto l’inesauribile ricchezza e flessibilità del discorso storico, non si annullano a vicenda, non si selezionano, le une non cancellano le altre; vivono e sopravvivono nell’archivio della storiografia riproponendosi sempre attuali al ricercatore. Ciò che chiamiamo storia è in realtà un archivio complessivo di racconti, un vocabolario di eventi, una inesauribile banca dati di messaggi e in definitiva uno specifico linguaggio, un processo, un “agire” comunicativo (Habermas).
3. Discorso storico ed epilogo della modernità.
Bisogna ammettere che, al di là delle possibili estremizzazioni, questa corrente narrativista fa giustizia sommaria di tutto un insieme di ricerche del significato, funzione, ragione del discorso storico: qui infatti la verità e la realtà della Storia (al singolare e cioè intesa come un ordine unitario e monologico del sapere) risiede nella struttura stessa del discorso storico e dei rapporti che esso intrattiene con le funzione del comunicare, della memoria, dei rapporti tra cervello e mente, psicologia del profondo e costruzione continua dei processi di apprendimento, intercettazione, partecipazione, immedesimazione propri dell’evento come racconto. Concepita come discorso-narrazione la storia non richiede spiegazioni provenienti dal di fuori del discorso stesso, perché successione delle azioni che concorrono a costituire l’evento ne fornisce la spiegazione (Gallie). Ogni narrazione infatti è automaticamente esplicativa in quanto offre una successione coerente e chiusa degli eventi che li rende intelleggibili, ovvi e perfetti nel loro naturale ciclo temporale dall’inizio alla fine. E la storiografia, proprio per questo, è tempo e produzione del tempo nel senso più puro del termine (cioè storico) perché le proposizioni narrative non descrivono mai uno stato di cose, ma un mutamento dovuto allo sviluppo delle azioni umane (Danto).
La teoria narrativista della storiografia trova oggi ulteriore sostegno proprio in relazione all’emergere degli eventi, alla loro moltiplicazione e libera circolazione per effetto della rivoluzione digitale e di quel progressivo ridursi della realtà a rappresentazione e a forma linguistica del comunicare che caratterizza l’ “era dell’accesso” (Rifkin).
Con gli strumenti di cui disponiamo, a partire dal nostro presente, possiamo definire la storia come una particolare esperienza comunicativa, un linguaggio e una sintassi di eventi specifica al sistema culturale della modernità: la civiltà europea nel corso dei secoli XVI-XX ha parlato con la storiografia e della sua storia. E dobbiamo ora chiederci se questo linguaggio e il suo vocabolario, se questa modalità del comunicare possano ancora esprimere un significato, svolgere un ruolo comunicativo dominante e condiviso.
Entrati nel XXI secolo, dobbiamo infatti confrontarci con un inatteso clima antropologico e con una profonda revisione delle strutture culturali della modernità: l’uomo, nelle sue molteplici varianti di progetto storico, di uomo “economico”, “politico”, “cristiano”, “socialista”, è profondamente mutato e sembra persino scomparso a fronte di un inatteso “individualismo narcisista” (Lasch); la rivoluzione biologica si è trasformata nella scoperta di nuovi orizzonti aperti alla libera navigazione, e anche il tempo e lo spazio dell’uomo sono mutati per effetto della densità e della velocità nelle comunicazioni e dei nuovi strumenti mediatici. Nel confronto con Gaia, con la biosfera e la cybersfera, il protocollo umanistico della modernità e in via di revisione. Insomma, la “natura” umana ci appare più caotica (più complessa) e vitale, più dipendente e solidale di quanto Hobbes, e Bacone, Montagne e Voltaire, Hegel e Marx la potessero aver pensata. Il racconto che l’uomo del presente può fare della sua storia, è affatto diverso da quello che ha caratterizzato il recente e remoto passato della società europea.
A fronte dei successi dei nuovi saperi e dei risultati, in termini di approccio alla conoscenza, ai quali conduce la collaborazione tra scienze umane e scienze della natura, dobbiamo ammettere che “il metodo storico non ha fatto alcun progresso dai tempi di Erodoto e Tucidide” (Veyne) e prendere in seria considerazione l’affermazione in base alla quale “la storia, nel senso in cui la maggior parte della gente ne parla, semplicemente non esiste” (Popper). Che l’uso e l’abuso dell’aggettivo “storico” per designare eventi e documenti del presente e del recente passato non solo svalutano ogni contenuto della storiografia, ma ingenerano un sospetto in merito alle “false evidenze del discorso storico” (Chesneaux). Che infine sotto l’assalto congiunto dello strutturalismo, della semiotica e della psicanalisi da un lato, delle neuroscienze e delle discipline cognitive dall’altro, questo glorioso utensile della modernità e questo linguaggio comune dei moderni necessita forse di una nuova sintassi, di un nuovo vocabolario di eventi e di nuove metodologie e tecniche investigative e narrative per riconquistare il suo senso e la sua funzione di tessuto connettivo culturale delle esperienze umane. Oggi sappiamo, infine, che la dimensione umana va oltre i confini del tempo storico, si spiega in una rete ben più complessa di quella cronologica, e che quindi la Storia, come pensiero unico e sovrano, non è una rappresentazione fedele della realtà, non spiega il corso coerente del tempo umano e non offre garanzie in merito alle sue vere origini né prospettive circa il suo progressivo destino di emancipazione.
E questo anche per una evidente buona ragione, un evento certo, incontrovertibile, che dà scacco al sapere storico della modernità e ho più volte richiamato nel corso di queste riflessioni e incombe sulla crisi di identità dello storico.
Perché, parafrasando Primo Levi, se vi è stata Auschwitz, non può esservi storia; se vi sono stati i campi di Verdun, Guernica, le fosse di Katim, Dakau, le foibe, se vi sono le fosse comuni in Kossovo, Cecenia e in metà del mondo, non può esservi un discorso unitario delle vicende umane. Posso anche farla meno retorica, ma non meno drammatica: si vi sono Nestlé, McDonald, Monsanto, se la criminalità organizzata controlla il nuovo mercato degli schiavi, se vi è un fiorente commercio di organi umani e il rischio incombente del terrorismo biologico e così di seguito, non può esserci un processo di innalzamento della storia, un corso lineare del tempo storico capace di superare sempre se stesso e certificare il destino di affermazione dell’uomo. Se la storia di questo nostro XXI secolo, già tutta scritta all’atto del suo apparire, è la lotta tra le forze del bene e quelle del male e se la produzione e comunicazione degli eventi deve guidare a un corso storico di conflitto globale e planetario, allora la celebrazione dell’uomo e della sua centralità al mondo, competenza esclusiva della storia moderna, appare più un dovere morale e una obbligazione professionale, che non l’affermazione di una verità certificata da un metodo scientifico o da narrazioni esplicative o dalla sistematica costruzioni di leggi generali a partire dall’analisi degli specifici eventi.
Né vale, allo scopo di spiegare la conturbante vicenda umana del XX secolo, richiamare in vita il paradigma esplicativo (in realtà una censura) del costante e misterioso alternarsi nel corso delle vicende umane di civiltà e barbarie (in che risiederebbe allora la fondazione stessa della modernità?), o l’idea di un corso declinante del tempo storico (che ne sarebbe allora della linearità del tempo?) o il ricorso a concetti alchemici come quelli di derapage/discontinuità che aprono il corso del tempo a percorsi labirintici incompatibili con l’unitarietà del sapere storico (dove sarebbe allora il principio di concatenazione causale che ordina gli eventi e consente la loro comprensione/interpretazione?). Del resto proprio contro questi codici interpretativi ereditati da un tempo prestorico, si è costituita la moderna storiografia e la cultura della modernità. Anzi li ha respinti in blocco come metastorici, ingannevoli, illusori e frutto delle emozioni irrazionali giunte dalla profondità di tempi oscuri e, appunto, premoderni.
Dopo il 1989 appare anche risibile ricercare una coerenza degli eventi facendo appello al confronto storico tra capitalismo e socialismo per la definitiva, irreversibile, emancipazione dell’uomo moderno. Di fronte all’avvio di un’era planetaria di conflitti tra aree geopolitiche concorrenti o tra modelli di civiltà alternativi (….), lo storico rimane perplesso, la storiografia perde la sua funzione di linguaggio universalmente praticato e condiviso.
Quello a cui oggi si assiste è una frattura del ponte tra passato e futuro, costruiti a partire dal presente, capaci di offrire coerenza agli eventi e di fissare una trama di senso al discorso storico. A fronte degli epigoni della modernità, passato e futuro appaiono dimensioni tra le quali si va interrompendo il flusso dilagante delle comunicazioni istantanee, a tal punto che l’estensione temporale assicurata dalla storiografia (la “sovranità” del tempo storico – Romitelli) ha cessato di esercitare quel ruolo magnetico e totalizzante in grado di governare e fissare il moto degli eventi. Quel che si percepisce è che, in realtà, il processo storico nella sua densità e coerenza non spiega razionalmente nulla e il tempo su cui esso si fonda (antropomorfo come è) si configura come un insieme disordinato di eventi, e gli eventi come il prodotto casuale di innumerevoli narrazioni multiuso delle quali gli storici, orfani di ogni presunzione di essere scienziati, non hanno più né l’esclusiva, né il controllo.
Giunto a questo capolinea, il sapere storico e la tecnica storiografica, appaiono fragili per effetto della loro caratteristica monologica, autoreferente, gerarchica; suscitano addirittura sospetto nell’ambito della vita culturale e dei nuovi saperi e, per sfuggire alla emarginazione, devono ricollocarsi oltre i confini della modernità e della Storia. Si tratta allora innanzitutto di cogliere quello che, a mio parere (e non ovviamente solo mio), è il significato e il fine di questo ordine del sapere che non è scienza e non costruisce leggi generali, non è spiegazione razionale degli eventi nella loro instabile successione, neppure è una spiegazione della temporalità e tanto meno suo controllo o dominio.
A fronte di questi problemi e delle revisioni che essi impongono, la storia, intesa come narrazione, e dunque come una tecnica comunicativa a forte valore sociale, può apparire seducente e segnare una strada di approfondimento. Offre qualche opportunità.
Certo, l’idea di una storia-racconto assimilabile a un genere letterario (With) o a un libero esercizio della capacità creativa e immaginativa dello storico (Veyne, Stone, De Certeau) o addirittura a una produzione artistica (Burkard, Huitzinga), non convince nella sua estremizzazione e impoverisce i contenuti e la funzione della storiografia sia polverizzandola in una miriade di contenuti narrativi casuali, sia degradandola ad una elementare tecnica di comunicazione dall’oggetto incerto. Altre strade però si possono percorrere per cogliere la specificità del racconto storico rispetto alle tipologie codificate dei generi artistico-letterari.
4. Mitografia e storiografia.
Non esiste storiografia senza storia e non esiste storia senza storiografia. E non è un gioco di parole: i due termini sono sinonimi. Nell’ordine di tutti i saperi quello storico è infatti, come si è visto, il solo che costruisce da sé l’oggetto dei suoi studi. La storiografia “produce” Storia. E’ questo il problema e il paradosso. Ben diversamente dalle discipline scientifiche, la storiografia si occupa di quel mondo che non c’è che è il tempo passato. Ben diversamente dalle altre discipline umanistiche, che lavorano sui prodotti vivi e spontanei della cultura umana (lingua, arte, letteratura, sistemi di pensiero codificati nei testi, comportamenti sociali, ecc.), la storiografia è chiamata a materializzare quel regno dell’invisibile che non esiste più e che, senza lo storico, non esisterebbe e non sarebbe mai esistito per l’esperienza umana. La storia non è un prodotto spontaneo della cultura, è un sofisticato processo di costruzione di eventi che, per effetto di un artificiale metodo di datazione, si iscrivono in una dimensione virtuale: e cioè il passato remoto, un tempo che ha perso ogni contatto con noi e del quale, senza lo storico, avremmo perso memoria. Nulla di più sofisticato, artificiale e artificioso.
La storia e la storiografia scelgono il loro oggetto, lo costruiscono dilatando il campo della temporalità oltre i confini percepibili dall’esperienza e, per questo, avere “senso storico” significa pensare espressamente a un orizzonte temporale che è coestensivo alla vita che viviamo e che abbiamo vissuto (Gadamer). La datazione degli eventi che materializzano il tempo storico si fonda sulla certezza di un inizio (e di una fine) dell’oggetto dell’indagine. Qualsiasi ricerca storica determina da se il punto di partenza, l’origine e la misura temporale dell’evento indagato (il che equivale a dire che lo crea); ogni evento è esclusivo in sé e riflette il soggetto che lo racconta.
La storia, si è detto, è un particolare linguaggio per comunicare l’esperienza del conoscere. Resta ora da chiedersi che genere di pensiero, quale tipologia di approccio alla conoscenza regge il racconto storico e ne determina lo specifico linguaggio.
Sulla scorta di queste riflessioni e in relazione al percorso del sapere storico nella moderna civiltà europea, mi sembra possibile avanzare l’ipotesi che la storiografia sia una particolare forma o manifestazione di pensiero mitico e la storia una mitografia della modernità. Intendiamoci bene e facciamo, se necessario, chiarezza. La storiografia moderna ha creato tra se e il mito un fossato invalicabile. Per quanto assai tardiva sia stata nella cultura europea la morte degli antichi déi, rinati nei secoli XIV-XV, venerati nel Rinascimento, e celebrati nel Secolo classico, poi definitivamente sepolti nel XVIII secolo con il trionfo dei moderni sugli antichi, il pensiero e il sapere mitologico è stato confinato dagli storici in una zona estranea all’esperienza del reale. Al pari delle manifestazioni dell’immaginario popolare e delle spontanee produzioni della cultura non ufficiale e codificata, la mitologia antica è stata, a partire dal XVII secolo, vista come una preistoria ingannevole della storiografia, un insieme di “pregiudizi del passato”, di superstizioni antecedenti al processo di incivilimento e di quel cammino di innalzamento del tempo che proprio la storiografia ha costruito evento su evento. Agli storici dei secoli XVIII e XIX e forse fino a un tempo non molto lontano da noi, il mito è parso un prodotto del pensiero selvaggio, primitivo e prelogico, insomma una affabulazione al di sotto della soglia del pensiero umano (intendi: moderno, razionale, scientifico) e alternativo a un pensiero storico positivo, razionale e scientificamente fondato. E in questo senso, per effetto del giudizio storico, le parole “mito”, “mitologia”, come l’aggettivo “mitico” sono entrate nel linguaggio comune e nel comune sentire.
Sulla scorta degli studi filologici e di filosofia della cultura, della linguistica, dell’antropologia, dell’etnografia e dei rinnovati studi inter e multidisciplinari della civiltà classica, queste semplificazioni oggi non reggono più. Oggi sappiamo che il pensiero mitico è parte costitutiva di ogni sistema culturale; che i miti e l’ordine mitologico, lungi dall’essere reperti fossili databili “storicamente”, ma essenzialmente prestorici, svolgono (al pari delle credenze religiose) un ruolo permanente, attivo ed essenziale nella fondazione di ogni sistema di comunicazione umana, alimentano i sistemi culturali e, per certi aspetti, li tengono in vita ben oltre i confini temporali che le circostanze storiche loro assegnano (Kereny Cassirer, Frazer, Dumezil, Benveniste, Eliade, Derrida, Vernant, Campbell, Girard tra quelli a me più familiari). Sappiamo che mythos (letteralmente: “azione del raccontare”) non precede ma coesiste con logos (arte del pensare-ragionare) perché il racconto e la narrazione fissano la misura del tempo nel suo stesso apparire (in certo senso lo creano) e spiegano le azioni umane nella loro concreta esistenza e cioè dal principio alla fine. Sappiamo che, al pari della storiografia, anche il racconto mitico si sviluppa a partire da eventi e questi si ricostruiscono in relazione a segni, piste, tracce e monumenti derivanti dall’osservazione degli oggetti e degli eventi naturali (le anomalie del paesaggio, il linguaggio delle pietre, il mistero delle grotte, dei suoni e dei colori della natura animata e inanimata) che sono vere fonti per la costruzione del pensiero mitico. Sappiamo soprattutto che, al pari dell’immaginazione, il pensiero mitico è una specifica modalità della conoscenza.
Nella cultura classica, sulla quale la modernità ha costruito le sue fondamenta, come del resto in tutte le culture umane, il mito è per definizione il “racconto delle origini”, un racconto di forze primordiali e del loro complesso intreccio che, continuamente ripetuto in infinite varianti formali, spiega l’ordine del tempo e dello spazio, l’equilibrio cosmico e le ragioni di gruppi, comunità, organizzazioni sociali, assicurando l’identità dei membri che ne fanno parte. Per questo, e non per altro, il pensiero classico, consapevole della centralità del racconto mitico e dell’importanza fondante della mitografia, aveva adottato il termine “ricerca” e “indagine” (historien) per distinguere l’arte della raccolta e dell’esposizione dei fatti umani rispetto a quella del racconto rivelatore del mistero delle origini; e per questo la storia era stata immedesimata con Clio, musa ispiratrice dei racconti relativi alle azioni memorabili di individui, stirpi e popoli. Alla luce delle ritrovate funzioni del pensiero mitico, una contrapposizione tra pensiero mitico e moderna storiografia e quindi tra mito e storia non ha ragione di essere: il mito fonda da sé il suo sapere e le regole che lo governano, non ha tempo e non ha storia per la semplice ragione che il mito esso stesso è il tempo ed è la storia nella sua forma più pura e cioè quella della creazione spontanea e, al tempo stesso necessaria, del racconto di ciò che non può essere indagato. Nessun sistema culturale può infatti consapevolmente indagare sul perché, sul come e sul quando delle origini e neppure può rinunciare alle origini che sono il fondamento della coscienza di esistere; ogni cultura. Ogni individuo (inteso come espressione di un modello di cultura e come quella rete sistemica che abbiamo definito evento) può semplicemente narrare le sue origini perché il racconto, ordinando gli eventi in una trama di senso, le certifica, le materializza e le rende vere.
Questo è il senso e il significato e la funzione del mito alla luce dei più recenti studi ed e in questo senso che qui va accolto e usato. Che cosa è allora la storiografia europea dei secoli XVII-XX se non una narrazione infinitamente ripetuta delle origini e delle ragioni della modernità, dei suoi illimitati successi e delle crisi che giustificano i successi? Che cosa, se non una continuata celebrazione della centralità dell’uomo, della sua superiore dignità, della faticosa, drammatica emergenza del soggetto fino alla sua critica emancipazione-polverizzazione individuale? Che altro è la ricerca storica se non una indagine sugli eventi e la loro necessaria concatenazione causale (genealogica) verso un passato sempre più remoto che principia da un presente in costante espansione temporale e che pertanto abbisogna di continue ripetizioni, manutenzioni, interpretazioni, nonché di vere e proprie creazioni? In questo senso la storiografia è una manifestazione originale ed esclusiva del pensiero mitico: un racconto delle origini nel quale l’uomo non è un oggetto della creazione, ma il soggetto di continui processi creativi del tempo e del suo stesso tempo.
Così nei secoli XVI-XX, in Europa occidentale, la storia e la storiografia svolgono l’essenziale funzione di fondazione permanente del sistema culturale della modernità mediante la continua affermazione dell’uomo (europeo e occidentale), del suo destino e del potere esclusivo di generare il suo futuro per effetto del racconto delle sue “vere” origini. E poiché l’uomo, fragile e caduco, è un evento nella mobilità inafferrabile del tempo, la storia diviene allora un mito in costante azione, la storiografia diviene mitografia dell’uomo moderno condannato dal suo stesso racconto a superare se stesso, come un Sisifo che non conosce sconfitte e un Prometeo senza catene. Un pensiero mitico e un mito delle origini, apparentemente razionale, magari anche “scientifico”, ma che in realtà è una manifestazione di volontà di potenza e di illimitata affermazione della pulsione di vita, a fronte dello “spossessamento originario” realizzato dal monoteismo (Gauchet). Ciò spiega il ruolo centrale e strategico del sapere storico nel pensiero occidentale e, da questo punto di vista interpretativo, storia, storiografia, modernità si intrecciano e divengono una unica struttura concettuale.
5. Storia, politica, potere.
Questo paradigma interpretativo del ruolo e della funzione della storiografia (e quindi della struttura del sapere storico) intesa come mitografia della modernità, consente di chiarire un problema divenuto ormai centrale alla teoria della storiografia e, a mio avviso, più declamato che indagato e affrontato con il dovuto rigore: quello dei rapporti tra storia, politica, potere.
Il mito delle origini, infatti, è un mito di potere, così come la mitologia è una storia del potere nella sua forma più pura. Essa spiega quella scintilla e quel big bang cosmico dal quale tutto ha preso vita; fissa l’ordine del tempo e degli eventi a venire, le leggi che li determinano, le ragioni della convivenza, la gerarchia dei poteri che ne assicurano il funzionamento.
La storiografia dei secoli XVII-XX non spiega però l’ordine cosmico, le forze contrastanti della natura e le leggi del loro equilibrio, né svela l’energia complessiva della sfera del bios. Racconta invece, in una feconda quantità di varianti interpretative, il distanziamento dell’uomo dalla natura, la sua esclusiva vicenda, il suo tempo e quel processo di dominio che è la conoscenza delle leggi della natura stessa. Ben diversamente da altre mitologie, la Storia però racconta degli dei, dei semidei e degli eroi, tutti mortali, che hanno generato l’ordine del tempo e costruito le leggi dell’organizzazione politica e sociale, racconta dei loro conflitti, della pace e della guerra, della continuità e discontinuità del cammino umano. E ciò spiega non solo il privilegiato ordine enciclopedico della storia e il privilegio della professione dello storico nella cultura della modernità, ma anche la sua funzione politica.
La progressiva colonizzazione del tempo, la complessiva umanizzazione (quindi storicizzazione) del reale, non costituiscono solo una continua rifondazione e giustificazione della modernità. Questo racconto delle origini, che si sviluppa in un continuo succedersi di eventi storici, fa del soggetto il centro del potere, fonda l’homo politicus e lo tiene in vita. La Storia, in quanto racconto del potere dell’uomo, sempre rigenerato nel tempo presente, è in realtà una storia del potere, garantisce l’ordine del mondo, ne certifica le leggi, garantisce la socialità e rende visibile il rapporto di amicizia tra gli uomini, le ragioni più intime della solidarietà. Essa è dunque pubblica per definizione e il suo uso privato non esiste perché ogni racconto mitico ha valore solo nell’atto della sua comunicazione e del processo di percezione-partecipazione-immedesimazione che essa comporta. Storia, potere e politica costituiscono, anche qui, un intreccio e una unica sequenza.
Il che è tutt’altra cosa rispetto alle semplicistiche e depistanti diatribe circa i rapporti tra storia e potere politico positivo, asservimento della storia al potere o storia come antidoto al potere e possibile contropotere; dibattiti e diatribe che hanno fatto e fanno versare fiumi di parole. La storia e la storiografia vera (in quanto libera, indipendente e generalmente non professionale) non sono mai state asservite a questo o a quel potere, per la ovvia ragione che, celebrando il mito della dignità dell’uomo e della sua vocazione al dominio dell’ambiente (naturale e sociale), hanno materializzato il potere e lo hanno fondato. Semmai, da sempre, il sapere storico è stato una precondizione della politica e dell’agire politico: il pensiero e il linguaggio politico si sono serviti della storia, non il contrario.
L’antropologia della modernità è un’antropologia politica e si è costituita in forza del pensiero storico; e proprio in virtù del paradigma interpretativo di una storiografia-mitografia si può affermare che l’uomo moderno è, in quanto politico, un progetto storico e un prodotto della storiografia, il che va ben oltre i confini dell’ “antropologia politica” offerta dai teorici della scienza politica e delle discipline politologiche quantitative. In assenza di una riflessione sul senso e il ruolo del sapere storico, le interpretazioni scientiste e positive del potere, infatti, spiegano poco dell’emergenza del potere nella modernità e delle sue radici profonde: in quanto mitografia della modernità, la storia è stata un “un sentire comune e universalmente condiviso” (Hegel), una fede nel potere dell’uomo, nei suoi illimitati confini temporali, nel naturale dominio della conoscenza quale strumento vero e autentico del potere.
Che poi oggi questo modello antropologico costruito dalla storiografia della modernità, a fronte dell’esperienza della mondializzazione della cultura e degli epigoni della modernità, non appaia più né nitido, né esclusivo o adeguato al mondo che lo circonda, è appunto la riflessione dalla quale eravamo partiti in premessa e che ci riconduce alla (e spiega la) crisi del sapere storico e la crisi di identità degli storici. In un mondo che si è lasciato alle spalle la modernità, la funzione mitografica della storiografia non appare più adeguata alle sfide del presente e alla costruzione del futuro. Probabilmente si è spezzata l’estensione temporale passato-presente-futuro elaborata dalla storiografia e la storia appare vecchia, gli eventi che la compongono residuali, non più fondanti e comunicabili, concorrenziati come sono dalle galassie mediatiche degli eventi istantanei del nostro tempo.
A tutti coloro che, per effetto delle nuove tecnologie digitali, vivono la assoluta contemporaneità degli eventi, e sono ormai la quasi totalità dei viventi, la storiografia-mitografia della modernità può infatti sembrare, al pari di quella di molte altre mitologie scomparse dagli orizzonti della memoria, un utensile inadatto a fondare identità e conoscenza di sé, così come il mestiere dello storico può apparire un cammino di retroguardia. La storia ha perso potere e non genera più potere e l’uso della storia da parte degli operatori politici, se ancora vi è, non è un uso pubblico della storia, ma un insieme di metafore astruse e di aggettivazioni improprie (tutti documenti, tutte le azioni del ceto politico si pregiano di essere “storiche”), una procedura inflattiva di reminiscenze scolastiche (le peggiori) e di proverbiali luoghi comuni. La critica alla modernità è anche crisi del diritto di cittadinanza dell’uomo nel tempo e segna un inabissamento della cultura politica. Il tentativo, da parte degli storici professionisti, di contrastare questa deriva pare perlomeno arduo.
Ma l’assunto della storiografia come mitografia della modernità consente anche una revisione e un chiarimento in merito ai tradizionali settori o assi temporali nei quali la cronologia della modernità ha organizzato la linea del tempo. Quelli di storia antica, moderna e contemporanea, aree cronologiche che poi la professionalizzazione accademica ha irrigidito sino alla frantumazione in innumerevoli comparti e sottocomparti e specializzazioni disciplinari. Il problema non è secondario perché la centralità del sapere storico e la sua espansione onnivora, la sua funzione classificatoria, gerarchica e di coordinamento di tutto il sapere nata nel XIX secolo ha ormai determinato una sorta di implosione distanziando gli storici non solo rispetto al complessivo delle altre discipline e dei nuovi saperi, ma anche all’interno stesso del sapere storico.
Qui, in particolare, l’interrogazione verte sul tema se sia possibile, dato l’assunto storia = pensiero mitico della modernità, un storiografia non moderna. Si tratta insomma di sapere se prima o dopo il modello culturale posto in essere dalla civiltà europea nei secoli XV-XX sia stato o sia possibile fare storia.
6. Storia antica e moderna.
Esiste una storia (e conseguentemente una storiografia) che possa non dirsi moderna? Se la storia è una creazione della modernità la risposta è, vviamente, no. E’ il sapere storico dei secoli XVII-XX che ha organizzato la cronologia universale e fissato i termini, le caratteristiche e i confini delle ere storiche (e delle aree geografiche) della civiltà. Sotto il profilo storiografico sono i moderni che hanno inventato gli antichi e la loro storia, ed è del tutto evidente che gli antichi non hanno compiuto la loro esperienza umana e scritto le loro storie in funzione dei moderni.
E’ vero che Tucidide (Polibio, Sallustio, Plinio, Tacito e tutti coloro che ne hanno seguito la lezione) scrivendo la sua opera intendeva comunicare eventi perché fossero “una acquisizione perpetua”, ma è altrettanto vero che Tucidide aveva una percezione del tempo ben diversa da quella lineare e progressiva (cioè innalzamento) inaugurata dalla storiografia che fa la nostra sensibilità di “moderni”. L’ “acquisizione perpetua” non riguardava noi, anzi è proprio la consapevolezza classica di un tempo caduco, incerto, debole, ricorrente perché soggetto all’alea del fato e dell’oblio a spingere l’autore de La guerra del Peloponneso a far opera di cronista attento e puntiglioso. Inoltre, al di là delle formule interpretative che lo hanno fatto apparire “moderno” (applicazione critica del principio di causalità, raccolta diretta e personale delle fonti) la sua narrazione (assai più citata che letta) non comporta la ricerca storica come noi oggi la intendiamo. Come la maggior parte degli “storici” classici, Tucidide, militare e politico, scrive di fatti che gli sono contemporanei, dei quali è stato diretto attore e testimone: scrivendo sapeva di rivolgersi a un pubblico di poche centinaia di lettori come lui del tutto coinvolti con le specifiche ed esclusive vicende di un gruppo etnico senza alcuna pretesa di appartenere e rappresentare l’umanità tutta intera ò certificare l’universalità dell’evento. Vista alla luce del nostro osservatorio del XXI secolo e alla luce delle più recenti acquisizioni sulla cultura classica, l’ipotesi di una paternità tucididea della moderna storiografia (leggi anche scienza storica) più che una semplificazione di maniera mi pare illegittima. Anche questa ricerca delle origini da parte della storiografia moderna, in realtà, ha un tratto mitologico.
E lo stesso può dirsi di Erodoto, padre riconosciuto della storia. Anche il viaggiatore di Alicarnasso scriveva di eventi che gli erano noti e contemporanei e dei quali era stato diretto osservatore; anche lui, da buon narratore, raccoglieva testimonianze dirette, orali e documentarie: indagava i monumenti non per ricostruire il passato, ma per certificare il presente, per informare. Il titolo originale della sua opera, del resto, restituisce intatto il senso del suo impegno: le Storie sono in realtà “l’esperienza di ciò che ho imparato” ed è per questo che le traduzioni più attente titolano l’opera erodotea La ricerca. Qui storia (historien) è inteso nel significato letterale del termine come usa nella lingua greca classica: indagare, ricercare, fare esperienza. Più che l’ordine del sapere storico, Erodoto inaugura il metodo dell’osservazione diretta nelle scienze umane e quel particolare modo di comunicare e informare che caratterizzerà tutta la tecnica narrativa classica: la periegesi e cioè “condurre intorno spiegando”. Scritta per essere letta in pubblico come canovaccio di racconti, esperienze dirette e raccolta di testimonianze, La ricerca (anch’essa ormai più citata che nota) si rivolge a un pubblico ben definito: i cittadini delle polis ioniche, piccole comunità urbane radicate nel mondo rurale circostante. Ma, come Tucidide, Erodoto parla, scrive, ricerca e argomenta di fatti del suo tempo della sua contemporaneità (le guerre persiane, il conflitto geopolitco tra oriente e occidente) e la sua è un’esperienza di vita, una testimonianza di impegno umano e letterario più che una ricostruzione del passato.
E di questa ricostruzione, del resto, gli storici e il mondo greco non avevano bisogno perché non vi era ragione alcuna, da parte loro, di avviare una ricerca delle origini. Queste erano svelate dai miti, dalle teogonie, dalle teogamie e insomma dalla genealogia cosmica, completa, esaustiva e, nelle sue mille varianti locali, universalmente condivisa.
Lo stesso si può dire per la letteratura storica latina i cui autori, nella quasi totalità, raccontano di fatti a loro contemporanei incuranti di ricerche storico-interpretative del passato perché, anche qui, anche nella cultura del mondo romano, le origini erano certe e universalmente condivise: esse risalivano al mito della fondazione di Roma che risolve con piena razionalità e coerenza il problema della datazione ab urbe condita. Anche la percezione della temporalità degli storici latini, così come quella dei greci è del tutto dissimile rispetto a quella dei moderni e decisamente asimmetrica: mentre il principio di causalità trova nel pensiero greco un limite invalicabile nella imprevedibilità della fortuna e nell’impari confronto tra virtù umana e destino cosmico, nel mondo romano il ritmo del tempo è segnato dal destino che la Repubblica reca in se perché la deriva temporale corre verso una corruzione dei tempi e dei costumi che segna l’inevitabile declino-distanziamento delle istituzioni e delle virtù civiche dei majores il cui esempio viene infinitamente proposto e ripetuto fino alla fondazione di una mitologia (propaganda) politica dell’imperialismo romano. Così anche per gli storici latini si può agevolmente affermare quanto si è detto per quelli greci: che l’attenzione al succedersi degli eventi e la loro narrazione altro non fu se non l’autobiografia della loro stessa generazione ovvero non fu che il racconto della contemporaneità (Collingwood) e, più che narrazione di fatti controllati, fu sfogo di pensieri tormentosi, di problemi non risolti, di ansie o compiacimenti in merito ai conflitti intestini di una intera classe politica nel suo dibattito con il presente. “Solo un politico” scriveva Polibio “si vale della storia ed è in grado di scrivere storia; non perché in possesso di documenti segreti, ma perché l’esperienza vissuta lo rende atto a comprendere le leve profonde degli eventi, i moventi delle azioni”. Polibio, orfano della patria greca e delle sue radici, avrebbe raccontato l’espansione dell’impero mondiale Roma che segnò la sua generazione; Sallustio la disgregazione della Repubblica sulla quale poteva investigare per via di interrogazioni dirette; Tacito l’affermarsi del dispotismo assolutista che direttamente coinvolgeva le azioni, le emozioni e i giudizi dei suoi interlocutori.
Greci e latini, che parlassero delle vicende umane e di quelle della natura, non si sarebbero mai comunque posti in competizione con il pensiero mitico del quale condividevano le strutture profonde, accettavano le rivelazioni e praticavano le liturgie.
In realtà il mondo antico, non solo aveva una diversa sensibilità della temporalità rispetto ai moderni, ma, osservato dal nostro punto di vista, non aveva senso storico o passione per la storia (non aveva una fede storica). Nella cultura classica, a fronte dell’indubbio privilegio accordato alla filosofia, la narrazione storica veniva ricondotta all’arte di comunicare gli eventi umani. Né Platone, né Aristotele sono disposti a dare legittimità di sapere alla storia. Nel mondo latino l’assunto ciceroniano che fa della storia la “magistra vitae” si spiega con la riduzione dell’arte storiografica alla retorica. E più in generale va ricordato che il mondo antico non aveva passione antiquaria e ha sempre cancellato con cura le tracce del suo passato. Dalla Mesopotamia, all’Egitto al mondo greco ed ellenistico fino a Roma, il potere ha sempre rigenerato il tempo collegandosi in via diretta con le origini e per questo la città antica è un luogo sacro, celebrativo dell’istantaneità tra il potere e le origini che lo legittimano. Il che, a mio parere, non significa che gli antichi per primi hanno intuito la connessione diretta tra discorso storico e discorso politico (Finley), è vero semmai il contrario: e cioè che la sfera del politico e della socialità assumono forme rituali di tipo liturgico e sacrale. Il potere nel mondo antico non si fonda sulla storia e l’uomo classico non è un prodotto della storia, ma delle leggi della natura offerte dal pensiero mitico. E dunque a me non sembra possibile riconoscere negli autori classici un precedente della storiografia come noi la intendiamo e pratichiamo, né tanto meno intravedere nel mondo classico una “storia” precedente a quella moderna perché l’essenziale differenza tra tempo storico e contemporaneità risiede proprio nel fatto che il “tempo storico” comporta ed è indisgiungibile dalla ricerca e fondazione delle origini, mentre la contemporaneità esclude questa ricerca. In quanto coesiste con gli eventi che deve narrare, ne porta esperienza diretta, li percepisce come attuali e vi partecipa senza mediazioni, automaticamente condivide le rivelazioni del pensiero mitico sulle origini, la struttura e la funzione della temporalità.
L’idea di una storia “antica”, e la percezione di una dimensione del tempo che precede il presente e gli conferisca il carattere specifico della novità (rispetto al passato) è, insomma, un’invenzione della modernità perennemente alla ricerca della sue irraggiungibili origini e di un mito fondatore.
Anche qui è un gioco di specchi sul filo della temporalità perché non esiste altra storia se non quella dell’uomo moderno che celebra le sue origini e consente alla storiografia di costruire da se l’oggetto del suo studio.
E la “storia contemporanea”?
7. Storia moderna e contemporaneità.
A tutta prima si tratta di un ossimoro che solo gli storici, blindati e trincerati nelle loro guerre di confine, non riescono nemmeno a cogliere: dove vi è storia, infatti, non vi è contemporaneità e dove vi è contemporaneità non può esservi storia. Da un certo punto in poi del XX secolo (dai suoi esordi, direi) la storiografia ha deciso comunque una sorta di divorzio tra passato storico e presente; si direbbe che la modernità si è posta da se dei limiti e abbia fissato il finis historiae. Mentre la “storia antica” e la storiografia classica nascono, si è visto, come una preistoria della modernità e ne fissano le origini, la “storia contemporanea” nasce per differenza e, se non in polemica, certo su un territorio temporale ultramoderno o postmoderno: il tempo “storico” presente.
Nel quadro generale della cultura accademica europea, contrariamente al panorama nazionale, la storia moderna è stata riluttante a questa sorta di autolimitazione: là dove se ne parla, si parla in genere di “storia dell’età contemporanea”. Non mi è del tutto chiara la mappa e la genesi nazionale della Storia contemporanea come disciplina accademica e forse uno studio per matrici sociometriche e relazionali dei docenti e delle “scuole” offrirebbe materia di dibattito oltre le abituali procedure celebrative. Per quel che ne so, la prima cattedra della disciplina è stata istituita sul finire degli anni cinquanta del secolo scorso e affidata a un brillante giornalista e polemista (Giovanni Spadolini); negli stessi anni la monumentale Storia del pensiero politico e sociale affidava ad un altro giornalista di grido la trattazione della storia dell’età contemporanea. La disciplina è ormai dilagata, ha messo radici, conquistato territori di ricerca e impegnato un confronto con le scienze sociali. Attrae e fa tendenza. Problemi di bottega, di politica e di sopravvivenza accademica che con la teoria della storiografia, l’analisi della struttura del sapere storico, del ruolo degli storici e della crisi di cui ci occupiamo non hanno nulla a che fare. Il problema qui è quello, ancora una volta, di rispondere all’interrogativo se sia possibile una estensione temporale della storia e della sua funzione mitografica al tempo presente. L’argomento semmai è quello dei rapporti tra storia e contemporaneità.
In effetti, l’età contemporanea e la sensibilità (il clima culturale) del XX secolo, che appunto “contemporaneo” si definì per opposizione a “moderno”, nascono contro la storia e oltre il muro della storia. Le “avanguardie”, che fanno la novità culturale del Novecento rispetto ai secoli precedenti, lo testimoniano. Le avanguardie (il termine è del lessico militare) hanno, infatti, condotto, con spirito davvero bellicista, una battaglia campale contro il tempo storico e la storicizzazione della realtà: il Futurismo con la negazione di tutto il passato, il Dadaismo con la cancellazione del futuro, il ’68 con la contestazione radicale delle ideologie a base storica ed eurocentrica. Il dibattito sul declinismo e la crisi dello storicismo come del positivismo storico, che ho richiamato nelle prime pagine, intrecciandosi con l’aggressione delle avanguardie, sottolineano il clima critico della cultura del XX secolo nei confronti del sapere storiografico e della sua egemonia.
Più in generale, storia ed età contemporanea non hanno mai avuto buoni rapporti. E per ovvie ragioni. Il tempo storico è generato dal presente e per certi aspetti è una fuga dal presente, mentre la sensibilità di ciò che è contemporaneo non può generare tempo storico. La storia si occupa di una ricostruzione degli eventi in quella zona del tempo di cui abbiamo perso memoria e della quale non abbiamo mai avuto esperienza diretta; la contemporaneità coesiste con gli stessi eventi che deve rappresentare. La storia, per costruire le sue cronologie e gli eventi che le popolano ha bisogno di un “passato” storico non inquinato dalle emozioni che agitano il presente e fanno il senso critico dell’identità dei contemporanei; l’età contemporanea, per contro, si afferma come nuova rispetto al passato e indifferente ai suoi gravami. Il tempo che corre parallelo e con-corre al passato è un impiccio per chi, mediante la costruzione del tempo storico ricerca le radici e le origini dei fatti storici nella loro continua concatenazione; l’età contemporanea percepisce il tempo come un flusso reale che non abbisogna di fondazioni perché esiste nel suo stesso scorrere. La ricerca storica è volta a ricostruire eventi per fondare la memoria storica come funzione dell’identità personale; la storia contemporanea (per la sua stessa definizione) non abbisogna di questa realtà virtuale, è meno libera nella sua creatività e interviene nella interpretazione degli eventi. La storia estende il tempo oltre i confini dell’esperienza individuale, la contemporaneità lo restringe alla segmentazione dei singoli fatti e alla loro collocazione sincronica.
Si potrebbe continuare, ma quel che più conta è che, nella dimensione della contemporaneità, la storiografia perde il suo privilegio di giudicare gli eventi se non facendo ricorso ai canoni interpretativi (alle strutture mitografiche) poste in essere dalla modernità: il “giudizio della storia” si può esercitare solo sui fatti che non appartengono alla memoria e alla esperienza individuale. Se mai serve, la “lezione della storia” è perché la costruzione o ricostruzione virtuale degli eventi può fare da guida la presente. La riscoperta dei genocidi della Vandea non muta il giudizio storico sulla Rivoluzione; così come l’attenta analisi della figura di Mussolini non cambia il giudizio sul fascismo; né la riabilitazione dei “martiri di Salò incide sul ruolo storico della Resistenza, così come l’apologetica dell’olocausto russo durante il secondo conflitto non assolve Stalin e il Partito comunista sovietico dalle purghe e dai gulag, e così via. La Storia, lo si è detto, non spiega, insegna. La celebrazione della dignità dell’uomo è la funzione della storia moderna e questa storiografia è stata scritta nel suo necessario (anche se illusorio e mitografico) sviluppo una volta per tutte.
Sono proprio queste caratteristiche di alterità del sentire contemporaneo, rispetto al discorso storico della modernità e alle sue funzioni mitografiche, a riproporre il paradosso dal quale siamo partiti: al pari del pensiero classico la contemporaneità non necessita di ritrovare le sue radici (non ha bisogno di ricerca storica) perché, in virtù della moderna storiografia, dispone dei suoi miti di fondazione, delle sue genealogie (di eventi concatenati nella rete cronologica causale), di teogonie e teogamie, di una cronosofia definita una volta per tutte (i sistemi di datazione) e di un ponte che salda passato e futuro. Gli storici contemporanei possono fare memorialistica, cronaca, indagini ispettive di accertamento dei fatti, possono fare politica e polemica, ma non possono fare storia nel senso pieno del termine. Non possono trovare spiegazioni agli eventi del XX secolo a cominciare dall’olocausto di Verdun, passando attraverso Auschivitz e ai genocidi che caratterizzano il secolo per arrivare alle Torri gemelle, senza ricorrere alle categorie metastoriche respinte dalla storiografia moderna di una continua alternanza nella dimensione del tempo tra civiltà e barbarie, progresso e declino, vita e morte delle culture, malattia morale, ecc. Rovesciando le procedure di scrittura della storia totalitaria immaginate da Orwell (l’adeguamento del passato al presente mediante la falsificazione istituzionale degli archivi), la storia contemporanea deve necessariamente adeguare gli eventi del presente alle direttive del passato e ai “giudizi” emessi dal canone narrativo della storiografia moderna.
Con buona pace dei contemporaneisti, cronisti del declino più che analisti del dibattito sulla teoria e sulla crisi della storiografia e della modernità, è proprio al sorgere dell’età contemporanea che prende il via la crisi della modernità e del sapere storico, crisi che ci riporta alla riflessione di Marrou dalla quale sono partito nella premessa: a fronte degli eventi del XX secolo la storia è “stanca”, gli “storici marciano in retroguardia” e “partoriscono vento”.
“Bisogna avere il coraggio di guardare le cose in faccia: quando la crisi si è abbattuta sulla cultura (della modernità), noi siamo stati i primi ad essere travolti, spazzati via come sabbia e polvere… Occorre prenderne atto, miei poveri amici; facciamo ancora storia e teniamo in movimento il nostro piccolo mulino; pubblichiamo documenti e vagliamo fatti. Ma il mondo intorno a noi si fa disperatamente beffe di tutto ciò che possiamo prenderci la pena di raccontare. Se non state attenti, mentre continuate i vostri giochi accademici, sarete completamente liquidati da una cultura nella quale non vi sarà riserbato alcun posto: tra breve nessuno crederà più alla nostra utilità” (Marrou). Si era nel 1939; gli eventi del Novecento che sono seguiti e la storia contemporanea se così la vogliamo chiamare, il corso degli ultimi cinquant’anni dei quali siamo stati tutti direttamente attori e testimoni, non hanno semplicemente fatto di questa diagnosi una profezia, hanno fatto di più, hanno mutato il tessuto stesso della storia, quel mito delle origini di autoaffermazione e celebrazione della dignità dell’uomo sul quale la cultura europea dei secolo XVII-XIX ha fondato le ragioni della sua sfida.
Oggi lo storico sembra destinato, anche a rischio della sua tradizionale e consolidata professionalità, a ricercare la sua identità oltre il tempo storico e i confini della storia stessa. E forse proprio per effetto di questa alterità la dimensione della contemporaneità come luogo di ambientazione del racconto storico potrebbe costituire un interessante laboratorio della teoria e della filosofia della storia e, a mio parere, un cartina di tornasole delle riflessioni interpretative offerte sin qui.
Nuove fonti, nuovi archivi, disordine-complessità e concorrenza nella proliferazione degli eventi, formale costituirsi di reti multimediali su scala planetaria, dilatazione del mercato degli eventi a una pluralità mai vista di soggetti e di culture, costituiscono nell’era dell’accesso (Rifkin) un nuovo bacino di cultura della temporalità e un territorio privilegiato per la narrazione, comunicazione, insegnamento degli eventi del passato e del presente. Storia e contemporaneità si fronteggiano e intrecciano in modo nuovo rispetto al passato e proprio la storia contemporanea del tempo postmoderno potrebbe scoprire e aprire il passaggio a nord-ovest del sapere storico verso le scienze cognitive, le neuroscienze, gli universi digitali e virtuali e tutti quei laboratori nei quali si sta riprogettando l’antropologia della modernità.
Il che ci riporta alle prime pagine di questo testo e ci consente di concludere l’insieme un po’ labirintico di queste riflessioni.
Per concludere.
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta […].
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa
e neppure da chi la ignora […].
La storia non giustifica
e non deplora […].
La storia non amministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
Eugenio Montale
Si potrebbe anche concludere così, con i versi di eventi, non può mancare il colpo di scena: l’evento finale. E questo coup de theatre lo offre proprio il senso e il significato intimo della Storia che ho cercato di inseguire fin qui.
Si tratta allora per concludere di ripercorrere a ritroso l’insieme di queste riflessioni un po’ disorganiche perché disperse su un territorio troppo ampio e per molti aspetti ancora misterioso, certo assai poco esplorato dagli storici. Il filo rosso, del resto, è stato quell’incertezza comunicativa, quel senso del progressivo abbandono e lontananza dall’oggetto dei nostri studi (il tempo storico e la narrazione degli eventi che lo popolano) al quale si connette la crisi di identità, del ruolo professionale e dell’impegno sociale dello storico.
La modernità, intesa come sistema culturale e antropologico, si costituisce in Europa occidentale tra il XIV e il XVI secolo a partire dalla piena consapevolezza di un evento “storico” e questo evento è tragico: la morte del mondo antico. E’ questo il mito delle origini della cultura e dell’antropologia moderna: un racconto nel quale l’uomo non è un oggetto della creazione, ma il soggetto di continui processi creativi del tempo e del suo stesso tempo.
A intercettarlo, ricostruirlo, datarlo e raccontarlo sono gli umanisti antiquari dotati di innovative tecnologie del sapere e comunicative (la conoscenza linguistica, l’arte dell’interpretazione filologica, la scrittura e la stampa) e archeologi dell’antichità/attualità classica. La percezione-partecipazione a questo evento implica automaticamente la ri-nascita del mondo antico che avrà una funzione essenziale di fondazione sulle strutture culturali dei secoli XVI-XVII. Si tratta di una innovazione rivoluzionaria del pensiero e del racconto mitico il quale non è più strutturato sul racconto cosmico delle origini, ma fondato su quella rappresentazione scenica delle azioni umane che chiamiamo “storia”.
Nessun altro sistema culturale, nessun altro modello di civiltà a noi noto, ha precorso questo originale cammino e assunto la ricostruzione virtuale (narrativa) del passato umano come strumento per la rifondazione dell’uomo e del suo presente. Storia e modernità si intrecciano sino a divenire sinonimi in un unico progetto antropologico e l’uomo moderno è un prodotto della storiografia.
La storiografia-mitografia, o se si preferisce la mitografia a fondazione storica, ha consentito nei secoli XV-XVI la messa a profitto dell’immaginazione e della creatività umana oltre i confini del presente rendendo possibile un dialogo infra e ultra temporale con il passato. Ma il mito è un racconto e ciò ha prodotto, a sua volta, un vero sisma comunicativo nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, nel costume quotidiano: la rinascita del mondo antico e la scoperta di quel misterioso laboratorio della temporalità che è l’evento storico. Si tratta della costruzione di un insieme sistemico di fatti (o subeventi) che interagiscono tra loro (si muovono) a un certo livello di velocità e di energia, di un prodotto comunicativo, un racconto di vicende umane sul filo del tempo lineare e irreversibile di cui gli esseri umani sono fatti. La plasticità di questo processo comunicativo è sorprendente: ogni secolo, ogni generazione ricostruisce, su un unico canovaccio, tutto il passato dell’uomo in modo da poter fondare e aggiornare alle circostanze del presente la propria identità individuale e collettiva, e da questo momento “il passato è una sorta di schermo sul quale ogni generazione proietta la sua visione del futuro”. La ricostruzione e costruzione degli eventi storici, la loro produzione e comunicazione ha poi generato quel meccanismo di partecipazione-immedesimazione agli eventi stessi in virtù del quale si è realizzata la “presenzialità del passato” nella percezione del presente. Nella cultura del Rinascimento e del secolo Classico l’identità europea è un processo di immedesimazione e imitazione del passato remoto restituito dalla narrazione storica alla memoria.
Gli storici hanno fatto la storia e la storiografia è divenuta una tecnica di manipolazione-espansione del tempo umano che ha certificato e confermato la centralità dell’uomo al mondo e al tempo. La modernità è tutta qui, e proprio questa asimmetria-delocalizzazione dell’uomo e del suo tempo rispetto alle dimensioni ignote dell’universo, proprio questo mito delle origini nel tempo tutto umano, fragile e caduco, ha generato nell’uomo europeo la consapevolezza di un destino di continua autoffarmazione attraverso il suo tempo e la sua storia. Nessun altro sistema di pensiero ha percorso un cammino tanto rischioso. Nessuna cultura ha conferito alla creatività e all’immaginazione del pensiero mitico il compito di umanizzare il tempo e di certificare e promuovere, nel tempo, l’espansione della conoscenza dell’uomo e del mondo. Per questo “il pensiero storico è un’attività dell’immaginazione. Nella storia nessun dato è definitivo. Una testimonianza, valida in un certo momento, cessa di esserlo quando si modificano i metodi e le competenze degli storici” (Collingwood). Per effetto di questa permanente instabilità, che è elasticità e plasticità, la storia è materia viva della cultura, è un linguaggio iscritto nel tempo i cui vocaboli sono gli eventi.
Forte di questa tecnologia comunicativa fornita dal sapere storico, e del potere che ne consegue di manipolazione-governo del tempo, il mito delle origini della modernità, sul finire del XVII secolo, ha inavvertitamente ma radicalmente mutato struttura. La disputa circa il primato della civiltà e della cultura tra gli antichi e i moderni si è conclusa con un inatteso rovesciamento a favore dei moderni. La modernità prende le distanze dalla contemporaneità con il passato classico che diviene remoto. Ora la linearità del tempo è innalzamento qualitativo degli eventi che si succedono sull’asse cronologico; passato, presente, futuro si intrecciano e il mito delle origini si trasforma in un programma e un progetto del corso temporale a fondazione umana.
La fine delle grandi crisi demografiche nei primi decenni del XVIII secolo segna il trionfo della vita sulla morte, del presente sul passato, del futuro sul presente e la modernità abbandona il senso del tragico; la svolta, pur maturata in un corso plurisecolare, è radicale e profonda (lo certifica l’inesauribile lettura de I sepolcri), ma l’uomo moderno si emancipa definitivamente dall’imitazione di quello antico e si propone come signore del tempo, attore centrale del suo stesso sviluppo senza mediazione alcuna. La storia ora unifica tutto il tempo e diviene il criterio di integrazione non solo tra passato e presente, ma tra passato e futuro, diviene il Grande racconto dell’uomo e dell’umanità, un racconto sacro e universale. Poi, alla fine del XVIII secolo, questo racconto sembra superare i suoi stessi confini: la Rivoluzione, madre di tutti gli eventi, certifica, e per certi aspetti realizza, il destino dell’uomo moderno: gli uomini dell’89 e del ’93 si collocano già oltre la storia, fissano il moto dei tempi a venire, ne definiscono le leggi, ne programmano le scadenze. La modernità sembra completare il suo ciclo e forse il muro della storia si supera qui. Siamo giunti al finis historiae: Hegel annuncia la fine della storia e Michelet inaugura la storia del futuro. Mitologia, ideologia, storiografia si intrecciano e creano quel gioco di specchi nella percezione e rappresentazione del tempo individuale e collettivo che fonda il significato e il senso del moderno.
Sulla scorta della mia esperienza culturale e alla luce del dibattito tra gli autori qui richiamati, a me sembra che le cose siano andate e stiano così.
Come concludere? Tentare una definizione univoca del sapere storico, al di là dei luoghi comuni e dei canoni disciplinare consolidati, pare un’impresa difficile. Arrendersi di fronte a questo disagio affermando che “la storia non ha senso” (Popper), o chiedendosi se non sia il caso “di eliminare dal vocabolario la parola stessa di storia” (Romitelli) o proclamando che l’epilogo della modernità e la perdita del tempo storico che l’accompagna riduce questo utensile del pensiero occidentale a un semplice simulacro del potere perduto, va oltre il senso critico e il comune buon senso. Storia e modernità essendo sinonimi, ogni processo di modernizzazione appare, infatti, indisgiungibile da un corretto uso dell’esperienza storico.
Instabile perché vivo e di continuo insorgente, misterioso perché profondo e intrecciato alla genesi dell’uomo moderno e alla sua conturbante vicenda, il sentire storico è un’esperienza culturale interiore, uno scambio, un mito fondativo, un linguaggio, un racconto, un diritto di cittadinanza nel tempo e tutte queste cose insieme. Per concludere possiamo dunque ritornare là da dove eravamo partiti.
“La Storia si costituisce nell’atto della sua narrazione, che ordina l’accadere degli eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel fluire insignificante del tempo” (Galimberti). La storia è un racconto delle origini scritto dal presente e come tale è una particolare forma del pensiero mitico, un linguaggio, un processo comunicativo e una ragione del comunicare (Barthes); questa struttura narrativa si fonda sugli eventi e gli eventi sono rappresentazioni (simboliche e virtuali) delle azioni umane nel loro complessivo corso temporale, sono i segni e le parole di questo linguaggio. Gli eventi dei quali si occupa la storiografia sono compiuti e appartengono al passato, ma, pur basandosi su fatti cronologicamente accertati, non sono reali, sono prodotti della cultura umana e si materializzano nei processi della percezione, della memoria, del ricordo attraverso l’immaginario e le emozioni; sono modelli di simulazione, reti sistemiche di immagini e simboli che agiscono e interagiscono con le funzioni emozionali e razionali dell’esperienza. La storia non ci restituisce il passato e non risolve il problema della temporalità (non spiega, né svela il significato del tempo), semplicemente costruisce gli eventi, li data ed estende il tempo umano oltre i confini dell’esperienza individuale e al di là dell’istantaneo fluire del tempo; la storiografia umanizza il tempo facendone il dominio privilegiato dell’uomo perché il tempo storico (antropocentrico e antropomorfo) ha per contenuto esclusivo il racconto delle esperienze umane. Per questo gli eventi storici sono laboratori narrativi e prodotti comunicativi, cantieri di scavo sempre aperti; e per questo la cronosofia della cultura moderna è una struttura (un grafo, si è detto) lineare, capace di ordinare la pluralità dei racconti in una trama o rete a dimensione potenzialmente infinita il cui insieme certifica la capacità umana di domesticazione, appropriazione, creazione della temporalità. Questa attitudine intellettuale non ha nulla di spontaneo, ma è una tecnica o tecnologia del sapere e del potere posta in essere dagli storici che intercettano, costruiscono, selezionano gli eventi e li inseriscono nel corso della cronologia. Mediante processi di acculturazione di massa, la storiografia genera e presidia la “memoria storica” che è una “memoria obbligata” (Ricoeur).
Invenzione e strumento della cultura europea, la Storia è divenuta il “grande” racconto, il tempo “sacro” dell’umanità tutta intera e un terreno obbligato nel confronto con le culture altre.
Questo racconto pubblico, pazientemente costruito dagli storici e infinitamente ripetuto in innumerevoli varianti, relativo alla fondazione storica dell’uomo, ha costruito l’antropologia politica europea; e la storiografia è stata il pensiero unico della modernità, una mitologia tutta umana che è anche un progetto e un programma dello sviluppo temporale. Esso riconduce al soggetto, lo autoriflette e lo tiene in vita rendendolo perciò stesso vero e onnipotente.
Come ogni racconto mitico, la storia vive se è universalmente condivisa e non offre nessuna verità se non a chi vi crede, non fonda scientificamente nulla, non spiega razionalmente nulla, non costruisce leggi generali a partire dai singoli eventi, non svolge un ruolo di organizzazione del sapere, né offre direttive per il suo programmato sviluppo. La storia “insegna”. Come ogni storia, racconto, narrazione, infatti, anche la Storia ha “la sua morale” e in questo senso è un racconto a tema obbligato. Arte comunicativa per eccellenza, la storia celebra, nel continuo presente, l’epopea dell’humanitas dalle sue origini remote al suo misterioso futuro, il che è come dire che altro non è se non un’esperienza interiore di costruzione e riflessione continua dei valori, un viaggio dell’anima alla faticosa ricerca dell’io riflesso nell’altro. Come utensile della modernità la storiografia dei secoli XVI-XX insegna la dignità dell’uomo, la sua centralità al tempo e al mondo e le responsabilità che ne conseguono. Nessun sistema di pensiero, nessun altra cultura ha accettato una sfida così audace, così generosa.
Naturalmente questo Grande racconto della cultura moderna va ben oltre i confini dell’Europa e della modernità stessa perché la storia è innanzitutto una fede nell’uomo (Marrou), un visibile segno dell’amicizia (Chaunu) e una continua ricerca dell’ “altro” per costruire, nel tempo e nel mondo, l’identità di gruppi, società, civiltà (Braudel); la sensibilità storica consiste nel saper leggere la dignità dell’uomo nella complessità degli eventi che lo hanno costruito nel tempo e nei luoghi, e insegnarla è il mestiere dello storico. Nulla di più appassionante e coinvolgente; a condizione, è ovvio, di saper comunicare.
“probabilmente si verificherà assai presto nel modo di scrivere la storia ciò che si è verificato nel campo della fisica. Le nuove scoperte hanno portato a proscrivere i vecchi sistemi. Si vorrà conoscere il genere umano sotto quel particolare aspetto interessante che è oggi la base della filosofia della natura”, Voltaire.