Parte I – lezione 3
La storiografia si occupa di quel dominio dell’invisibile che è il tempo passato, tuttavia questa misteriosa dimensione si materializza ai nostri sensi attraverso segni, piste e tracce altrettanto misteriose che sono quei monumenti-documenti in forza dei quali la ricerca storica intercetta e ricostruisce i fatti del passato: gli eventi “storici”. Ma l’evento è una molecola della temporalità direttamente conoscibile, ha un principio e un fine che ci sembra di poter afferrare perché è fatto del nostro tempo, parla di noi, è lo specchio della nostra temporalità del tutto segnata dalla sua finitudine.
Tempo storico e percezione degli eventi
“il corso degli eventi rinvia a un processo complessivo del quale l’evento stesso altro non sarebbe che un elemento visibile? Agisce per caso una forza che lo determina in maniera univoca? Oppure è frutto del caso? E’ la risultante dell’interazione di una molteplicità di individui o gruppi? Tende verso un fine predeterminato? Una storia rigorosamente evenemenziale non potrebbe pronunciarsi in merito: per farlo avrebbe dovuto abbandonare la sfera della visibilità nella quale si trova confinata”.
Ktzysztof Pomian
“la considerazione della storia che si forma nel presente vede in essa solo un’attività irrecuperabile: ciò che è accaduto. La considerazione di ciò che è accaduto è inesauribile. i perde nella sua materia. Poiché questa storia e questa temporalità del presente non raggiungono il passato, esse hanno solo un presente diverso”
MartinHeidegger
Tempo, eventi, durata e storia degli eventi – evento, temporalità e tempo umano – cronologia e cronosofia – l’evento storico, le date, la cronologia – subeventi, particelle, frattali e fisica degli eventi – teatri della memoria, spettacoli e canonizzazione degli eventi – memoria, ricordi e percezione degli eventi – memoria storica
1. Tempo, eventi, durata e storia degli eventi.
Il dibattito sulla teoria della storiografia, che ha dato vita e accompagnato il cammino critico e di revisione della modernità fin dai primi del Novecento, langue da almeno un ventennio (Rossi) e ormai sembra non interessare nessuno, gli storici meno che mai guidati, come sono, dal “piacere” (Bloch) di fare e scrivere storia e protetti dalle loro trincee metodologico-disciplinari. Il fuoco del dibattito culturale si è ormai collocato, lo abbiamo visto, in uno spazio assai più vasto di quello controllato per tradizione dagli intellettuali militanti del XX secolo (Waltzer) e si orienta verso una ridefinizione dell’identità umana che va oltre l’antropologia storica della modernità. In un clima di crescente collaborazione tra vecchi e nuovi saperi (Brokman), tra scienze umane e della natura, l’homo complexus, il suo destino e le sue responsabilità, sono all’ordine del giorno di strutture di ricerca interdisciplinari e squadre di ricercatori-scienziati in costante dialogo con le nuove tecnologie e su un territorio spazio-temporale che non rispetta più i ritmi, le misure e le dimensioni del tradizionale “tempo storico”. Nondimeno proprio queste nuove piste di ricerca potrebbero trovare un interessante laboratorio nella rinnovata analisi del significato e della funzione del pensiero storico al quale è stato affidato il compito di celebrare l’uomo e la sua dignità nel corso dei secoli XVI-XX. In questo laboratorio infatti si è realizzato un misterioso processo alchemico in virtù del quale si confrontano, da sempre, e interagiscono due dimensioni della temporalità: il fluire del tempo in tutta la sua estensione strutturalmente senza misura e le azioni umane nel loro accadere temporale finito e circostanziato. Storia, intesa come programma di produzione-spiegazione-controllo del corso temporale, ed eventi, intesi come particelle in grado di fornire la misura e il significato del tempo, costituiscono, da sempre, uno snodo del dibattito sul senso e la funzione del sapere storico. Richiamare i termini del problema significa anche toccare le corde sensibili del tema che stiamo trattando.
La storia, infatti, non esiste se non nel tempo, ma la storia non è la realtà del tempo, il suo flusso percepibile dai sensi e dall’osservazione diretta del mutarsi degli oggetti e delle situazioni. La storia è un pensare il tempo non contemporaneo a quello vissuto, è una percezione della temporalità “che fornisce una misura narrativa e cronologica tra eventi” (Romitelli). La percezione degli eventi in quanto accaduti, la loro rappresentazione narrativa, la determinazione del loro specifico tempo e di quello nel quale si collocano, è il mestiere dello storico.
Questo stato di cose ha proposto e propone una riflessione sulla struttura stessa del “discorso” storico (cioè di un linguaggio come strumento comunicativo) e in particolare sui rapporti tra “lunga durata” del tempo da un alto e il concetto di “evento” dall’altro. Gli eventi infatti sono nel tempo e costitutivi del tempo. La letteratura, anche qui, abbonda e il dibattito ha radici profonde. Storia degli eventi e storia di “lunga durata” come canoni metodologici e modelli narrativi si sono confrontate per quasi un secolo (Braudel, Pomian, Romitelli, Veyne, Nora, Furet, Koselleck) anche se, in realtà, questo dibattito è erede di un conflitto assai più antico tra Grandi e Piccoli eventi (Voltaire, Michelet), conflitto al quale soggiace il complesso problema individuale/universale o particolare/generale o pluralità/unicità del discorso storico che, per tradizione, ossessiona la teoria della storiografia. Molto rumore per nulla: contrapporre una storia forte e pesante (quella della lunga durata) a una storia debole e leggera (quella degli eventi), o una storia “insoddisfacente” a una “suprema” (Ranke), mi è sempre parso un falso problema. La polemica tradisce da un lato l’ambizione del pensiero storico a costituirsi in una filosofia universale dell’umanità e dall’altro la cattiva coscienza dello storico di non essere riuscito a fondare uno stabile statuto epistemologico della storiografia.
Nella loro essenziale e misteriosa struttura gli eventi sono costitutivi dell’esistenza individuale perché assicurano una funzione essenziale del comunicare: gli esseri umani relazionano e si rappresentano tra loro raccontando e raccontandosi eventi, e cioè azioni ed esperienze di cui sono stati testimoni o attori. Inoltre, trasformate in discorso, queste azioni consentono di fissare la dimensione del tempo (l’evento in genere è ciò che è accaduto) e per questo il tempo storico è il luogo degli eventi e la storiografia è una narrazione di eventi del passato. Il che pone però un problema di fondo pressoché irresolubile: la riduzione del passato a una gerarchia di eventi che limita e irrigidisce la ricerca storica ed espone il sapere storico al rischio della monologia e monotonia.
Nelle sue origini contemporanee (Simiand), la lotta contro una storiografia fondata sugli avvenimenti altro non fu che legittima rivolta conseguente alla saturazione della storia politico-istituzionale-diplomatica di stampo celebrativo e nazionalistico (nella fattispecie francese, quella della Terza repubblica); un genere di storiografia per la quale passato e futuro rischiano di essere semplice propaganda.
A cavaliere dei secoli XIX-XX, contro questa storiografia da salon nazional-borghese, si diede il via a una metodologia di analisi più oggettiva, fondata sui cicli economici e sulle strutture sociali, capace di offrire ricostruzioni più articolate del passato a più elevato grado di complessità (cioè, all’apparenza, meno politicizzate e più neutrali). Sotto l’influsso della neonate scienze sociali (e dei loro indubbi successi) ci si è poi impegnati a dimostrare (Lacombe) che la singola azione umana, considerata nella sua unicità, non poteva essere oggetto di indagine “scientifica” perché incapace di fondare leggi generali. Prendeva così il via una guerra di liberazione della storia dalla polvere degli eventi che ha caratterizzato tutto il dibattito della prima metà del Novecento.
Per un radicale distanziamento tra storia per eventi e storia di lunga durata, si è poi fatto ricorso al concetto di “struttura” la quale sarebbe necessariamente a bassa velocità di mutamento, poco permeabile al tempo storico e dotata di una forza di gravitazione tale da ingoiare e dominare gli eventi; un modello interpretativo che, negli anni Ottanta del secolo scorso, ha generato il paradigma, a mio avviso ridondante, in base al quale la storiografia “narra” gli eventi e “descrive” le strutture (Koselleck). Ma in realtà la costruzione di scenari sociali, economici e mentali sulla “lunga durata”, a diversa densità e velocità temporale, consiste semplicemente nel far ricorso, in sede di approccio metodologico e di architettura narrativa, alla pluralità degli eventi e degli approcci disciplinari, significa invadere il campo della ricerca con la asimmetria cronologica delle diverse discipline (i tempi delle istituzioni, dell’economia, del sociale, della cultura, ecc.), significa insomma impastare e coniugare la diacronia degli eventi con la sincronia delle strutture. E tuttavia indipendentemente dal suo ritmo cronologico fatto di cicli economici e dei tempi dei fenomeni sociali, la Storia è pur sempre un racconto, ha sempre un inizio e una fine e ordina l’accadere degli eventi in una trama di senso, cioè in un tessuto comunicativo: svela, spiega e analizza.
In realtà ogni storia è la storia di un evento e vi sono eventi di giorni, di anni, di decenni, di secoli e anche plurisecolari. Il tempo-storia della modernità si articola su cinque secoli, quello della rivoluzione scientifica solo su di un paio, a farla lunga la Rivoluzione francese dura un ventennio, la battaglia di Austerlitz poco più di sei ore. Per contro la Storia delle modernità o del medioevo possono essere raccontate in due ore, quella della battaglia di Waterloo in un corso di decine di ore e quella dell’attentato alla Torri gemelle in cento o mille ore (o pagine scritte o immagini o suoni, ecc.). Sono la percezione dell’evento e la modalità della sua narrazione a generare il tempo storico e non il contrario. La storia e il “corso storico” non esisterebbero se non vi fossero nuclei temporali (reti sistemiche di eventi) a fissarne la misura (estensione e velocità). E poiché alla fin fine anche ogni racconto è un evento in se, è la struttura narrativa che definisce la durata lunga o breve del tempo nel quale l’evento giunge dalla sua origine alla sua fine.
Ogni evento ha quindi il suo tempo che lo storico intercetta, costruisce, organizza; né vale il crinale tra tempo lungo e breve della storia per distinguere la continuità dalla discontinuità: nella sua unicità il fatto è compiuto in se.
Semmai il problema che esso pone è quello della coerenza all’interno del discorso che lo rappresenta e con gli altri eventi disseminati nel corso cronologico della dimensione storica. Ma il tempo storico (così come il tempo vissuto) non è quantitativo (non va né a pagine, né a minuti), bensì per sua natura è qualitativo. Quel che noi percepiamo dell’evento non è, in prima istanza, la sua durata cronologica (problema o cavillo essenzialmente storiografico), ma il processo di mutamento dell’azione che lo caratterizza, ne fa il contenuto conoscitivo ed emozionale il quale, a sua volta, è fortemente connotato dall’enfasi e dalle modalità narrative. L’evento-avvento di Filippo II si integra perfettamente nella crisi del Mediterraneo, ne è il necessario prodotto e il “segno dei tempi”, ma al tempo stesso la battaglia di Lepanto è la grande rottura di tutta un’epoca della civiltà mediterranea. Tocqueville si è incaricato di dimostrare una continuità strutturale tra Antico regime e Rivoluzione, ma la caduta di Robespierre cambia la storia d’Europa e dell’ideologia occidentale. Luigi XIV è l’evento, la discontinuità casuale, ma la sua comprensione e spiegazione non possono prescindere dal Secolo di Luigi XIV (Voltaire) o dai “venti milioni di francesi” che lo accompagnano e alla fine prevalgono sul personaggio e sul contributo individuale (Goubert). E così via. Sarei piuttosto propenso a ritenere che continuità o discontinuità corrono parallele e siano parte essenziale del discorso storico; che siano semmai due approcci di metodo e di vocazione del ricercatore, comportino un uso specifico delle cronologie, della percezione degli eventi e siano modalità narrative diverse che sullo stesso tema si possono legittimamente scrivere.
Insomma il conflitto tra “storia di lunga durata” e “storia degli avvenimenti”, come del resto quello più antico tra Grandi eventi ed eventi insignificanti, mi pare un errore di prospettiva, un peso inutile. Inutile o ingannevole anche perché, curiosamente, gli storici (narratori di “eventi storici”) non mi sembra si siano mai trovati concordi nel definire con chiarezza il concetto stesso di evento. Parliamone e, su questo punto, abbandoniamoci all’esperienza personale, all’osservazione e alla riflessione diretta.
2. Evento e temporalità.
La storiografia si occupa di quel dominio dell’invisibile che è il tempo passato il quale non esiste più proprio perché “è passato”, e tuttavia questa misteriosa dimensione si materializza ai nostri sensi attraverso segni, piste e tracce altrettanto misteriose che sono quei monumenti-documenti in forza dei quali la ricerca storica intercetta e ricostruisce i fatti del passato: gli eventi “storici”. Naturalmente sui fatti e sugli eventi (usiamoli per ora come sinonimi) dei quali si occupano gli storici, tutti più o meno hanno riflettuto, ma poiché tutti ce li troviamo davanti e una definizione canonica non c’è, ognuno si fa le sue idee in via sperimentale e diretta. Partiamo dunque da zero.
Cominciamo dal vocabolario, dall’uso verbale e dal senso comune. Che cosa è un evento? “ciò che è accaduto o potrà accadere; un avvenimento di una certa importanza”; “fatto o avvenimento determinante in presenza di una circostanza oggettiva o soggettiva”; “ciò che accade in modo imprevisto e che si attende come elemento di novità e mutamento”. “Avvenimento” rinvia poi ad “evento” di cui diviene sinonimo, al pari di “fatto” e “caso”, e il cerchio si chiude. I contrari vengono in genere indicati in “esito”, “seguito”, ma anche “compimento”. Verbi correlati: “avvenire”, “accadere”, “succedere”, “seguire”, “intervenire”, “riuscire”, ma forse anche nel senso di ri-uscire; tutti verbi di moto che designano un’azione.
In realtà l’evento è un’azione il cui sviluppo implica un’automatica associazione con la temporalità. Che sia una aspettativa di ciò che è “al futuro” o una percezione di quanto è “al passato”, si tratta di un’azione iscritta nella linea del tempo, una sequenza che tra l’inizio e la fine produce mutamento (Danto). Più o meno tutto qui. Adventus in latino è un termine prevalentemente militare; evenio sta a indicare “l’uscir fuori”, “ciò che viene da altrove”. Nel nostro comune sentire l’evento come tale è “accaduto” appartiene al passato ed è materia dei nostri racconti, dei nostri rapporti relazionali e comunicativi.
Solo di recente, in un mondo completamente trasformato dalla rivoluzione informatica, la “creazione dell’evento” ha cambiato, in parte, la sua localizzazione temporale e generalizzato l’uso del termine ben oltre i confini del tradizionale evento storico. La compresenza degli eventi alla nostra vita quotidiana è un dato di fatto: oggi viviamo di eventi e in attesa degli eventi perché siamo immersi nella comunicazione (la nostra è la “società della comunicazione) e la comunicazione tra gli esseri umani e appunto fatta di eventi.
Per effetto dei nuovi media, della istantaneità della comunicazione e delle dimensioni mondiali dell’utenza, la creazione, produzione e commercializzazione degli eventi appare oggi più che mai costitutiva della realtà sociale: dalla presentazione di un’opera letteraria, alla scoperta di un sito archeologico, al recupero delle feste tradizionali, fino al lancio di un prodotto di consumo, gli eventi si progettano, si costruiscono, si gettano sul mercato dei prodotti immateriali e hanno infine svelato la loro natura di processi e prodotti comunicativi connessi alla socialità nel suo sviluppo temporale e culturale. In quella che è stata definita una civiltà del piacere e del gioco (in realtà la civiltà della comunicazione, ma soprattutto dei consumi), evento e novità (cioè attesa) coincidono; all’evento è stato dato il compito di annunciazione del nuovo (moda e mode culturali, spettacolo come socialità densa, riti di partecipazione, azioni teatrali o sceniche, ecc.) e di indicatore del futuro a breve termine. Una vera e propria “scienza” degli eventi è andata via via costituendosi per il concorso di una pluralità di nuovi saperi. Psicologia sociale, sociologia e psicologia della comunicazione, linguaggi artificiali e multimedia, interfaccia uomo-macchina, antropologia e un pluralità di discipline economiche, collaborano per la progettazione e costruzione di eventi che i nuovi linguaggi impongono sul mercato della comunicazione a livello planetario. Il linguaggio dei nuovi media (Manovich) e il loro intreccio (multimedialità e intermedialità) consentono di realizzare fenomeni momentanei di aggregazione (e omologazione) sociale mai visti in passato per intensità, velocità ed estensione. Anche qui lo scenario, rispetto al secolo scorso, sembra del tutto mutato e la modernità sembra superare se stessa in una continuata celebrazione del presente. E forse proprio per questo l’osservazione delle procedure in essere per la creazione degli eventi e la loro socializzazione-mercificazione, può illuminare circa la natura e la struttura di questo oggetto immateriale.
Anche l’evento storico, infatti, in quanto azione che si insedia nel tempo passato non direttamente accessibile ai sensi, necessita per essere percepito, organizzato e comunicato di processi e strumenti mediatici. Senza la tecnica della scrittura non vi sarebbe storio-grafia e, non a caso, la storia universale del XIX secolo ha posto come data di inizio della vicenda storica l’invenzione della scrittura (localizzata in Egitto più di cinque millenni fa). Senza iscrizioni, epigrafi, papiri e pergamene, senza testi e archivi non sarebbe stata possibile una scoperta degli eventi passati. Senza la decrittazione delle scrittura del passato, senza l’analisi linguistica, la filologia e la glottologia non sarebbe stata possibile una comprensione dei monumenti e dei manufatti della cultura materiale dimenticati dai nostri maggiori e sopravvissuti alla consunzione del tempo; senza archivi non vi sarebbero libri di storia e senza libri non vi sarebbero altri libri di storia, né memoria del passato, e così via. Solo da poco più di un ventennio strumenti informatici e nuove tecniche di investigazione del passato hanno consentito di sfondare il muro del linguaggio scritto. Ma nel corso della modernità (e ancor oggi nel costume e nella pratica della quasi totalità degli storici professionali) la storia si “scrive” e l’idea di una “storia orale”, espressione della quale si abusa, è un semplice errore semantico: in realtà con questa espressione si intende semplicemente la recente, sistematica acquisizione delle “fonti orali” al metodo storico (al pari di quelle iconografiche e fotografiche). Oggi gli eventi del presente, intesi come processi comunicativi, dispongono per esistere di una pluralità di media e di linguaggi mediatici, ma le tracce del passato, i segni, le piste di ricerca (Ginzburg) dal Rinascimento in poi sono state, ancor prima dei monumenti e dei reperti, i documenti scritti e solo questi hanno consentito la lettura di quelli.
Tuttavia, rispetto all’evento del quotidiano (che generalmente si colloca nella spazio), quello “storico” si presenta come un percorso creativo ancor più complesso e un processo comunicativo più sofisticato. In primo luogo perché lo storico è il solo testimone dell’evento che costruisce e ricostituisce; lo intercetta attraverso le piste e i segni che glielo rivelano e in certo senso lo sceglie sino ad averne un monopolio esclusivo. In secondo luogo perché lo “ricerca” nel senso che, sulla scorta di tracce, segni, piste incerte e lacunose liberamente e casualmente scelte, realizza un certo numero di proposizioni le quali costituiscono una descrizione di quanto si è potuto verificare e una delimitazione temporale dell’azione indagata. Da questo punto di vista la “ricerca” storica è davvero un’indagine ispettiva, una investigazione e un’esperienza secondo l’assunto erodoteo o, come indicavano i classici, un “girare, visitare, condurre, spiegando”, una periegesi, un procedere poliziesco al quale soggiace sempre un intreccio, o meglio un “intrigo” di eventi (With). Con una importante precisazione però: i misteri, le lacune, le zone d’ombra e i silenzi del passato sono inesauribili perché la storia stessa è una continua e inarrestabile produzione di “intrighi” e il passato, osservato dagli angusti confini del presente, un territorio dell’esperienza individuale in costante espansione e senza limiti o confini.
Lo storico insomma costruisce l’oggetto stesso della sua ricerca, il cui risultato è la coerenza di significato di una azione umana nel suo ciclo completo dall’inizio alla fine a partire da informazioni o frammenti di informazione. Qual è dunque la specificità dell’evento storico e quale il suo dispositivo?
3. Evento e tempo umano.
Per capirne di più possiamo forse riferirci all’Evento, l’unico davvero tale nella nostra tradizione culturale, e cioè la nascita del Messia, il dio che si fa uomo (e viceversa). Per questo l’Evento è prevalentemente “lieto”, “fausto”, diviene sinonimo di natività e di novità (di frattura e discontinuità), anche se reca in sé il peso del suo naturale destino: la fine che ne consente la narrazione (Gurevitch, Gauchet). Però nel suo significato storico-teologico-culturale è anche l’unico, quello irrepetibile, è il big bang della storia, il punto di svolta della creazione (Eliade). L’Evento fu infatti il punto di partenza del calendario, la sua definitiva umanizzazione e il segno del “mutarsi dei tempi”: esso segnò la fine della storia del popolo di Israele e l’inizio della storia dell’umanità tutta intera. Ma vi è di più.
Per il pensiero occidentale l’Evento-Avvento è il paradigma essenziale del tempo storico: è storicamente datato e quindi vero, certo, incontrovertibile. Quel che è interessante sottolineare è che esso mette in moto il tempo di un dio che si è fatto mortale (si è condannato alla fine), è dunque già “storico” in se (ha un inzio e una fine) ed è politico (inaugura un nuovo regno), fino a divenire una misura temporale certa del mutamento. Esso si inserisce infatti nella linearità del tempo e insieme ne realizza una rottura, la rigenera. Sono queste le radici (e la struttura) di un intero sistema culturale a fondazione storica che, al tempo stesso, segnano la fondazione antropologica del pensiero occidentale prima e poi la modernità. Si tratta di un sistema nel quale il mito delle origini (che è poi l’annunciazione dell’ordine e del potere) non è offerto dall’interpretazione-narrazione degli eventi cosmici, ma dalle tecniche di continua ricostruzione del passato; nel discorso storico, storia e mito si trasmettono le loro proprietà e si può affermare che la storia-storiografia sia una forma nuova e rivoluzionaria del pensiero mitico nel quale l’uomo prevale sul cosmo e di continuo ne rigenera le proprietà e le leggi.
A partire da questo originario big bang, il tempo è storico, tutto umano (si è compiuto dala nascita alla morte) e gli eventi che lo costituiscono riflettono l’incerta natura dell’uomo, il suo ritmo biologico e psichico, la sua misteriosa memoria, la sua instabilità emotiva e quell’insieme di relazioni che ne fanno l’identità individuale e il senso di appartenenza al collettivo. Proprio per questo, a mio giudizio, l’idea e il concetto di evento, come noi lo percepiamo, rispettano il paradigma dell’Evento originario e portano in se una tensione destabilizzante, implicano aspettativa, incertezza, minaccia (o speranza) di mutamento, rottura, svolta. Perché? Contro quale ordine si manifesta e si impone l’evento? Quale equilibrio turba ciò che “accade”, succede, avviene, viene da fuori?
Mi pare che l’evento storico stia a rappresentare una increspatura della linearità del tempo, un grumo, una sua accelerazione o una sua messa in moto; sia insomma l’alfiere della diacronia nel corso lineare della temporalità. Mi pare che noi lo percepiamo così; come un’azione umana compiuta e sospesa nel tempo, ma il cui essere stesso abbia una particolare forza comunicativa perché parla con noi e di noi. E che infine esso sia il segno di quella continua e inesauribile guerra di conquista e colonizzazione della temporalità che è il dispositivo di funzionamento della cultura moderna. L’evento certifica, in certo senso, la fragilità e imprevedibilità del tempus umano, è una porzione/particella temporale direttamente conoscibile, ha un principio e un fine che ci sembra di poter afferrare perché è fatto del nostro tempo, parla di noi, è lo specchio (o il paradigma o il modello, se preferite) della nostra temporalità del tutto segnata dalla sua finitudine (Heidegger).
L’evento e gli eventi dei quali si occupano gli storici sono “umani” anzi “antropomorfi”, rappresentano le azioni umane che, per essere tali, misurano il corso del tempo e ce lo rendono percepibile. Si tratta probabilmente di un “laboratorio” dell’esperienza umana intesa come conoscenza, nel quale passato, presente e futuro si intrecciano in modo agevole per quella funzione della memoria che suscita il ricordo: l’evento insomma “materializza” il tempo umano e lo costruisce. Svolge una funzione centrale nella percezione della temporalità perché, attraverso il ricordo, si costituisce, vive e rivive nel presente che lo produce e in certo modo lo rigenera rendendolo attuale: è “il passato del presente” (Kosellck, Prigogine) e talvolta è proprio l’immaginazione di questo passato a materializzare il futuro del e nel presente.
E tuttavia questo laboratorio del tempo è immateriale o quanto meno appartiene alla realtà non oggettuale: al pari delle particelle atomiche e subatomiche, delle molecole e dei micro organismi, o come la geometria dei frattali, non è direttamente percepibile dai sensi, ma ai sensi si impone per via di misteriosi percorsi che solo le neuroscienze ci potranno forse un giorno svelare. Composto di simboli e segni, immagini e circuiti cerebrali che suscitano emozioni, ricordi, memoria, l’evento è reale solo in quanto vissuto, solo come dimensione e processo interiore il cui senso altro non è che una trama di relazioni e connessioni a tutt’oggi difficile da scoprire. L’evento però si materializza nel linguaggio e nella costruzione del discorso, è sempre il contenuto di un processo comunicativo e noi, in definitiva, comunichiamo per eventi: ai nostri interlocutori raccontiamo gli accadimenti del nostro tempo costruendo così, di volta in volta, la nostra storia personale che è, questa sì, universale ed esclusiva ancorché sempre mutevole in relazione alle circostanze a agli interlocutori del soggetto narrante. In questo senso e per la sua funzione, l’evento è una rappresentazione e un’azione insieme, in quanto il linguaggio è azione proprio perché: “dire è fare” (Wittengstein, Habermas). Ed è proprio questo “l’effetto di realtà” del discorso storico inteso come linguaggio comunicativo (Barthes).
Storici, sociologi, antropologi sono oggi concordi nel ritenere che il più significativo indicatore della civiltà e della socialità sia la velocità e la densità dei processi comunicativi; sappiamo che ogni sistema culturale per vivere, sopravvivere e svilupparsi adotta una pluralità di strumenti mediatici in relazione al grado maggiore o minore della sua complessità. E possiamo dunque affermare che il sistema culturale della modernità ha dato vita, si è costituito e sviluppato, a partire da quel particolare linguaggio che chiamiamo Storia e del quale la storiografia ha pazientemente costruito i segni, le parole e la sintassi attraverso un monumentale vocabolario di eventi. La centralità e la sovranità del discorso storico che ha fatto il successo dell’Europa-modernità è, insomma, il risultato dell’adozione di un media dotato di formidabile capacità comunicativa.
E a questo punto si impongono alcuni interrogativi: qual è il dispositivo di questo linguaggio fatto degli eventi (cose, oggetti, materia non oggettuale o rappresentazioni simboliche) intercettati e costruiti dallo storico? Da che dipende la loro “storicità”? Quale è la loro energia cinetica? E ancora, che relazione sussiste tra l’insieme di queste particelle narrative e il corso complessivo del “tempo storico”?
4. Cronosofia e cronologia.
Andiamo avanti. Gli storici apparentemente limitano il loro interesse e il loro campo di azione agli eventi del passato e per questo la Storia è, per unanime definizione degli storici stessi, “una narrazione di fatti veri e realmente accaduti” che afferiscono alla vicenda dell’uomo (Tucidide, Bodin e… tutti quanti), una narrazione fatta con metodologie che ne assicurano la restituzione “come essi propriamente furono” (Ranke).
L’evento storico, si dice, è unico, irrepetibile cioè appartiene a un ordine del tempo che supera sempre se stesso, persiste oltre il suo essere e se ne distacca. Ogni evento è una storia in se e a se. La morte di Cesare prescinde dalla sua datazione; la battaglia di Waterloo è stata combattuta indipendentemente dalla sua cronometrica collocazione temporale; la Guerra dei Trent’anni è un ciclo temporale conchiuso in se; il disastro del Titanic suscita emozioni e spiegazioni a prescindere dalla consapevolezza del giorno e delle ore in cui si è verificato; e così via. Ma, per essere “storici”, questi fatti devono necessariamente collocarsi in un riconoscibile habitat temporale. Un fatto per essere “storico” deve essere datato in quanto “non vi è storia senza date” (Levi-Strauss). L’assassinio di Cesare, se non fosse storicamente datato, altro non sarebbe che un racconto fantastico, una creazione letteraria ascrivibile al genere tragico; la vicenda di Alessandro un’epopea omerica; la battaglia di Borodino il frutto della fantasia creatrice di Tolstoi, e così via. Ma la datazione, a sua volta, è possibile perché, per lo storico, l’evento, non si colloca al futuro, non suscita attesa, esso è tale perché è davvero accaduto e per questo si trasforma in un fatto o in un dato. Noi che lo osserviamo ci collochiamo “al futuro” rispetto al suo accadimento e cioè in una dimensione diversa da quella in cui il fatto si sarebbe compiuto, il che ci consente di conoscerne il principio e la fine, di poterlo datare. In questo senso l’evento prescinde dalla (e precede la) sua datazione, e la sua collocazione cronologica è opera dello storico. Il dato, il fatto storicamente datato, diviene allora un evento storico vero (ciò che è accaduto e non si ripeterà mia più) perché cronologicamente certo, dunque realmente accaduto. Solo ora assume la sua specifica individualità (diviene unico e irripetibile), ma al tempo stesso si necrotizza (o canonizza) e si trasforma in un segno, codice o cifra del comunicare.
Gli storici costruiscono le cronologie e vi iscrivono gli eventi; le date certificano gli eventi e gli eventi giustificano le date. E così si può affermare che la cronologia occidentale è una sorta di grammatica della memoria nella quale gli eventi, disposti sulla linea del tempo in rigorosa successione, costituiscono nel loro intreccio un vero e proprio linguaggio, un insieme di segni e di informazioni a base temporale. Proprio per questo il succedersi di queste informazioni e la selezione degli eventi che vi vengono registrati (e le giustificano), realizzano automaticamente reti di connessione causali, percorsi logici e associazioni che le trasformano in microstrutture narrative. Più sono percorse, frequentate, usate e più le cronologie, che materializzano il tempo storico, fatalmente si dilatano a dismisura e penetrano in più dimensioni. In realtà la conquista e l’occupazione del tempo è inesauribile, il suo stabile presidio praticamente impossibile.
Che sarebbe la storia senza cronologia, senza una declinazione temporale dei fatti del passato? Un racconto fantastico e nulla di più. Le fonti, senza una adeguata cronologia delle fonti, sarebbero materiali d’archivio fuori controllo e fuori memoria. E la memoria stessa senza una datazione dei ricordi sarebbe poco più che una favola del “c’era una volta”. Sarebbe insomma un linguaggio senza parole. La cronologia, e l’architettura cronologica, meritano dunque una seria valutazione, perché queste formidabili banche dati realizzate dalla cultura della modernità, il più delle volte, ci passano accanto senza che ci si interroghi a fondo sul loro significato. In realtà lo storico, viaggiatore del tempo, è prigioniero della crono-logia: parte da essa (cioè assume come dati i fatti datati) e ad essa ritorna (la aggiusta, la precisa e la implementa); sempre e comunque la linea del tempo prevale su quella dello spazio, anzi è la prima a modellare il secondo.
Per effetto della inesauribile produzione storiografica il tempo storico si è infinitamente e progressivamente dilatato e addensato; nel corso degli ultimi tre secoli, la ricerca storica ha scoperto o prodotto più tempo di quanto la nostra mente e la nostra esperienza sia in grado di immaginare e oggi il sapere storico dispone di apparati cronologici che, per quantità, non sono più neppure manovrabili dalla memoria umana. Vi sono cronologie di struttura diversa (semplici, ragionate, disciplinari, tematiche, comparate, sinottiche, ecc.) e ve ne sono per ogni area disciplinare, per ogni area geografica, per ogni evento o serie di eventi. In funzione delle fonti disponibili, le cronologie crescono a dismisura e quelle contemporanee sono miliardarie di fatti e di date. La navigazione nei siti di storia in rete offre innumerevoli cronologie e un’analisi del GEDEA in formato elettronico (Dizionario enciclopedico De Agostini) ha evidenziato che l’opera contiene circa sette milioni di date. Con l’ausilio delle memorie elettroniche, sarebbe possibile organizzare queste date, indicative di altrettanti fatti, in un’unica e mastodontica linea del tempo per sezioni e sottosezioni disciplinari, per aree geografiche e biografiche e per campi magnetici comparativi giungendo così alla madre di tutte le cronologie navigabili con modalità ipertestuale. Certo altri milioni di date sarebbero integrabili con il ricorso altre enciclopedie e altre decine di milioni reperibili nelle monografie monografie e negli studi specializzati e così via. Ogni data potrebbe allora richiamare in via automatica e istantanea approfondimenti a più livelli e questi, a loro volta, potrebbero rinviare ad altri eventi dati, fatti, date e così via. Poi per un certo luogo, tema, soggetto si potrebbe ricostruire il mondo virtuale (il presente del passato) di ciascun evento e, in futuro, l’intelligenza artificiale potrebbe a sua volta, mettendo a profitto questa prodigiosa memoria, questa inesauribile cronologia, generare testi e manuali di storia con i quali lo storico non sarebbe certo in grado di competere. Basterebbe un programma tale da definire la quantità di eventi da attribuire a ciascun periodo della narrazione storica o capace di definire in termini percentuali le varie aree tematiche e geografiche (ma anche iconografiche, orali, musicali, ecc.), di comporre le date e gli eventi secondo gli schemi suggeriti e imposti dalle direttive ministeriali, per realizzare testi e manuali di storia, aggiornarli, implementarli a piacere. Si potrebbero così, in modo automatico e in funzione delle direttive politiche di questo o quel governo, automatizzare la ricerca storica; si costruirebbe con assoluta precisione la “memoria collettiva” come obiettivo di quello che definiamo “uso pubblico della storia”. Tutto ciò, in prospettiva, è possibile e forse anche probabile. E allora?
Allora ci troveremmo in presenza di un universo incontrollato di eventi fatto di galassie, ammassi stellari, buchi neri, superfici e velocità temporali infinite il cui ordine/disordine complessivo non apparirebbe diverso da quello che osservano gli astronomi e descrivono i cosmografi del XXI secolo, ma la storia, come noi la pratichiamo (e cioè come affermazione ri-flessione del soggetto sul suo tempo) non vi sarebbe più. E poiché ciò che viene imponendosi in modo sempre meno contestabile nella nuova immagine dell’universo è la caduta di ogni concezione oggettuale della materia, scopriremmo che, nella mobilità indissociabile dello spazio-tempo, l’universo altro non è che una rete dinamica di eventi interconnessi dei quali gli eventi umani sono una infinitesima frazione e l’individuo stesso, nella sua singolarità un evento, un racconto (Giddens, Tourenne, Lipovetsky, Lyon). Dalla “metafisica degli oggetti” e dalla “fisica della materia” gli attuali cosmografi sono passati a una fisica degli eventi (Haken, Prini, Prigogine) i quali si configurano come sistemi di forza aperti e in competizione tra loro tessuti insieme e fluttuanti nel tempo. La prospettiva di una simile organizzazione dell’universo, traslata agli eventi storici lascerebbe intravedere un futuro… ma, per ora, non andiamo così lontano.
5. Subeventi, particelle, frattali e fisica degli eventi.
Queste prospettive future, ma non remote, riguardano un orizzonte ancora molto lontano dal comune sentire degli storici. Nel nostro approccio umano e umanistico (quindi storico) al tempo, noi restiamo fortemente vincolati alla linearità e alla successione degli eventi storicamente datati, come a una bussola della ricerca storica. Per ora la cronologia, come pista di lancio della ricerca e del discorso storico, ci si presenta per quella che è: una banca dati artigianale e un patrimonio di informazioni organizzate lungo la freccia del tempo e generalmente tessute tra loro da un rapporto lineare ed elementare di causa/effetto, una sorta di sequenza genealogica propria di ogni racconto delle origini. Ma occorre fare un passo più in là.
Per tentare un approccio diretto e poi una definizione di evento, proviamo dunque, sperimentalmente, a leggere una cronologia o a costruirne una noi stessi (procedura professionale indispensabile e necessaria di qualunque percorso di ricerca).
Ci troviamo sempre di fronte a una linea (verticale o orizzontale) sulla quale sono disposti punti o cerchi attivi (in realtà si tratterebbe di un grafo): sono le date da ricordare, gli eventi chiave. Questi cerchi sono sempre intervallati da zone di vuoto nelle quali le date scompaiono: si tratta di zone del tempo insignificanti, condannate all’oblio (zone “infratemporali”, come le definirebbe Heidegger). Esse precedono e seguono l’evento datato. I punti e i cerchi delle date-evento, pur avendo peso e dimensioni diverse (poche parole, righe, talvolta interi periodi, a seconda della specifica finalità della cronologia) in relazione alla struttura sintattica che le definiscono e ne determinano l’esistenza, sono sempre e comunque un “discorso”, un insieme di proposizioni coerenti e, in definitiva, sono microstrutture narrative dotate di senso. Queste microstrutture narrative contengono, a loro volta, una pluralità di altri fatti che fanno riferimento ad altre date e sempre agiscono in modo automatico sulla memoria richiamando altri eventi che li precedono o li seguono. Cosicché si può dire che l’evento storico si costituisce o “costruisce” a partire dalla intersezione-collaborazione dei dati all’interno di un nucleo più vasto nel quale più fatti, come atomi dispersi, interagiscono tra loro aggregandosi e disgregandosi in una miriade di particelle subatomiche condannate all’espansione e alla entropia.
Così ad esempio nell’espressione: “1715: nasce l’autore del Neveau de Rameaux”, qual è l’evento? la nascita di Diderot o la pubblicazione della sua opera? Ma in quella: “nel 1715 nasce l’autore del Neveau de Rameaux, opera che certifica una svolta del pensiero illuminista”, gli eventi concatenati e aperti sono tre (Diderot, l’opera, l’illuminismo). Ne “la battaglia di Cheronea segna il culmine del potere di Filippo all’interno delle tribù macedoni e annuncia la fine dell’autonomia delle città greche”, la matassa della istantaneità narrativa si complica ancora di più. Lo stesso ne è della proposizione: “1521: Carlo V emana l’Editto di Worms contro Lutero che sta prendendo le distanze da Muntzer”. La seguente successione: “1589: muore Caterina De Medici; assassinio di Enrico III; Enrico IV re di Francia” è in realtà un evento storico complessivo che narra un’azione ad ampia dilatazione temporale e, attraverso i soggetti indicati, copre un arco temporale a più dimensioni. E così via.
E tuttavia per quanto incerti, disomogenei, confusi nei loro segni, nei simboli e nelle immagini che evocano, incerti nelle spiegazioni che offrono, queste piste del linguaggio e della consuetudine narrativa della storia, ci appaiono sempre come dati essenziali, punti di riferimento a base mnemotecnica, icone e idoli della memoria simili a reperti fossili di una stratigrafia più o meno nota a forte valore comunicativo. Nella asimmetria apparente celano, al pari dei frattali, una loro geometria rigorosa e persistente come quella che i matematici scoprono nelle incerte linee del paesaggio. Si tratta sempre della descrizione di relazioni umane la cui estensione, nel tempo-storia, si svolge in funzione di altre azioni e altri eventi scoperti, datati e descritti dalla storiografia. Noi leggiamo, infatti, l’evento citato nella cronologia come una sorta di atomo o nucleo narrativo, un’informazione a base temporale si è detto, la cui struttura è sempre un’azione che mette in moto la memoria e, a seconda della nostra conoscenza storica, la dilata ad altri eventi, date, informazioni che afferiscono al tempo storico, lo creano e aprono il campo a nuove narrazioni. Insomma il discorso storico mette in moto la storiografia, e viceversa, in un processo incessante, autonomo e autoreferente.
Partendo da queste osservazioni sarei dunque per condividere l’assunto in base al quale l’unicità della storia si spiega con il fatto che “ogni evento è un sistema” (Aron) ed è a partire dal singolo evento che il tempo storico si costituisce e si dilata. Tenuto conto del fatto che la struttura di questo sistema “si costituisce nell’atto della sua narrazione la quale ordina l’accadere dagli eventi in una trama di senso” (Galimberti), ritengo che si possa definire l’evento storico come un discorso e cioè una proposizione volta alla costruzione di un insieme sistemico di azioni (o subeventi) che interagiscono tra loro (si muovono e assicurano mutamento) a un certo livello di velocità e di energia comunicativa. Queste reti sistemiche, dotate di una forza di attrazione e centrifuga rispetto ad altri eventi, si collocano in una zona della temporalità estranea alla linea del tempo cronologico; sospese come particelle nel vuoto tra un ciclo temporale privo di eventi e quello successivo altrettanto silenzioso, ne trasformano il moto e la densità.
Vi sono zone della cronologia dense di eventi, altre rade e povere, vi sono date significative e altre che “non vale la pena di ricordare”: ma in realtà ogni evento è il tempo e ha il suo tempo, la sua specifica densità temporale, la sua energia comunicativa, caratteristiche individualizzanti e strutturali rispetto alle quali la cronologia svolge un semplice ruolo di identificazione e archiviazione; le date in fondo sono semplici matrici di riconoscimento. Sono infatti gli eventi che rendono necessaria la cronologia (la precedono o la giustificano) e non il contrario. La morte di Napoleone è un evento in se con la sua azione, i suoi tempi e l’insieme di eventi-circostanze che suscita, di emozioni che richiama, di ricordi che assorbe. La sua datazione al fatale 5 maggio 1821 riconduce questo insieme di azioni, dati, immagini, circostanze, emozioni ad altre dimensioni e per certi aspetti li deforma e trasforma in un’altra trama narrativa, un altro evento. Le Idi di marzo evocano un’azione, un tempo, un luogo, un insieme di attori, una pluralità di autori e modalità narrative, ma la loro precisa collocazione cronologica non è necessaria per la percezione, partecipazione e immedesimazione con l’evento; Waterloo, Cavuor, Dakau, Richelieu e Hiroshima, sono parole del linguaggio storico il cui significato non riconduce al corso lineare della storia, né alla cronologia, ma a reti informative e narrative più o meno complesse. Ogni data, ogni riga di una cronologia ci si presenta come un messaggio, un segno, un vocabolo dotato di senso.
Allora la storia potrebbe essere definita come un linguaggio iscritto nel tempo e i cui vocaboli sono gli eventi; in quanto grammatica di questi eventi, il sapere-discorso storico diverrebbe un media, uno strumento essenziale del comunicare. Questo linguaggio, prodotto o percepito dal cervello e lavorato dalla nostra memoria immaginativa, come ogni insieme di proposizioni di vocaboli o particelle, finisce per assumere una sua identità, una sua vita propria; per certi aspetti assume concretezza e materia come un vero e proprio manufatto o un circuito miniaturizzato, invisibile all’occhio nudo, che noi chiamiamo cultura, proprio perché “i prodotti del cervello umano hanno l’aspetto di esseri indipendenti dotati di corpi particolari, in comunicazione con gli uomini e tra di loro” (Marx).
Così gli eventi storici possono anche essere definiti come segni di un processo comunicativo e prodotti comunicativi essi stessi. Noi percepiamo infatti la presenza di queste particelle attraverso i sensi in una logica di scambio e partecipazione; immagazziniamo suoni e immagini che catturano e agitano le nostre emozioni, ma la loro composizione, il loro significato è una elaborazione interiore che si concretizza sino a vivere una vita autonoma nella comunicazione che noi ne facciamo a noi stessi o agli altri.
Un approfondimento della natura linguistico-comunicativa degli eventi, così come l’uso della metafora (o modello di riferimento) della meccanica quantistica, il ricorso a concetti e parole come nucleo, particella, massa, energia, gravitazione, accelerazione, interazione, onde ecc., possono favorire feconde intuizioni e magari collocare il dato immateriale in una zona più corrispondente al concetto di materia non oggettuale che oggi si pratica nel pensiero e nella ricerca scientifica.
Che poi queste particelle, fluttuanti nel tempo artificiale delle cronologie, siano rappresentative di qualcosa che sfugge ai nostri sensi e sollecita la nostra immaginazione è del tutto evidente; che esse scompaiono o ricompaiano e si impongano alla nostra attenzione per effetto della loro energia comunicativa (cioè dello scambio emozionale che hanno con noi) e della percezione che noi ne abbiamo per effetto della memoria, mi sembra altrettanto ovvio; che infine la nostra percezione, il nostro osservarle dia loro una sorta di consistenza, di attualità (di vita) e in certo senso proprio per questo le modifichi, non vi sarebbe neppure da dubitare. Ma proprio per questo è altrettanto certo che queste reti sistemiche instabili e fluttuanti, queste strutture sospese(al di là della data o del ciclo di date che le rendono storiche) in una temporalità indefinita, assumono consistenza e visibilità solo quando, in virtù di un processo per molti aspetti misterioso, escono dal loro habitat passato, assumono attualità, riprendono contatto col presente e vengono per così dire “canonizzate” dalla ricerca storica che le restituisce alla vita.
In realtà, come si è detto, esse sono fatte della nostra stessa sostanza perché noi siamo “fatti di tempo” e il nostro tempo, il nostro presente, le genera e le rigenera ogni volta che a loro ci accostiamo. Se noi le percepiamo ciò significa che è la struttura della nostra memoria, e delle emozioni che la governavano, a renderle attive in un tempo che non è quello ormai definitivamente passato al quale appartengono, ma quello della nostra “circostanza storica” (Ortega y Gasset). E così questi fatti del passato, in virtù della nostra percezione, divengono a noi contemporanei (Croce), agiscono nel nostro quotidiano, ci trasformano, si integrano alla nostra storia personale e, per effetto di continue riverberazioni e risonanze, sono oggetto dei nostri scambi con l’ambiente umano che ci circonda. La forza di attrazione degli eventi, infatti, va ben oltre la loro percezione, quest’ultima comporta quasi automaticamente un certo grado di partecipazione alla rivelazione dell’evento stesso e più oltre ancora, un grado maggiore o minore di immedesimazione con i fatti narrati.
Quello su cui occorre ancora riflettere (nelle mie letture non ho trovato una soddisfacente analisi di riferimento) è che la struttura comunicativa dell’evento comporta una sorta di partecipazione all’evento stesso. Nel processo narrativo-comunicativo della azioni umane, infatti, acquisire e rielaborare significa partecipare, essere intimamente coinvolti e, per taluni aspetti, essere ad un tempo oggetto e soggetto del racconto in virtù del principio di immedesimazione che lo rende autonomo e attivo nella nostra coscienza (Campbell).
Il processo di percezione-partecipazione-immedesimazione che assicura l’assimilazione dell’evento, sia quello ordinario (frutto della nostra esperienza diretta che ne elabora il senso) sia quello narrato e quindi comunicato, è certo un problema complesso che non ha trovato spiegazione e soluzione soddisfacente neppure da parte di chi se ne è, a mia conoscenza, occupato con lena (Danto, Ricoeur). Esso attiene da un lato alla struttura stessa del processo (e prodotto) comunicativo, ma d’altra parte comporta anche la sua collocazione in una dimensione temporale diversa da quella nella quale, non solo l’evento, ma anche la sua comunicazione è avvenuta; comporta la sua archiviazione nel dominio che chiamiamo memoria. La restituzione che poi essa ne fa avviene sempre al presente e implica a sua volta la ricostruzione di tutti gli elementi che lo compongono in un nuovo senso comunicativo: la ricerca storica che si poggia su questo processo risulta allora particolarmente instabile e paradossalmente tende di continuo a modificare la struttura cronologica nella quale gli eventi si inseriscono destoricizzandoli per renderli attuali, comunicabili, partecipabili.
Gli eventi insomma sono un prodotto diretto dell’esperienza comunicativa umana e gli eventi storici sono un prodotto degli storici. E dunque non è poi così vero che “la storia la fanno gli uomini” (Croce): la Storia, in realtà, la fanno gli storici che intercettano, costruiscono e narrano eventi, li datano e li impongono alla memoria: l’uomo moderno è, sì, un “uomo storico”, ma nel senso che è un prodotto della storiografia. E così si può anche affermare che, in qualche modo, ogni libro di storia è autobiografico: gli eventi scelti, interpretati, ricostruiti e narrati dall’autore-ricercatore sono fatti della stessa sostanza che gli appartiene, il tempo umano, come lui hanno una inizio e una fine e dunque il suo evento, la sua storia si intreccia sicuramente con l’oggetto del suo studio, ne assorbe le emozioni, il carattere e le proprietà.
Si pongono allora altre interessanti domande che, alla riflessione dello storico, emergono immediate e spontanee. Quando e perché nascono gli eventi storici? Come si selezionano, sopravvivono, evolvono? Perché le date vengono canonizzate e infinitamente ripetute dal discorso storico? Come e perché agiscono nella nostra memoria? Domande alle quali non penso di poter rispondere, ma sulle quali posso avanzare qualche riflessone di primo orientamento.
6. Teatri della memoria, spettacoli e canonizzazione degli eventi.
La linea del tempo descritta da una cronologia, il grafo fatto di punti e cerchi di varie dimensioni e superficie che si dispongono sulla freccia rettilinea, è, né più né meno, un “teatro della memoria”.
A cavallo tra il Medioevo e il Rinascimento, in Italia, si affermarono e diffusero i “teatri della memoria” e cioè modi di rappresentazione di concetti filosofici, di cognizioni scientifiche, di scale storiche e di massime morali attraverso mappe logiche accuratamente disegnate con immagini e simboli ricorrenti. Antesignani del sapere enciclopedico e, in un certo senso degli attuali algoritmi, i “teatri” si proponevano di localizzare informazioni nell’ambito di una struttura fisica fatta di segni, immagini, icone. Così gli “alberi” e le “torri” della Sapienza raffiguravano idee, fatti, eventi, localizzandoli nel tronco e nelle foglie o nelle stanze, nelle corti e nei cortili. Era così possibile realizzare mappe (si direbbe oggi “interfacce”) di sequenze di concetti che procedevano dal generale al particolare e favorire l’apprendimento per connessioni e precorsi (oggi diremmo “programmi”) mnemonici predefiniti. I “teatri”, oggi studiati con un certo interesse da matematici, informatici e psicologi, avevano tra l’altro lo scopo di sorreggere lo sforzo di apprendimento mediante il potenziamento dei processi logici propri dell’intelligenza e della memoria visiva (iprocesso che un tempo era definita come l’arte della memoria: la mnemotecnica). Con l’avvento del potere assoluto e di una acculturazione di massa ai simboli del potere monarchico-statuale, questi teatri divengono documenti e monumenti, cerimonie e rimembranze collettive, fogli e quadri per gli “spettacoli” della memoria storica (Fogel). Giardini, labirinti, scale, strade e percorsi tortuosi (veri “giri dell’oca”), giochi e carte da gioco, hanno ospitato nel corso dei secoli XVIII-XIX (soprattutto a partire dalla propaganda rivoluzionaria del 1792) le cronologie storiche nazionali e popolari con immagini, simboli, icone rappresentative degli eventi nella loro successione di date. Unidirezionali e unidimensionali, i teatri della memoria storica (sorta di primitive comunicazioni multimediali) hanno “canonizzato” gli eventi, svolto un ruolo nella costruzione della “memoria collettiva” (Halbwachs) e hanno consentito un uso pubblico della storia.
Non conosco opere e ricerche relative alla storia delle cronologie. Molte sono dedicate alla genesi, storia, significato dei calendari, ma forse non è stato approfondito il tema centrale della storiografia: il modificarsi, arricchirsi, complicarsi delle cronologie. Un approfondimento in tal senso potrebbe rivelare sorprese. La strada potrebbe essere quella di una sistematica rilevazione delle strutture cronologiche negli almanacchi, nelle ricorrenze della retorica politica, nelle enciclopedie ottocentesche, nei libri di testo, nei programmi di insegnamento e, per induzione, nelle linee del tempo che le varie culture hanno disegnato, definito, posto in essere.
Questa ricerca dovrebbe necessariamente porsi come obiettivo quell’ “uso pubblico della storia” (…) che ha dato luogo alla selezione degli eventi e, per così dire, alla loro canonizzazione indispensabile alla struttura didattico-pedagogica dei testi storici da un lato dell’invenzione della tradizione dall’altro (Koselleck, Hobsbawm). Ma la canonizzazione degli eventi, il loro costituirsi nella linea del tempo e nelle cronologie, è un processo complesso, di lungo periodo e si sviluppa nel corso della modernità.
Con ogni probabilità la ricerca mostrerebbe, infatti, che le cronologie, come noi le pratichiamo, nascono a partire da un ciclo definito del tempo della modernità: sarebbe tra il 1775 e il 1825 che si realizza, secondo un’opinione generalmente condivisa (Focault, Badiou, Ricoeur, Muchembled, Kosellck, Furet, Elias) quel processo di costruzione-invenzione del passato a una dimensione dal quale nasce il discorso storico e al quale fanno capo sia la “memoria storica” sia l’uso “pubblico” della storia. Prima di allora il tempo passato si modellava sul continuum di molteplici cronologie (genealogia, annalistica, cronaca), ciascuna dotata di piena autonomia, mentre l’impresa della moderna storiografia è stata quella di modellare le cronologie sulla forza comunicativa degli eventi.
Prima del 1789 “c’erano storie al plurale, storie di vario genere che si verificavano e che potevano servire come esempi per l’insegnamento della morale, della teologia, del diritto e della filosofia” (Foucault) poi con la Rivoluzione, madre di tutti gli eventi, canone e matrice essenziale della modernità (Furet, Nora, Moro), l’insieme di narrazioni dei molteplici saperi si piega ad una dimensione temporale comune: le cronologie la organizzano lungo la linea del tempo-storia, la ricerca storiografica scopre, costruisce, seleziona gli eventi degni di essere ricordati e li data con precisione cronometrica. La cronologia diviene così una cronosofia e addirittura una cosmografia della vicenda umana dalle sue origini remote alla sua meta finale. La cronologia diviene storia, la storia cronologia e la linea del tempo “unifica in un unico concetto la differenza tra il tempo che è passato e il futuro che deve ancora venire” (Koselleck): forse il “muro della storia” (Baudrillard) è stato superato proprio qui. Ora e solo ora nell’approccio storiografico prevale l’aspetto prescrittivo su quello descrittivo; solo ora gli eventi assumono una prodigiosa forza comunicativa in virtù della loro contemporaneità intesa nel senso che l’attenzione alle fonti, testi, documenti, monumenti da parte degli storici si trasforma nella ricerca di testimonianze di attualità rispetto alla ricerca antiquaria (Croce). La Storia codifica il passato e ipoteca il futuro, diviene totalizzante, universalistica del destino dell’uomo, necessariamente monologica e a autoreferente perché il tempo, presente e futuro, viene ordinato in base alle conoscenze della storiografia stessa.
Questo nuovo corso del pensiero e della pratica storiografica fa della Storia il mito fondativo della modernità, un mito in azione e costantemente ripetuto che ripropone agli storici il paradosso dell’ “eterno ritorno”. Poiché, se è vero che “non esiste storia senza date (Levi-Strauss), è altrettanto vero che “non esistono date senza storia” (Ricoeur) e che, di conseguenza, cronologia ed eventi si scontrano nella linea del tempo con effetti paradossali: la cronologia, nel susseguirsi ritmico e progressivo delle sue date, assicura continuità, là dove gli eventi, nella loro individuale unicità e irripetibilità, segnano continue alterazioni e discontinuità. Il pensiero storico si dà scacco da se. Continuità e discontinuità, tradizione e progresso, stagnazione e sviluppo, ordine e complessità divengono, nei fatti, e nelle loro infinite varianti possibili, il paradigma dell’interpretazione storiografica nel corso dei secoli XIX-XX fino a un tempo non molto lontano da noi.
Il ruolo dello storico si trasforma così in quello di giudice di prima istanza della conoscenza e legittimità del corso temporale. Spetta a lui scoprire e selezionare le date degne di essere ricordate e costruire gli eventi memorabili che le abitano e le giustificano; in forza di questa operazione si fa la storia e si definisce il “giudizio della storia” sulle vicende umane. La Storia giudica se stessa e il cerchio si chiude. Per riassumere e anticipare le conclusioni: la storia sceglie da se l’oggetto dei suoi studi, storia e storiografia coincidono, la storia non la fanno gli uomini, ma gli storici che la costruiscono nella trama degli eventi da loro scelti, l’uomo moderno è un prodotto del laboratorio storiografico.
7. Memoria, ricordi e percezione degli eventi.
Ma l’osservazione della linea del tempo storico, nel susseguirsi incostante degli eventi di diversa dimensione, profondità e superficie, pone anche altri problemi centrali al discorso storico, allo storico, e al metodo storiografico. Sono quelli relativi alla memoria, al ricordo e all’oblio, in particolare all’interrogativo: che cosa sia e, se davvero vi è, come funziona la memoria collettiva che chiamiamo, in modo disinvolto, “memoria storica”.
Teatri, documenti, monumenti, spettacoli della memoria, (e le strutture cronologiche che li sostengono) ci presentano infatti un problema sempre attuale: quello del modo in cui il nostro cervello si costruisce una mappa della realtà immaginando informazioni, collegandole tra loro, archiviandole e facendole poi emergere istantaneamente a seconda delle necessità e mediante l’uso della memoria. Ovviamente oggi abbiamo un’idea più precisa circa il modo in cui vengono memorizzati gli eventi; i rapporti tra il cervello e la mente sono allo studio di numerose discipline davvero rivoluzionarie (le neuroscienze: psicologia cognitiva, neuropsicologia, neurolinguistica, ecc.). Sappiamo che il nostro cervello è in grado di strutturare esperienze e ricordi in complesse trame che fanno capo alla plasticità dei neuroni e dei circuiti nervosi. E sappiamo che memorizzare significa agganciare i nostri ricordi a specifici contesti e anche elaborarli in categorie attraverso un processo individuale tipico delle menti biologiche. Si tenta anche di localizzare la sede cerebrale dei ricordi, i processi biochimici che li producono e qualcosa si sa della memoria: per esempio che essa è “un sistema multicomponenziale” nel quale si configurano una pluralità di funzioni e prestazioni (memoria a breve e a lungo termine, memoria procedurale e proposizionale, verbale e non verbale, iconica e ecoica, fonologica e visiva, esplicita e implicita, ecc.) (Civita). Ma nell’insieme che cosa davvero sia la memoria, come funzioni e in che modo i ricordi possano essere archiviati, selezionati e riemergere poi alla coscienza, rimane un buco nero delle conoscenze scientifiche (Raddeley, Changeux, Gardner, Hopper).
La natura artigianale della ricerca storica e la struttura autoreferente della storiografia, hanno tenuto gli storici a una debita distanza da questi nuovi approcci delle neuroscienze sul tema, per altro centrale al nostro ordine di sapere, della memoria e della modalità di costruzione dei ricordi; e tuttavia una collaborazione e un percorso comune di ricerca tra questi saperi vecchi e nuovi potrebbe contribuire in modo significativo alla comprensione e alla definizione dell’evento storico. Per ora, anche qui, sembra opportuno, e obbligato, fare riferimento alla semplice e diretta esperienza personale, al nostro essere “storico” che vive e si definisce anche in base ai ricordi.
La ricostruzione del nostro passato personale attraverso i ricordi è un’azione automatica, obbligata e ricorrente; la fonte prima della nostra identità si costituisce mediante quella che possiamo, a buon diritto, definire una “storia di vita”, un’autobiografia mai scritta, ma soggiacente e talvolta raccontata per periodi, capitoli o sottostorie, insomma eventi significativi.
In realtà, nei nostri rapporti di relazione sociale, comunichiamo per eventi e a questi colleghiamo il complessivo della nostra esperienza nello spazio e nel tempo. Naturalmente gli eventi del passato che la memoria ci restituisce sono, per così dire, puri e non hanno mai una datazione precisa, non vi è un cronologia automatica della nostra vita. Sono gli eventi che ricordiamo, ricordiamo le particelle costitutive del nostro passato, non la loro datazione o successione. In molti casi questi ricordi appaiono incerti e confusi, riemergono a tratti, alcuni in modo ricorrente, incisi profondamente e lucidi nelle immagini che li rappresentano, altri casuali e inattesi. Essi riaffiorano come immagini istantanee e pulsioni emozionali restituite dalla memoria cerebrale che li lavora e trasforma in ricordi. Solo il racconto che ne facciamo (a noi stessi e agli altri) li organizza e li rende coerenti, ma proprio per questo, lo percepiamo bene, li deforma perché i ricordi sono rappresentazioni complesse a trama narrativa, sequenze di immagini dotate di una particolare energia emotiva, sono reperti di un passato che davvero vi è stato e che tuttavia scopriamo solo ora come “novità” del nostro presente.
Freud, Bergson, Proust, per vie, su terreni e con metodologie diverse hanno indagato la struttura del ricordo, ma il minimo comune denominatore delle loro proposte interpretative risiede essenzialmente nel ricondurre questo specifico dell’esperienza umana a una sorta di geometria delle passioni o emozioni e a una relazione istantanea tra emozioni e sfera affettiva. In questa stessa direzione operano ora le neuroscienze: il ricordo sembra essere non solo la certificazione fondante dell’esistenza, ma una continua rigenerazione della memoria che probabilmente agisce in un ordine del tempo istantaneo a tre dimensioni: l’immagine, l’emozione che con essa si intreccia, la costruzione logica e associativa che dà un significato alla connessione tra immagine e pulsione emozionale. Oggi sappiamo che i ricordi prendono forma sotto la spinta di emozioni; non esistono memorie allo stato puro come non esistono apprendimenti che non abbiano punti di riferimento emotivi. E sappiamo che nel corso della vita, e nel nostro quotidiano, fissiamo l’attenzione su situazioni, oggetti, sensazioni dotate di una valenza emotiva, ed è proprio questa energia emotiva a caratterizzare un ricordo e a farlo rivivere. Per certi aspetti la fondazione antropologica dell’homo complexus del XXI secolo parte proprio dalla ridefinizione delle potenzialità del cervello umano a fronte delle risorse offerte dalle memorie digitali. La collaborazione in atto tra neuroscienze, informatica, cibernetica è, del resto, uno dei segni di superamento della modernità.
Certo la complessità della psiche e della sfera affettiva è ben lontana dall’essere chiarita, così come l’insieme dei rapporti tra il cervello e la mente; e ancora meno studiati sono gli effetti che, sulla memoria e sulla capacità di generare i ricordi, producono le diverse strutture mediatiche e di comunicazione. Ma alla luce delle ricerche in corso, su un ampio ventaglio di saperi disciplinari relative alle strutture della memoria non solo sarebbe feconda una collaborazione degli storici, ma risulta indispensabile una revisione della tradizionale metodologia della ricerca, storica della tipologia delle fonti, del loro trattamento e della loro gerarchia, perché è del tutto ovvio che il territorio della memoria è il luogo privilegiato della storiografia.
La percezione e acquisizione degli eventi personali e di quelli elaborati dagli storici dovrebbero, infatti, necessariamente seguire gli stessi percorsi. Ma che cosa è la memoria storica? E, se vi è, fonda davvero una “identità storica”? Anche qui non trovo referenze adeguate, fonti sicure e affidabili e neppure aree di ricerca o filoni disciplinari dedicati.
8. Memoria storica.
E’ chiaro innanzitutto che, ben diversamente dai ricordi personali frutto della nostra esperienza diretta, l’evento storico non esiste e non può essere memorizzato se non viene svelato, comunicato e adeguatamente percepito, poi immagazzinato e rielaborato dal nostro cervello e dalla nostra mente. L’evento storico (in questo caso letteralmente evenio) “viene da fuori”, si tratta infatti di un prodotto culturale che non ci appartiene e caratterizza una particolare modalità della trasmissione del sapere: così come non esiste una storia senza date, non esiste una storia se non viene comunicata, raccontata, insegnata. Sono le storie che aprono gli occhi del bambino sulle dimensioni profonde del mondo, gli insegnano il buon uso delle emozioni e costruiscono il suo patrimonio immaginativo di ricordi. Fiabe e favole sono costitutive delle culture al pari dei miti fondativi e delle credenze religiose: insegnano le ragioni e l’ordine del mondo, dei rapporti sociali e familiari, agiscono sulle emozioni radicando valori, elevando censure e tabù.
Per “memoria collettiva” (Halbwachs) si intende generalmente questo patrimonio “naturale” dei gruppi sociali e delle comunità isolate e autosufficienti garantite da un circuito autarchico di comunicazioni, e questo patrimonio è collettivo perché frutto di una socialità densa e di una collaborazione (affabulazione) comune e condivisa (Connerton). Questo genere di sapere collettivo, trasmesso con modelli strutturalmente ben definiti e incessantemente ripetuti, lo si ritrova in quel mondo rurale che abbiamo ormai definitivamente perduto (Mendras) e nel quale i “vincoli sociali della memoria” costituiscono una garanzia di ordine e coesione sociale. Là dove vi è un “mondo senza storia” (Delumeau) e una società dominata da una “storia immobile” (Le Roy Ladurie). E la “memoria storica”?
L’espressione rimane, più che misteriosa, incerta e ambigua a meno che non la si espliciti semplicemente per quello che è: il risultato di una strategia di acculturazione su larga scala (potremmo anche dire “di massa”) al sapere storico come prodotto della storiografia. Niente di più. Rispetto alla memoria collettiva di gruppi e comunità culturalmente autosufficienti e a basso grado di intensità comunicativa che abbiamo definito “naturale” (forse meglio “strutturale”), qui ci troviamo in presenza di una memoria “artificiale” (“funzionale”), di un processo dall’alto al basso che principia dai teatri per finire agli spettacoli, alla rimembranze, alle feste, ai giochi, insomma a quelle cerimonie della socialità e del potere che consentono l’uso pubblico della storia. Una “memoria obbligata” (Ricoeur). O, se si preferisce, “memoria comunicativa” (Pathes-Ruchatz).
Ciò che rende artificiale questa memoria e così diversa da quella collettiva (e anche da quella individuale) è il fatto che essa presuppone una tecnica o tecnologia della conoscenza (e del potere) in virtù della quale gli eventi celebrati e narrati non sono autonomi e autosufficienti, ma si spiegano con (e spiegano il) complessivo dell’asse cronologico nel quale sono inseriti. Questo genere di memoria presuppone infatti una strategia e una tecnica di organizzazione del tempo sull’asse passato, presente e futuro nella quale gli eventi sono tra loro rigorosamente collegati e si spiegano gli uni con gli altri, sono prigionieri gli uni degli altri. Così il 25 aprile non è la festa della libertà, ma quella di Liberazione del Paese occupato dalle truppe nemiche, le truppe sono l’effetto di una guerra e la guerra del fascismo, il fascismo della soppressione del libero dibattito politico, e così via: la liberazione diviene il “secondo risorgimento” che a sua volta evoca (o si sostituisce a) un altro evento storico. Il 14 luglio (scelto solo per motivi logistici in quanto avrebbe dovuto essere il 4 agosto o i 20 agosto) non è la celebrazione dei Diritti dell’uomo, ma dalle Repubblica francese in quanto la presa della Bastiglia è l’evento che avrebbe dato luogo a una concatenazione di eventi tale da indurre fatalmente alla scelta della forma politica repubblicana. Intendo dire che la celebrazione di questi eventi fondativi e la costruzione della “memoria storica” comportano automaticamente un riallineamento (revisione, reinterpretazione) di tutti gli eventi storici nella loro successione, la definizione di una adeguata cronologia per ospitarli e concatenarli e una procedura di publicizzazione della cronologia stessa come esclusiva e totalizzante del passato, infine un sistema di comunicazione che consenta di imporla su larga scala.
Si può al riguardo sostenere che la storia come utensile della modernità è indisgiungibile dall’insegnamento collettivo della storia, perché è stato proprio lo sviluppo del pensiero storiografico nei secoli della modernità (soprattutto a partire dal ciclo 1775-1825 già preso in considerazione) e la centralizzazione del rapporto tra date ed eventi a costituire un formidabile sistema di omologazione-spoliazione del tempo individuale (e della memoria personale) rendendolo tempo-storia obiettivo, certo, vero e dunque memoria collettiva. Di più, “coscienza storica”, fondamento di identità attraverso il proprio rapporto col tempo e col mondo come ce lo offre il sapere storico. Di più ancora, un “tempo-storia sovrano”, totale. E’ la storicizzazione della realtà a rendere “storico” l’uomo e non il contrario. La storia non la fanno gli individui che tutti nascono a zero anni del loro tempo e della loro esperienza cognitiva, vivono la loro vita e narrano i loro personali eventi; la storia è il prodotto della cultura moderna e degli storici titolari delle tecniche di comunicazione e acculturazione al tempo storico. In questo senso, l’uomo moderno è un prodotto esclusivo e originale della storiografia e dell’uso pubblico della storia.
Come si vede un adeguato approfondimento del tema relativo all’uso pubblico della storia e alla memoria storica, potrebbe portare lontano e spingerci in un territorio (oltre i tradizionali confini disciplinari) ricco di emozionanti dibattiti; potrebbe spiegare il radicalismo antistorico di Nietzsche, o le battaglie di Popper contro lo storicismo, o quella di Gadamer contro la sovranità della coscienza storica e della storia. Ma per quanto attiene al tema centrale di queste riflessioni, l’identità dello storico nel clima culturale del nostro tempo, le considerazioni sull’argomento ora svolte ci riportano automaticamente alle parole di Marrou che ho posto in premessa. Gli eventi del Novecento hanno destabilizzato la struttura esplicativa, prescrittiva e monologica del sapere storico, smentito la Storia universale come processo totalizzante di innalzamento dell’uomo verso la sua emancipazione, detronizzato lo storico in quanto garante di una rigorosa saldatura tra passato e presente, giudice inappellabile del mutamento e, diciamolo pure, profeta dei tempi a venire. E infine hanno fatto dell’uso pubblico della storia e della professione dello storico uno dei luoghi privilegiati delle istanze critiche verso la modernità.
Storia, insegnamento della storia, memoria del passato (storico) è stata la sequenza forte del modello culturale praticato in Europa nei secoli della modernità; un modello votato al continuo superamento di se stesso; un movimento, trasformazione, mutazione o metamorfosi che sia, che può materializzarsi soltanto per effetto della ricostruzione del passato e del distanziamento da esso.
In funzione delle strategie di questo modello culturale, il ruolo, davvero prometeico, della storia è stato quello di certificare la verità di tutto il passato dell’uomo e per questo il compito non facile, ma fondamentale (perché è sociale, politico e morale insieme), dello storico è stato quello di investigare e dilatare il tempo presente, alla ricerca dei segni che lo costituiscono e consentono di distanziarlo rispetto al passato; di fare opera di manutenzione e di progressivo potenziamento della rete complessa di documenti, fonti e monumenti sui quali si fonda il riconoscimento dei fatti passati; di organizzarli infine in una linea cronologica che li renda veri, certi, realmente accaduti e tra loro strutturalmente connessi. Mediante questa “canonizzazione” degli eventi (e cioè la loro restituzione all’attualità e alla dimensione del presente) si è costruita la linearità del tempo storico e, per effetto di continui processi di acculturazione al linguaggio degli eventi, la “memoria storica” la quale altro non è se non il codice socialmente condiviso del comune passato, ciò che potremmo forse chiamare “identità storica”.
Una identità, forse solo ora lo intuiamo, precaria e fragile, effetto di un insieme di racconti infinitamente ripetuti e che agiscono su ciascuno di noi in relazione alle emozioni che suscitano e alla condivisione che di essi facciamo con gli altri. Un’identità tanto più incerta per effetto della mediazione comunicativa che gli storici ne fanno e del contesto nel quale essi stessi si trovano ad operare, degli strumenti mediatici di cui dispongono e della reale domanda del pubblico al quale il racconto degli eventi è rivolto. In questa prospettiva il tema del significato della storia, del ruolo degli storici, della loro stessa identità si coniuga perfettamente con la sequenza: storia, didattica e comunicazione; “memoria comunicativa”.
Quello su cui oggi occorre riflettere è, infatti, il dato evidente che, con il processo di globalizzazione planetario in atto, ci troviamo in presenza di una proliferazione incontrollata di eventi, di una pluralità di strumenti comunicativi, di una intensità mai vista nelle comunicazioni umane. Ci troviamo di fronte a una vera dilatazione spaziale dell’uomo a tutto svantaggio della sua dimensione temporale. A fronte di un generale processo di ridefinizione-trasformazione (ma sarebbe forse più ragionevole parlare di metamorfosi) della cittadinanza dell’uomo nel mondo oltre i confini delle storie particolari di comunità, etnie, stati, ceti e classi sociali, è ancora possibile un uso pubblico della storia come strumento di identità individuale? E’ possibile una memoria collettiva degli eventi storici costruiti e canonizzati da una storiografia prescrittiva, monologica, autoreferente a fronte di una emergenza e moltiplicazione degli eventi nel presente? E questo presente, quale passato può generare e tenere in vita? Quale storia, quale didattica e quale procedura di comunicazione possono consentire una memoria collettiva degli eventi storici?