Parte II – lezione 9
Politica, innovazione e cultura delle idee
Alla fine del secolo scorso la conoscenza cominciò a diventare la valuta più pregiata come lo era stata la terra nella società feudale o il capitale nell’economia industriale. Si concludeva così il ciclo della modernità il cui fondamento è stato, per almeno cinque secoli, la sequenza storia, politica, futuro. Nel presente, dominato dalla globalizzazione, si va affermando una nuova sequenza: collaborazione, organizzazione, innovazione. Parola onnicomprensiva di tutto quanto è novità, accelerazione, superamento dei confini tradizionali, innovazione è entrata nel lessico quotidiano, è divenuta merce comune e annuncia un nuovo modello di organizzazione sociale basato sulla conoscenza. È possibile coniugare politica e innovazione? Quali sono gli ostacoli, quali le opportunità?
Protagonisti, comparse e copione
La campagna elettorale infuria. Quale non importa, siamo in campagna elettorale permanente dei primi anni ’90. La centralità della politica di cui parlo a lezione come elemento centrale della modernità e fattore del suo successo, si è trasformata nella presenza oppressiva di chi fa politica o si mette in pista per farla e in una vera e propria occupazione culturale, un guerra di sterminio di ciò che è altro, alternativo, diverso. Non c’è neppure la speranza di una pausa, di un armistizio e di un “cessate le ostilità” in vista dei quartieri invernali. Dal confronto estenuante tra rozze ideologie, quelle di Peppone e Don Camillo, siamo passati senza soluzione di continuità a una sorta di genocidio del pensiero politico, un ideocidio. Lo certifica la lettura degli slogan elettorali personalizzati che imbrattano le strade delle nostre città.
Guaglianone: “libertà e passione”; Poffarbacco: “salute e tabacco”; Prosperino: “aiuta il tuo vicino”; Formigoni: “il presidente di tutti” (qui la rima non c’è perché è stata giudicata sconcia); Sarfatti: “un presidente senza misfatti”; Galleno: “pagherai di meno”; Adalberto: “io c’entro” (che vuol dire “io sto al centro”); Zappalà: “impegno e solidarietà”. Di questo popolo di candidati, che ci parla per slogan elettorali dai cartelloni pubblicitari, non sapremo mai nulla di più forse perché non c’è null’altro da sapere; e poiché i comizi elettorali hanno fatto il loro tempo, non sapremo neppure mai cosa pensano e se sanno parlare e pensare. Un gradino più su incontriamo, nel consueto zapping televisivo, i soliti noti: una tribù di un centinaio di leader che parlano esclusivamente tra loro e di loro. Più che una commedia, recitano un rosario in coro.
Coerenza, giustizia, onestà e libertà, sicurezza, legalità, parità e democrazia si intrecciano in un gioco di parole incrociate elementare e che la Settimana enigmistica rifiuterebbe. Sarebbe divertente raccogliere, con un po’ di metodo e a tappeto, le formule di presentazione che i candidati hanno scelto per la loro competizione pubblicitaria. Sarebbe divertente, ma non interessante, dicono i miei studenti; tutti sanno che questo genere di comunicazione, del tutto conformista, è a consumo immediato, dura lo spazio di un’occhiata, lo spasso ci un battuta e niente di più. Anche il tempo della politica è breve, istantaneo; ha preso le distanze dal passato (cioè dalla storia) che giustificava la coerenza, dava identità e sicurezza, fino al rischio della noia, e ha preso anche le distanze dal futuro capace di offrire la speranza.
Nulla più dello “spettacolino” televisivo (sono gli stessi attori che con disinvoltura lo definiscono così) e dell’incalzante presenza su quotidiani e periodici di protagonisti e comparse della politica, dà la netta sensazione di un radicale divorzio tra storia, politica, futuro. Quello a cui si assiste è l’imporsi di una galleria di ritratti, di maschere della commedia dell’arte pronte a recitare a soggetto anche se il copione, come accade in tutti i racconti popolari è sempre lo stesso; baruffe, piccoli intrighi, tradimenti e agnizioni, deus ex machina e così via. In scena ci sono tutti, Don Rodrigo, il conte Attilio, Azzeccagarbugli, Don ferrante, donna Prassede, Renzo, Lucia e l’Innominato… peccato che la gente non si diverta più. L’offerta mediatica dei prodotti culturali che giungono dal mondo vero è assai più allettante, vivace, e ricca. Come stupirsi di un declino, un oblio, un inabissamento della politica e di un suo progressivo abbandono da parte dei giovani?
Il linguaggio della politica procede per allusioni, messaggi trasversali, richiami autobiografici, codici da decrittare. In genere non si capisce, ma quando si capisce si resta delusi per la sostanziale assenza di pensiero, di idee originali che vadano oltre la banalità dei luoghi comuni.
Però delle costanti, delle parole forti e un appello alle idee del nostro tempo, non mancano neppure nel teatrino della politica. Nell’oceano di slogan e di parole che squassano i malcapitati osservatori vi è un insieme robusto di luoghi comuni presi a prestito dal mondo di fuori. È un convoglio semantico trasversale, unifica tutti i partiti e i candidati, pervade tutte le coalizioni e le omologa. Le espressioni ricorrenti che attraversano il pensiero politico (si fa per dire) e sorreggono il lessico e la comunicazione del ceto parlamentare in perenne sovraesposizione verso i media, sono prevalentemente importate dal linguaggio economico aziendale. Ripresa, rilancio, mercato, riorganizzazione, ristrutturazione, occupazione, risorse, sostegno, incentivi, competitività, produttività costituiscono, sotto la crosta degli eventi della cronaca quotidiana, lo zoccolo duro dell’approccio al consenso, esplicitano il senso stesso di fare politica.
Tra tutte queste parole in libera uscita, vi è poi è una parola-idea che sembra riassumerle tutte, intrecciarle e risolverle, per effetto alchemico, in un unico sviluppo coerente di pensiero; questa porla magica è “innovazione”. Quando poi si coniuga con l’espressione “piccola e media impresa” (PMI per chi è del giro), la parola innovazione assume infine un che di esaustivo, sacrale e profetico insieme; annuncia quasi una rifondazione del sapere politico con la stessa forza che un tempo era affidata a patto sociale, sovranità, lotta di classe; ha la forza di una utopia definitivamente svelata. Il fenomeno è di tale portata che merita qualche approfondimento.
Innovazione e cultura delle idee
Nel corso di poco più di un decennio la parola innovazione è divenuta di uso comune e sta sulla bocca di tutti. Che cosa mia significhi è un problema che neppure si pone perché superato dall’uso stesso che se ne fa: la parola si spiega da se e si giustifica da sola. Nel lessico quotidiano sta forse a indicare un mutamento in meglio, inspiegabile, ma per certi aspetti ineluttabile, necessario. È sorretta da un sentimento di attesa e speranza insieme; tradisce il desiderio che le cose cambino, che in qualche modo si vada avanti lungo un sentiero apparentemente interrotto. Insomma speranza di futuro e progresso insieme, di svecchiamento rispetto a un passato e a un presente che non piace, che non offre novità. Nel comune sentire questo vocabolo “forte” propone una rottura non solo con il passato, ma anche con il presente immobile sull’orlo del passato e che da questo rischia proprio di essere inghiottito. Innovare designa una serie di azioni e comportamenti che vanno ben oltre il linguaggio economico e aziendale. Innovazione e creatività sembrano fatte di una sostanza comune. Innovativo è un aggettivo che si applica a tutti gli oggetti che sono nuovi e diversi per qualità. Sul piano dei comportamenti si confonde don tutto ciò che “fa tendenza”, che si deve inseguire. Certo innovazione è figlia dell’idea di progresso e si connette all’emergenza del progresso scientifico e tecnologico che caratterizza il nuovo ciclo del postmoderno.
Nel suo significato confuso e incerto, ma in forza della sua crescente diffusione, il vocabolo è divenuto patrimonio privilegiato del linguaggio politico elettorale casereccio, una formula retorica alla moda senza la quale lo stile politico non c’è. Così, in luogo di una politica nuova, figlia di quella vecchia, si promette una politica “innovativa” e dunque “creativa”; un programma di governo non è più nuovo rispetto a quello che lo ha preceduto, bensì “innovativo” e di rottura rispetto al passato. Da quando poi l’ombra di un declino del Sistema paese si è stesa sul sistema politico stesso, innovazione è divenuta la panacea per ogni ricetta di risanamento, rivitalizzazione e rilancio. Quale uomo pubblico e quale candidato elettorale oserebbe sottrarsi all’uso taumaturgico di questo vocabolo così presente nel comune linguaggio e così ricco di positive emozioni? Ma, proprio per questo, il ricorso al concetto di innovazione è del tutto ingannevole, lo svaluta e ne deprime la forza; genera e equivoci.
In realtà, al di là della retorica elettorale e dell’uso approssimativo che se ne fa, il concetto di innovazione è nuovo davvero, rivoluzionario per certi aspetti, e sta ad indicare una inattesa attitudine dello spirito umano, un nuovo approccio alla conoscenza, nuovi criteri di socialità, processi di sviluppo imprevisti e inediti che caratterizzano e certificano il superamento stesso della modernità. Scende in campo contro le ideologie, si intreccia con un dibattito vero e profondo sul rapporto tra scienza e tecnica che ha dato vita a un ibrido fecondo: le tecnoscienze, ovvero i nuovi saperi. Segna un nuovo corso della conoscenza e della socialità.
È stato Schumpeter, agli albori del XX secolo, ha introdurre in modo stabile il vocabolo e il concetto di innovazione nell’alveo del linguaggio economico, e forse sarebbe meglio dire nell’ideologia del capitalismo. Per l’autore “innovazione” stava a significare l’incremento della produttività conseguente all’utilizzo di nuove tecniche e tecnologie, e più o meno è questo il significato che il termine ha mantenuto fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Nell’intuizione schumpeteriana l’idea configurava un’azione complessa, un processo inteso come fortunata (imprevedibile) combinazione di risorse per lo sviluppo e il successo dell’impresa, e cioè procedure nuove nella realizzazione di un prodotto o di un processo di produzione, nell’accesso a nuovi mercati e all’uso di materie prime, nell’organizzazione all’interno dell’impresa industriale. La capacità di generare e guidare questo processo costituiva poi il carattere specifico della “cultura imprenditoriale”. Una cultura della complessità e dell’organizzazione insieme, aperta alle novità del pensiero scientifico e in grado di coniugare la sequenza forte della modernità economica: invenzione, innovazione, diffusione. In altri termini sviluppo tecnologico come ragione di crescita a partire dalla centralità dell’impresa industriale, quindi privilegio dell’imprenditore-capitalista nell’accesso, uso e valorizzazione della conoscenza.
A partire da questa prima fondazione teorica, il concetto di innovazione ha percorso la cresta dell’onda dell’emergenza tecnologica del secolo scorso; ha dato forza e legittimità alla cultura imprenditoriale; ha assicurato, nel paesi occidentali ad economia capitalistica, il primato dell’imprenditore nella gerarchia sociale; si è affermata come una nuova attitudine alla cultura del fare. Poi, con l’avvio dei processi di deindustrializzazione e la crisi del modello classico dell’economia industriale, questo motore del progresso e dello sviluppo ha conquistato nuovi territori.
Oltre i confini dell’economia, l’innovazione è stata rappresentata come un “mantello” per coprire una vasta gamma di processi attraverso i quali le tecnologie dell’uomo evolvono nel tempo (Nelson, Winter). Tecnologia e innovazione sono apparsi allora sinonimi per designare un nuovo modello di cultura imprenditoriale, quello manageriale, che con il manager, appunto, ha sostituito l’imprenditore-capitalista. In questo mutato quadro, l’innovazione sembra coincidere con la capacità di risolvere i problemi complessi che lo sviluppo impone mediante l’appropriato uso della tecnica e delle tecnologie. Un passo più in là e l’innovazione si è trasferita dal campo dell’impresa a quello ben più vasto del sociale, “l’innovazione sociale” (Gershuny), per confondersi con il mutamento indotto dalla tecnologia e dalle tecnoscienze sul complessivo delle attività umane. L’idea di impresa ha assunto così il significato più ampio di organizzazione il cui fine è lo sviluppo del sistema sociale. Più di recente, l’Unione europea ha definito l’innovazione l’aumento di produttività, nell’impresa e nel sociale, conseguente al buon uso delle risorse umane e delle tecnologie. Un punto di arrivo, ma anche un punto di svolta.
È in virtù di questo percorso espansivo che, nel corso del ultimi quindici, venti anni, l’innovazione è divenuta una parola chiave per designare il modello stesso di un nuovo corso epocale della civiltà umana, il superamento dei confini delle società tradizionali e della modernità stessa. Un punto di svolta che fa della conoscenza la valuta più pregiata di un modello di società: la “società della conoscenza”, nella quale il monopolio del sapere non è più un’area protetta e i tradizionali rapporti della modernità tra potere e sapere vengono in forza di una espansione incontenibile del pensiero e dell’accelerazione nella produzione (e nel consumo) delle idee.
Si assiste così a un rovesciamento del paradigma classico del pensiero occidentale dei secolo XV-XX. La sequenza storia (conquista e umanizzazione del tempo), politica (governo e organizzazione del tempo), futuro (inteso come territorio di naturale espansione di storia e politica), cede il posto a un nuovo modello di cultura fondato sulla sequenza: innovazione (e cioè “nuovo” come categoria in se, un prodotto autonomo del pensiero), collaborazione (competizione/integrazione nella produzione del pensiero e visibile segno dell’amicizia tra gli uomini), organizzazione (intesa come sistema di tutela e valorizzazione della collaborazione).
L’innovazione diviene così l’idea, la bozza, il progetto, il modello di un nuovo e migliorato strumento, prodotto, processo, sistema di produzione/trasformazione della realtà (Freeman); diviene un’idea dell’uomo e della società in costante rapida evoluzione per effetto dello scambio tra scienza e tecnica, saper essere e saper fare, beni materiale e immateriale. Cosicché all’età moderna sembra sostituirsi, nel comune sentire, un’era dell’innovazione e questo nuovo ambiente generare, a sua volta, sia un nuovo modello antropologico l’homo complexus (Morin) o l’homo tecnologicus (Longo), sia una nuova cultura: “la cultura delle idee” (Negoroponte). Come si è detto, aspettativa del nuovo, di mutamento istantaneo, metamorfosi, accelerazione, rinuncia ai tempi immobili del passato e a quelli inafferrabili del futuro.
La novità delle idee.
Che vi è di nuovo in una “cultura delle idee”? La sua novità; il fatto cioè che le idee vengano generate attraverso procedure non tradizionali e in un laboratorio privo di rigorosi statuti, gerarchie, ordini di servizio. Per effetto della centralità della conoscenza che la cultura occidentale ha proclamato fin dalle sue origini umanistiche e rinascimentali, la “cultura delle idee” può apparire un dato scontato, un dogma e un canone del tutto acquisito; ma, a ben guardare, non è così. Non è così dal punto di vista nel quale noi ci collochiamo alle soglie del Terzo millennio.
Nel corso dei secoli della modernità le idee sono state catturate da apparati ideologici, imprigionate da gerarchie e da una amministrazione del “pensiero compatibile” con i programmi politico istituzionali di sviluppo delle organizzazioni sociali. Le tecniche di produzione del pensiero sono state, per secoli, affidate al graduale sviluppo delle istituzioni educative fiere innanzitutto della loro immutabile tradizione (conventi, scuole. Università). La fedeltà ai programmi e ai cicli di studio consolidati dalla tradizione, il cui obiettivo formativo era innanzi tutto il controllo e la promozione della mobilità sociale, hanno fatto di queste istituzioni i luoghi di eccellenza della classe dirigente. Poco o nulla di più. Sul piano della comunicazione, le idee, così prodotte e filtrate, erano affidate all’arte delle lettura e della scrittura anch’esse riservate a un ristretto pubblico di chierici. A voler essere onesti, la storia delle istituzioni educative e di ricerca tra il XV e il XX secolo è la storia di una alleanza tra potere e sapere che ha generato un ordine e una gerarchia pesante, tendenzialmente autoreferente, fortemente corporativa. E il perché lo si capisce bene: se il pensiero è la risorsa essenziale della specie homo sapiens e la ragione del suo sviluppo evolutivo, il controllo della produzione di idee è un fattore strategico dell’ordine sociale. Per questo, e non per altro, la cultura della modernità ha ridotto la produzione del pensiero a “ideologia” e cioè a sistemi semplici, e necessariamente rigidi, di controllo delle attività creative.
In realtà, imprigionato nell’alveo delle ideologie, il libero pensiero ha durato fatica ha trovare il suo diritto di cittadinanza nei secoli della modernità e sarebbe interminabile l’elenco di scienziati, artisti, filosofi e intellettuali abbandonati ai margini delle istituzioni culturali e di ricerca lungo tutto il corso dell’avventura del pensiero occidentale. Lo certifica l’insieme di isolamenti, censure e scomuniche che hanno accompagnato la prima rivoluzione scientifica. Per riproporre il titolo di classico della storiografia, “il prete, la donna e la famiglia” (Michelet), ma certo anche lo storico, hanno assicurato, tra il XV e i XIX secolo gli argini alquanto solidi della produzione e diffusione delle idee. E quando i philosophes hanno rivendicato il libero accesso alla conoscenze, l’ospitalità e il diritto di parola li hanno trovati nelle Accademie e in nuove reti di solidarietà ben lontane dalle Università e da queste vivamente osteggiate.
Letta in questa prospettiva, l’epopea della cultura illuministica altro non è che una battaglia campale per la libertà di esplorare nuovi territori dell’esperienza e del sapere senza vincoli imposti dalla ritualità della tradizione. Nessuna opera più dell’Encyclopédie raisonnée des atrs et des metiers ci restituisce intatto il senso di una avventura intellettuale all’insegna della libera collaborazione tra esperienze e discipline che fa dell’immaginazione il livello più alto dell’esperienza conoscitiva. La cultura come intrapresa collettiva e sfida del presente (del “qui e ora”), come accettazione senza riserve del rischio e di tutto quanto è nuovo come imprevedibile e inatteso, la troviamo già lì; vi troviamo in nuce la fondazione di una società della conoscenza costruita sulla sequenza collaborazione, organizzazione e innovazione. E forse di lì occorre partire per illuminare, appunto, una “cultura delle idee” come sinonimo, nel nostro tempo, dell’idea di innovazione.
La storia e la sociologia della cultura, del resto, si costruiscono a partire dalle “rivoluzioni culturali” e cioè da quei movimenti di rivendicazione di un pensiero alternativo alla cultura celebrativa dei valori dominanti che potremmo definire canonica e istituzionale. Lo scienziato nel XVI secolo, l’homme de lettres nel Seicento, il philosophe nel Settecento e l’intellettuale nel XIX secolo sono figure sociali (e non professionali) che hanno dato vita a culture parallele (o controculture) rispetto agli apparti tradizionali, e politicamente legittimati, di produzione (ma meglio: riproduzione) del sapere. Hanno creato nuove reti di comunicazioni e nuove ragioni di collaborazione in seno a organizzazioni alternative rispetto a quelle ufficiali.
Per gli autori dell’Encyclopédie il sapere si configura, infatti, come un che di plastico e sfuggente, un “labirinto” (D’Alambert), che rinnova l’albero genealogico del sapere dotato di solide radici e apre uno spazio della scoperta e dell’avventura; insomma come un pellegrinaggio nell’universo instabile delle conoscenze, come il viaggio in un planisfero “che mostra i principali paesi, la loro posizione, la loro reciproca dipendenza, il cammino in linea retta che vi è dall’uno all’altro, un percorso spesso interrotto da mille ostacoli che non possono essere noti se non agli stessi abitanti e ai viaggiatori e che non possono essere svelati se non da carte ancor più particolareggiate”. Diremmo oggi un sistema aperto, un cammino tortuoso, un approccio sistemico verso tutto quanto è incerto e diverso; un viaggio che comporta l’accettazione del rischio di imprevedibili approdi.
Nel corso del XIX secolo, per fronteggiare il rischio di una espansione davvero rivoluzionaria (imprevedibile e ingovernabile) delle idee, la risposta della modernità è stata la costruzione di sistemi di pensiero chiusi (le ideologie), fortemente coerenti e tra loro in conflitto/equilibrio permanente. Il patto tra potere e sapere è stato ricostruito su basi più rigide fino a divenire totalitarie. La sequenza storia, politica, futuro si è ulteriormente rafforzata e anche l’idea di rivoluzione è divenuta un canone rigido, un paradigma accademico per assicurare al potere un controllo e una programmazione del “pensiero compatibile” allo sviluppo storico. Gli effetti di questa particolare modalità del patto tra potere e sapere nel corso del Novecento sono sotto gli occhi di tutti. Il XX secolo ha rigorosamente rispettato, ed esasperato le clausole, del patto tra potere e sapere fino alla sua effettiva dissoluzione: il 1989, data limite che segna la fine del pensiero ideologico e quella della modernità come modello di cultura (eurocentrico e antropocentrico) dominante.
Cosicché, alla luce del presente, potremmo forse leggere le “rivoluzioni culturali” che hanno segnato il corso della modernità e fanno il ritmo della storia della cultura occidentale, come altrettanti tentativi di sfondamento del rigido cerchio tra storia, politica, futuro verso un modello di cultura più instabile, ma certo più fecondo, incurante della linearità del tempo e dell’obbligazione di una sua colonizzazione. I rigidi apparati ideologici, e cioè la riduzione delle idee in sistemi semplici, e per ciò stesso governabili dal potere, hanno in realtà ridotto il potenziale operativo del pensiero umano. In questo senso “ideologia” e “cultura delle idee” si contrappongono e si escludono reciprocamente. Poi la “morte delle ideologie”, così declamata nel corso della seconda metà del Novecento, ha nei fatti inaugurato un nuovo corso del sapere, una svolta.
Ora infatti accade che le grandi esplosioni della seconda metà del novecento, quella atomica, quella biologica e quella informatica, abbiano dato luogo a una nuova rivoluzione culturale, un nuovo modello di cultura è in essere, abbiamo girato pagina rispetto al ciclo lungo e glorioso delle modernità. Nel corso degli ultimi quindici venti anni le conoscenze cumulate sono di molto superiori a tutta l’esperienza e il sapere prodotto fin dalle origini dell’uomo. Il sapere, liberto dei suoi vincoli di spazio (l’Occidente europeo) e di tempo (la storia universale di matrice ottocentesca), è divenuto la merce più preziosa, la risorsa essenziale della specie e rivendica la sua centralità nell’organizzazione umana in quella che tutti definiamo come il nuovo modello della “società della conoscenza”. E questo nuovo ambiente dominato dalla libera produzione del pensiero e dalla incoercibile circolazione delle idee ha, nei fatti, disgregato la sequenza forte dei secoli della modernità (storia politica, futuro) e rovesciato il patto d’acciaio tra potere e sapere che ci ha governato fin qui. Quello che l’osservazione della ricerca scientifica e tecnologica del presente ci insegna è che il sapere non accetta più vincoli, né condizionamenti e che solo la conoscenza può governare se stessa e dettare da se le regole di un “saper compatibile” con lo sviluppo della specie. Forse è il punto di arrivo, quello finale e apocalittico dell’evoluzione (…), ma il pensiero e il libero accesso alle conoscenze hanno fatto massa critica, modificato le ragioni della socialità e persino la natura umana, il processo evolutivo della specie. L’esperienza della rivoluzione scientifica in corso offerta dalle tecnoscienze insegna che il sapere è innovazione e cioè produzione incessante di idee che per effetto della collaborazione tra ricercatori e di nuovi modelli organizzativi diviene “cultura delle idee”.
Collaborazione, organizzazione, innovazione. Questa nuova sequenza appare costitutiva del mondo attuale, ma esprime anche una nuova dimensione del sapere come libera sfida individuale, ragione fondante dell’amicizia tra gli uomini, dunque tolleranza, accettazione della diversità e insomma nuovi ordini e orizzonti del potere, nuove soglie della democrazia.
Perché uno dei fondamenti di un buon sistema di innovazione, solo ora ne prendiamo piena coscienza, è proprio l’accettazione della diversità, del rischio confronto e del dialogo. Più una cultura è forte, che sia essa nazionale, istituzionale, generazionale, accademica o altro, e meno si presta ad accogliere il nuovo come un evento inatteso, una scoperta. Credenze condivise e ben radicate, norme largamente diffuse, standard di comportamento e di procedura sono i nemici dichiarati del libero gioco delle idee. E una società che si vanta della propria omogeneità e armonia interna appare ormai molto restia ad accettare, nel suo seno, quella cultura delle idee che sorregge il vento dell’innovazione. L’innovazione e la cultura delle idee si sono affermate contro il peso della storia che prometteva il governo del futuro, semplicemente hanno materializzato il futuro, lo hanno reso vero, fruibile, “qui e ora” nel presente. È proprio questo il comune sentire in merito all’idea di innovazione che caratterizza il nostro tempo, produce il nuovo sapere e raccoglie l’aspettativa della giovani generazioni verso una società della conoscenza.
Naturalmente l’emergenza e l’espansione di questa nuova metafora, il nuovo come innovazione, per indicare il mondo nel quale viviamo è del tutto connessa con il processo di globalizzazione del XXI secolo. Mette in conto i processi di confronto e integrazione tra culture, le mutate relazioni con una pluralità di ambienti, di ecosistemi e di ecoculture. Si fonda su tecnologie e reti di comunicazione che creano nuove dimensioni di tempo e spazio ignote al pensiero occidentale. Archivia le tradizionali opposizioni, troppo rigide e pesanti, tra vecchie e nuovo, antichi e moderni, sapere scientifico e umanistico, prima e dopo e poi ancora vecchio e nuovo. Cedono alla creatività il posto che un tempo spettava al metodo. Poiché viaggia nella dimensione digitale e nella cybersfera l’innovazione non ha luogo, non nazionalità e non appartiene alla geografia politica della modernità; poiché la sua velocità si misura in nanosecondi, l’innovazione non ha tempo e non ha storia nel significato che la modernità attribuisce al tempo umano.
Il brodo di coltura dell’innovazione, in un paradigma che esaspera le diversità, sembra materializzarsi in processi flessibili di collaborazione che a loro volta generano organizzazioni dedicate e, se non alternative, almeno concorrenti con le situazioni di riproduzione, manutenzione del sapere tradizionale. Gruppi di ricerca, centri di eccellenza, scoperte e invenzioni sembrano trovarsi a loro agio nell’incertezza di ciò che è momentaneo e non necessariamente coerente.
Una “mutata” attitudine conoscitiva caratterizza la “cultura delle idee” e probabilmente può essere spiegata proprio dalla “novità” di tecnoscienze fresche di una ventina di anni, non di più. Tra queste le neuroscienze hanno invaso il campo della psicologia, si intrecciano con la scienza cognitiva e rivendicano il ruolo guida che un tempo era della filosofia e della storia: la spiegazione del segreto stesso del sapere, del significato del contenuto di tutto ciò che chiamiamo idee.
Che cosa sono le idee?
Idea (dal greco idein : vedere) ha significato fin da subito nel pensiero occidentale ciò che è intelligibile, tutto quanto, al di là e al di sopra dei sensi, si può percepire, vedere, spiegare. Fino ad un tempo non molto lontano, le idee sono state connesse all’attività psichica e hanno certificato la presenza dell’anima come segno esclusivo dell’umano e quasi una stilla di divinità che assicura una sorta di immortalità all’individuo oltre il suo ciclo biologico. Da sempre, idee, psiche, anima, coscienza sono state territorio di caccia esclusivo delle scienze umane, quasi non fossero oggetto delle scienze naturali. Ma questo orizzonte metafisico, religioso e teleologico della natura umana connesso alla capacità di produrre idee e pensiero, sembra oggi in via superamento. Nulla di definitivo, perché appunto ancora una definizione univoca non c’è. Tuttavia genetisti e neurologi collaborano ormai attivamente con il supporto di tecnologie informatiche per definire i rapporti tra il cervello e la mente al fine di stabilire cosa sia la coscienza e quali processi biochimici realizzino quelle sequenze di astrazioni/emozioni che sono appunto le idee costitutive del pensiero umano. E già sappiamo che il mistero del profondo si può affrontare con la ricerca empirica e con esperienze di laboratorio. L’indagine è solo agli inizi perché il pensiero e la coscienza sono certo uno dei massimi enigmi della vita, la tappa finale della biologia e della filosofia insieme; inoltre il cervello è probabilmente il pezzo più complicato dell’intero universo.
Si tratta dunque di un cantiere di ricerca destinato a non avere mai fine in primo luogo perché questo sapere umano si trova nel paradosso di decifrare, senza le mediazioni di alcun artificio retorico, il suo stesso mistero; in secondo luogo perché l’impresa nasce all’insegna del paradosso e questo paradosso consiste nel fatto che la scienza non è una forma di conoscenza definitiva per sua stessa natura (è semplicemente un “ricercare”) e non può dunque, come tale, approdare all’onniscienza. Scienza e onniscienza si escludono automaticamente.
Ma, fatte queste premesse, un risultato sembra per ora essere acquisito: le idee sono un prodotto dell’attività cerebrale e quindi parte di un patrimonio genetico risultato del processo evolutivo. Noi dobbiamo al cervello sia il pensiero che i sentimenti. Mente e psiche dell’uomo sono il risultato di processi biologici complessi e sulla base delle esperienze di laboratorio e delle conoscenze disponibili non è possibile separare mente e psiche dall’attività cerebrale. È il cervello il centro della nostra personalità e dell’io, e le teorie in base alle quali mente e anima, pensiero e coscienza potrebbero avere un tratto di immortalità in quanto frutto di un intervento esterno al processo evolutivo, non trovano conferma alla luce dell’esperienza scientifica. In definitiva è la vita, il bios, intesa come un insieme di processi di replicazione e trascrizione del DNA che genera il pensiero e le idee come patrimonio genetico della specie homo sapiens.
Sappiamo ormai che gli elementi costitutivi del cervello (neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori, ricettori, gliociti e quant’altro) lavorano in rete e danno vita a un immenso sistema di comunicazioni nel quale miliardi di cellule (diciamo cento miliardi) si scambiano istantaneamente (l’unità di misura è quella del millesimo di secondo) diversi bilioni di messaggi in un linguaggio fatto di impulsi elettrici e chimici. La metafora più appropriata per cogliere questo opificio comunicativo è quella di un alveare o di un formicaio di miliardi di individui governati da un programma prodigioso che per ora sfugge alla nostra esperienza e immaginazione. Un passo più in là e potremmo fare ricorso alla metafora di internet la cui utenza di miliardi di soggetti produttori di idee, immagini, azioni, agisce secondo una logica di sistema che consente a tutti di collegarsi con tutti come appunto in un sistema nervoso; una rete il cui prodotto finale è uno solo, lo scambio e la produzione delle idee.
Oggi sappiamo anche molto di più sulla distribuzione delle funzioni nelle varie parti dell’organo che custodisce il segreto della nostra coscienza (….). Le neuroscienze hanno, in qualche modo, localizzato le aree responsabili delle sensazioni e dei sentimenti ( quelli affettivi a quelli religiosi) e i processi chimici che li attivano, anche se il progetto di realizzare una mappa completa del cervello umano rimane un’ambizione inappagata. La complessità del meccanismo rimane proibitiva e siamo solo alle soglie, forse neppure ai confini, del vero territorio da esplorare. La genesi del pensiero e delle idee rimane un semplice obiettivo, un’ipotesi di programma.
Anche perché questa infinita complessità comunicativa si complica ulteriormente in relazione al fatto che le idee e il pensiero sono esse stesse frutto di ulteriori reti comunicative. Quella del cervello con il corpo e il suo patrimonio di organi, cellule, programmi e procedure di funzionamento, e infine di tutto questo con quanto è estraneo al soggetto: il mondo “reale”, gli atri soggetti a loro volta fatti di corpi, cervelli e menti. Le idee infatti sono anche e forse soprattutto la base essenziale per costruire quei sistemi di comunicazione fondati su quei strumenti condivisi (il linguaggio nel suo più ampio significato e in tutte le sue implicazioni) che chiamiamo cultura. E poiché la cultura, con la comparsa dell’homo sapiens, è stata l’elemento di novità nel mondo naturale e ha avuto una funzione decisiva nei processi di selezione, essa è, a sua volta, responsabile della struttura del cervello così come le neuroscienze oggi lo affrontano. “La forza che sembra aver accelerato il nostro accrescimento encefalico è uno stimolo di tipo nuovo: il linguaggio, il sistema dei segni, la memoria collettiva tutti elementi della cultura. Evolvendosi la cultura si evolveva il cervello che, a sua volta, portava la cultura ad arricchirsi di elementi sempre più complessi. Cervelli più voluminosi e dotati di maggiori potenzialità condussero a cultura più complesse, queste, a loro volta, fecero sì che il cervello crescesse e migliorasse” (Wills). Insomma un cerchio virtuoso di complessità infernale o divina a seconda di come la si voglia affrontare.
Non occorre andare più in là per cogliere il vento di novità che questo ciclo inatteso della rivoluzione scientifica in corso, porta alla nostra conoscenza in tema di pensiero e produzione delle idee. Crollano mitologie millenarie, convinzioni radicate vengono messe in crisi e la storia della cultura umana deve forse essere riscritta da cima a fondo.
Quanto si è accennato basta per cogliere la natura, indisciplinata, imprevedibile, tortuosa e conturbante del prodotto più esclusivo della nostra natura: il pensiero. Le idee sono una produzione spontanea, incontenibile. Sono nuclei di immense reti sistemiche, prodotti forse solo in apparenza immateriali e funzioni comunicative che si muovono in base a leggi ancora ignote, ma certo ad altissima velocità; nel loro scambio creano la realtà e i codici di comportamento che la rendono percepibile ai sensi. In certo senso le idee sono materia vivente, evolvono, si modificano e deformano istantaneamente e di continuo, sia in forza dello scambio comunicativo interno all’organismo biologico che le produce, sia in relazione al compito che svolgono nel contatto con l’universo esterno al soggetto. Sono un dialogo interiore e la ragione di fondazione dell’humanitas.
Il loro governo e la loro messa sotto tutela, per effetto di selezioni, filtri, censure e rimozioni, è innanzi tutto un’azione posta in essere dalle stesse funzioni cerebrali che ne sorvegliano l’impatto nei confronti dell’efficienza corporea, dell’identità e della coscienza di se. E ciò che chiamiamo “cultura” è il risultato sofisticato di una organizzazione e governo nella produzione di idee, la loro riduzione a “sistema compatibile” di tutela della specie; in questo senso ogni cultura pone necessariamente limiti alla libertà del pensiero. Al pari di ogni modello culturale, la modernità ha dato un ordine e posto dei vincoli alla libera circolazione delle idee e, per quanto ciò possa sorprendere, si direbbe che finora solo timidamente sono state violate le frontiere della conoscenza.
Oggi però, mentre si comincia a svelare il segreto della loro genesi, il loro controllo diviene vieppiù impossibile. In un universo comunicativo dominato e promosso dall’impatto tecnologico e dilatato in quantità e qualità oltre ogni possibile previsione e in tempi tanti rapidi come quelli del pensiero stesso, le idee, insieme alla conoscenza, divengono merce comune e patrimonio equamente diffuso; e ora, più che mai in passato, la libertà di pensiero si impone come una ragione di sopravvivenza delle organizzazioni umane.
La “cultura delle idee”, espressione che si giustifica e si spiega in opposizione a “ideologia”, altro non è dunque che il progetto ancor vago e avventuroso di un nuovo modello di cultura consapevole della complessità del pensiero e del suo impatto nel mondo di cui si fa specchio. Si tratta di un codice che pone al centro dei suoi imperativi (valori, mitologie, segni e simboli, istituzioni, ideologie), non più e non solo l’uomo come prodotto della modernità (di storia, politica e futuro) e del pensiero occidentale, ma la conoscenza dell’uomo in quanto produttore di idee e quindi di una organizzazione adeguata a questo nuovo modello antropologico. Il che oggi si declina abitualmente con l’espressione: “società della conoscenza”.
Globalizzazione e cultura delle idee.
Per dare fondamento all’uomo della modernità, Pico della Mirandola aveva invocato la pace della discipline, la collaborazione dei dotti e una dedizione alla conoscenza che fosse il segno distintivo della “dignità dell’uomo”. Ne Il dialogo dei massimi sistemi Galileo vagheggiava una “Città della scienza” i cui abitanti si sarebbero potuti riconoscere sulla base delle loro conoscenze, senza artificiose barriere di religione, razza, persino di genere. La Republique des lettres è stato il sogno, in parte realizzato dai philosophes del XVIII secolo, di una esclusiva socialità tra uomini tutti virtuosi e amanti della verità. Ancor oggi si usa l’espressione “comunità scientifica” per indicare la condizione ideale di una vita di relazioni sociali fondata sull’intrapresa della conoscenza. Ma la “società della conoscenza” e la “cultura delle idee” che la realizza, promettono di essere tutto questo insieme e qualcosa di più. Anzi la cultura delle idee è proprio il risultato di un crollo delle mura e dei confini di queste utopie, non ne costituisce il superamento, ma segna un corso diverso dell’attitudine alla conoscenza, una diversa geografia del sapere, una inattesa, e forse ingovernabile, espansione.
Chi osserva attentamente la grande svolta del pensiero scientifico e dell’innovazione tecnologica, non può non rendersi conto di come gli aspetti più creativi del pensiero umano abbiano travolto le istituzioni tradizionali del sapere, i loro rigidi apparati disciplinari, le gerarchie (nel caso del nostro Paese “geriatrie”) di potere delle organizzazioni. E questo è il risultato di una nuova dimensione del tempo e dello spazio della cultura che chiamiamo globalizzazione, termine sul quale, in questo contesto, un chiarimento si impone.
Globalizzazione, parola anch’essa inflazionata e divenuta merce comune, è al pari di innovazione, fresca di poco più di vent’anni. La parola ha preso da tempo il largo rispetto al suo originario significato di libera e incontrollabile circolazione dei capitali finanziari (e delle merci) alla quale era saldamente ancorata. Oggi ha preso forza e indica un nuovo ambiente della civiltà umana, un suo tessuto unitario e finalmente davvero planetario. In questo senso, a tutta prima può ingannare perché richiama alla mente un concetto caro alla cultura occidentale fin dalle sue radici (la nascita stessa della “filosofia” come sapere esclusivo dell’Occidente) che precede, accompagna e attraversa l’esperienza della modernità: quello di totalità, universalità, ricerca del primo e unico principio, insomma del Vero e della Verità.
E tuttavia universalità e globalizzazione non hanno alcuna sostanza comune, non sono generi della stessa specie, non appartengono alla stessa catena evolutiva. Globalizzazione non si coniuga con universalizzazione, anzi la contraddice e le si oppone. L’una è dotata di forza centrifuga ed espansiva, l’altra di forza centripeta. L’idea dell’universale e del Vero è sorretta da quella della riduzione all’uno, dell’assorbimento del molteplice nella totalità, del plurale nel singolare. Quella di globalizzazione implica confronto, apertura, disponibilità al superamento dei confini, dispersione. Sul piano del sapere storico, “Storia universale” sta a significare la riduzione lineare del tempo e la sua capacità di assorbire ogni discontinuità, dominare e dare ordine gerarchico a tutti gli eventi: è un racconto epico. La storia “globale” appare invece quella nella quale le azione umane nel loro intreccio con l’ambiente prevalgono sul tempo e generano il “presente storico” (…); questo genere di storia è un laboratorio della socialità. La riduzione del sapere alla sua universalità implica il sogno realizzato di un unico sapere, quello giusto e definitivo, concluso in se. Un processo di globalizzazione del sapere sembra invece dover mettere in conto pluralità di approcci, aggregazioni sistemiche, disponibilità al dialogo, rapidi processi di rinuncia e di oblio, apertura all’imprevedibile e ingovernabile. L’aspirazione all’universalità è figlia di una ambizione mai sopita del pensiero della modernità di giungere al capolinea di un mondo governato dai filosofi. L’idea di globalizzazione si coniuga con una società della conoscenza in cui il cittadino è un avventuriero capace di navigare il mare dell’incertezza.
Così, nel clima della globalizzazione che le è congeniale, la “cultura delle idee”, sembra essere una cultura molto eterogenea disponibile a premiere (o semplicemente incoraggiare, tollerare) coloro che la promuovono e la praticano, perché hanno la capacità di guardare ogni cosa da punti di vista differenti. L’esperienza della modernità, che a questo punto possiamo anche definire la cultura “tradizionale”, è stata quella di concepire le acquisizioni dell’avventura umana come entità fisse sospese nel cielo platonico delle idee, come patrimonio acquisito da mettere a rendita, imporre universalmente nei successivi processi di colonizzazione imperiale del sapere occidentale (processi che oggi chiamiamo appunto di “modernizzazione”). Al contrario, le conquiste del pensiero oggi non ci appaiono rigide e fisse, ma realtà viventi in trasformazione incessante, il cui valore è in una incertezza che non consente rendite di posizione, ma stimola all’investimento per conseguire profitto inteso come necessario adattamento evolutivo. Nell’impresa tecnico scientifica, quel che fa il marchio di qualità, sembra essere la combinazione, anche momentanea, della diversità di idee, paradigmi culturali, personalità e identità. È proprio il libero uso del pensiero e l’intreccio delle idee a generare il presente e a materializzarlo istante per istante nella sua novità.
Cosicché uno dei fondamenti di un buon sistema di innovazione, solo ora ne prendiamo piena coscienza, è proprio l’accettazione della diversità, dell’instabilità e del rapido movimento delle gerarchie. Più una cultura è forte, che sia essa nazionale, istituzionale, generazionale, accademica o altro, e meno si presta ad accogliere il nuovo come un evento inatteso, una scoperta. Credenze condivise e ben radicate, norme largamente diffuse, standard di comportamento e di procedura sono i nemici dichiarati del libero gioco delle idee. E una società che si vanta della propria omogeneità e armonia interna appare ormai molto restia ad accettare, nel suo seno, quella cultura delle idee che sorregge il vento dell’innovazione. L’innovazione e la cultura delle idee si sono affermate contro il peso della storia che prometteva il governo del futuro, semplicemente hanno materializzato il futuro, lo hanno reso vero, fruibile, “qui e ora” nel presente. È proprio questo il comune sentire in merito all’idea di innovazione e di globalizzazione che caratterizza il nostro tempo, produce il nuovo sapere e raccoglie l’aspettativa della giovani generazioni verso una “società della conoscenza”.
L’emergenza e l’espansione di questa nuova metafora per indicare il mondo nel quale viviamo è del tutto connessa con il processo di globalizzazione. Mette in conto il confronto e l’integrazione tra culture, le mutate relazioni con una pluralità di ambienti, di ecosistemi e di ecoculture. Si fonda su tecnologie e reti di comunicazione che creano nuove dimensioni di tempo e spazio ignote al pensiero occidentale. Archiviano le tradizionali opposizioni, troppo rigide e pesanti, tra vecchie e nuovo, antichi e moderni, sapere scientifico e umanistico, prima e dopo e poi ancora vecchio e nuovo. Cedono alla creatività e all’immaginazione il posto che un tempo spettava al metodo.
Il brodo di coltura dell’innovazione sembra materializzarsi in processi flessibili di collaborazione che a loro volta generano organizzazioni dedicate, se non alternative, almeno concorrenti con le situazioni tradizionali di riproduzione, manutenzione del sapere. Gruppi di ricerca, centri di eccellenza, scoperte e invenzioni sembrano trovarsi a loro agio nell’incertezza di ciò che è nuovo, momentaneo e non necessariamente coerente. Globalizzazione, innovazione e società della conoscenza hanno una sostanza comune, sono dimensioni coeve e segnano il superamento della modernità alla quale, purtroppo, l’Europa sembra costantemente ancorata.
Non deve dunque stupire che proprio negli USA, questo crogiolo di razze e culture sradicate nello spazio e nel tempo, a fronte di un sapere tradizionale e accademico debole rispetto a quello europeo, si sia progressivamente affermata una cultura dell’innovazione che oggi è un punto di riferimento a livello mondiale. Non deve stupire che paesi come l’India e la Cina conoscano una stagione di sviluppo che fa rottura con tutti i ritmi del progresso rassicurante e lineare celebrato dalla filosofia della storia occidentale. Non è in forza della loro tradizione culturale che questi paesi, carichi di passato, hanno preso il volo, ma in virtù della capacità di accettare il rischio del confronto con il diverso, l’anormale, l’alieno. I processi di sviluppo in corso in molte aree del pianeta sono qualcosa di più che non processi di modernizzazione, adeguamento, integrazione verso il modello classico della modernità. Lo superano, creano nuove dimensioni e ambienti per il “pensiero compatibile” all’evoluzione umana, e forse oggi proprio questi nuovi paesi sembrano destinati a produrre più cultura delle idee e dunque più innovazione di quanta non siano in grado di realizzare le “tradizionali” società moderne. Per questo lo scambio e l’integrazione tra culture a livello mondiale non è solo una conseguenza del clima della globalizzazione, ma una inedita opportunità di conservazione della specie e di garanzia del suo processo evolutivo.
La “società della conoscenza” è un nuovo modello di organizzazione (quindi un modello politico) il cui compito non è più il controllo del sapere e il dominio della natura, ma il controllo e il buon uso della tecnica a dimensione planetaria.
Vecchie istituzioni e vecchi orizzonti politici.
All’apparenza, ma solo all’apparenza, la cultura delle idee è indisciplinata, si contraddice, è iconoclasta e si nutre di confusione e contraddizioni. In realtà è il frutto di forme di collaborazione e organizzazione che ben poco hanno a che vedere con i tradizionali apparati di produzione del pensiero e del potere: le scuole, le istituzioni di ricerca e la aziende del secolo scorso. Anche qui si assiste a un rovesciamento dei canoni consolidati della modernità. Essere innovativi è l’opposto di quello che quasi tutti i genitori si aspettano dai loro bambini, quasi tutti i dirigenti vogliono dalle loro aziende e i capi di stato esigono dai loro paesi (Negroponte). Innovare significa rovesciare il tradizionale e consolidato rapporto tra potere e sapere: accettare il rischioso passaggio dalle prigioni dell’ideologia all’avventura della conoscenza.
Così le istituzioni educative del futuro promettono di essere quelle nelle quali i bambini insegnano ai grandi e il più significativo traguardo di una teoria unificata dell’apprendimento “potrebbe consistere nella dimostrazione che i più brillanti scienziati e i bambini comuni sono impegnati in una stessa impresa” (Gopnik). La crisi e la rimessa in discussione dei tradizionali luoghi di produzione e riproduzione del sapere e del potere non è solo un problema di adeguamento (modernizzazione) nel metodo, nell’organizzazione, nelle risorse comunicative delle procedure di insegnamento e di ricerca: docenti e discenti non riescono più a comunicare tra loro perché “il divario generazionale sottende un divario di organizzazione cerebrale dovuto alle diverse esperienze neonatali e infantili” (Longo). I muri protettivi del sapere sono caduti per effetto di una modalità di produzione della conoscenza che chiama in causa il libero accesso alla incontrollabile produzione delle idee.
Quel che accade nell’ambito delle istituzioni educative, non è diverso da quanto si registra nella organizzazioni produttive, nelle istituzioni e centri di ricerca, in quelle politiche e di governo. Il divario (o il distanziamento) generazionale infatti è solo un aspetto del sisma che innovazione e cultura delle idee stanno producendo e sono destinate a produrre sul modello culturale della modernità governato dai rassicuranti paradigmi ideologici. L’impresa oggi non può più configurarsi come un’organizzazione volta esclusivamente al profitto materiale; per poter sopravvivere deve integrarsi a livello di sistema con l’ambiente tecnologico che la tiene in vita e di conseguenza con il sapere che realizza l’invenzione del nuovo. Ciò comporta automaticamente un livello di collaborazione e organizzazione che va ben oltre le tradizionali dottrine del management aziendale, implica una nuova figura e un nuovo ruolo sociale dell’imprenditorialità e un calcolo dei costi/benefici assai più complesso. Lo certifica il crescente intreccio e interdipendenza tra le politiche di governance, della ricerca e di corretto uso della persona umana nelle punte avanzate (innovative) del sistema di impresa. L’innovazione, come motore dello sviluppo, si coniuga infatti con una nuova dimensione dell’io (Vittadini).
Risorse umane, innovazione, impresa, concorrono a declinare il diritto di cittadinanza nella società della conoscenza. È questo un punto di vista ormai universalmente diffuso e forse più declamato come articolo di fede che affrontato come progetto strategico di un nuovo modello di socialità. Nei fatti quello a cui si assiste quotidianamente è una lettura degli eventi mondiali fondata su canoni e criteri che appartengono agli standard tradizionali del pensiero politico della modernità. Relazioni internazionali, scienza politica, filosofia e sociologia politica e tutto il corteggio delle discipline accademiche che visi accompagna leggono gli effetti della globalizzazione come una ridistribuzione del tradizionale potere sovrano degli stati a livello planetario. Competizione per la creazione di aree di influenza, riassetto geopolitico, opzioni imperiali, alleanze conflitti, equlibrii tra superpotenze vecchie e nuove fanno il lessico dell’analisi politica internazionale. Il metodo è invece costituito dal canovaccio della Storia universale. Sul piano della politica tout cour si assiste invece all’insorgere di nuove mitologie apocalittiche “globali”: la minaccia e la guerra al terrorismo, la corsa all’accaparramento delle materie prime, il rigurigito nazionalista e la difesa dei valori tradizionali, il fondamentalismo ideologico contro il declino e il tramonto delle ideologie, e così via. Il repertorio è quello tradizionale dello stato-sovranità di matrice cinquecentesca sorretto dalle correnti di pensiero ideologiche del passato. E nei fatti questo repertorio non lascia spazio né alla idee, né a più sofisticati modelli di organizzazione sociale, né tanto meno alla ricerca di una teoria unifica del potere. Con vecchi mattoni non si costruiscono edifici nuovi.
Innovazione, produzione e trasmissione del sapere, ricerca, impresa… politica. Non vi e dubbio che il rovesciamento dei rapporti consolidati tra potere e sapere comporta nuove forma di collaborazione che rimettono in gioco le regole fondanti della socialità e del loro governo. Quello a cui forse assistiamo è l’ultima fase del rovesciamento dei rapporti storici del patto tra potere e sapere. Al politico e allo storico del pensiero politico il mondo di oggi propone sfide culturali alternative rispetto a tutto il passato. È davvero possibile coniugare innovazione e politica? Quali sono gli ostacoli, quali le opportunità?
Muri, trincee e la Quarte guerra mondiale.
Possiamo dunque tornare da dove siamo partiti, dai protagonisti, dalle comparse e dal copione che si recita sulla scena per eccellenza, quella politica, il teatro pubblico e permanente dell’azione sociale.
Osservate con gli occhi del presente, politica e innovazione paiono concetti antitetici e in certo senso si escludono a vicenda. E così in realtà il confronto viene vissuto da coloro che praticano la cultura delle idee o che vivono nel presente e nel flusso dell’innovazione: i ricettori, i giovani e tutti coloro che rivendicano un diritto di cittadinanza nella società della conoscenza.
Certo, nel corso dei secoli della modernità, il pensiero politico è stato un fattore determinante dello sviluppo e ha svolto un ruolo centrale nel processo di crescita ed espansione delle società europee. Nel XVI secolo il Principe, il Cortegiano, l’abitatore dell’isola di Utopia (Machiavelli, Castiglione, More), nel loro intreccio hanno creato quella dimensione del soggetto che chiamiamo homo politicus (Moro); poi l’invenzione della sovranità e delle stato assoluto (Bodin, Hobbes) hanno consentito di affrontare e superare la crisi del Seicento; il pensiero politico di Locke, Montesquieu e Rousseau hanno accompagnato il rilancio del XVIII secolo verso l’utopia di una società aristocratica di massa; infine lo spirito della Rivoluzione ha trasformato il suddito in cittadino, dato il via ai paradigmi ideologici che ci hanno accompagnato fin qui: liberalismo, democrazia, socialismo. Ma occorre anche dire che questi risultati sono la conseguenza di un patto fecondo tra potere e sapere del quale la sfera del politico si è resa arbitro e interprete.
Il tratto unificante di tutte le teorie del potere elaborate nel corso della modernità, proprio in forza di questa alleanza, è stato, in prima istanza, la ricerca di leggi, regole, principi certi (“scientificamente” certi) delle relazioni tra gli uomini in vista di un ordine stabile e definitivo della società. “Patto”, “ordine”, “gerarchia” hanno fatto il tono della produzione del pensiero politico (Moro). La scienza politica si è poi impegnata a ricercare quest’ordine mediante la scoperta di leggi “naturali”, anch’esse certe e immutabili, predittive di ogni possibile discontinuità. “Rinascita”, “riforma” e “rivoluzione”, sono state le metafore che hanno consentito, alle teorie del potere dei secoli XV-XIX, l’umanizzazione e il dominio del tempo nella sua inafferrabile mobilità. Più in là non siamo andati e non potevamo andare.
Dopo le tre grandi guerre del XX secolo (le prime due ancora realmente combattute, la terza virtuale e isituzionalizzata), dopo l’avvento e la diffusione del totalitarismo, il persistere dell’esperienza e della ambizioni imperialiste, si può dire che il patrimonio del pensiero politico della modernità si è, nei fatti, esaurito. Dopo il 1989 la democrazia ha trionfato, è divenuta un imperativo, il modello di riferimento per ogni organizzazione sociale. Ma, a ben guardare, oggi per democrazia si intende una formula stereotipa e sbiadita che prevede uno stato a base costituzionale dotato di separazione dei poteri, un suffragio più o meno universale, un sistema rappresentativo, un pluralismo politico, reale o presunto, connesso alla dinamica dell’alternanza nella gestione dell’esecutivo. Nei fatti il governo democratico si confonde con un assetto del potere oligarchico la cui stabilità e una finzione del senso di moderazione della classe politica o della classe dirigente. Poco o nulla di più.
In realtà lo stato nazionale è in crisi; le ideologie che lo hanno sostenuto non hanno più alcun vigore; i processi di democratizzazione/modernizzazione si misurano su tempi lunghi e percorsi drammatici; il rapporto tra potere e sapere si è trasformato in un dominio del potere sulla tecnologia usata come strumento di profitto e spogliazione disordinato. Le idee stesse di cittadino e di cittadinanza, elaborate dal pensiero politico dei secoli XVIII-XIX, non trovano più preciso riscontro (e sostegno) in un mondo nel quale i confini tra legalità istituzionale e illegalità dei comportamenti si confondono. Insomma, è opinione diffusa e generalmente condivisa che la sfera del politico sia in crisi e l’elaborazione dottrinaria non compensi le lacune che vanno manifestandosi nel governo delle singole unità territoriali e nei rapporti tra le nazioni.
Si può anzi dire che, per effetto dell’emergenza tecnologica, le funzioni di controllo degli apparati di potere istituzionali e informali si sono irrigidite e stanno divenendo invasive nel controllo delle comunicazioni e della produzione del pensiero. E vi è chi intravede nel tempo presente e a venire la “mercificazione della cultura e del sapere come fase estrema del capitalismo” (Rifkin). È ben noto che il compito fondamentale del potere è quello di dare ordine alle relazioni umane, fissarne le regole, imporle e farle rispettare. Ma nelle visioni e previsioni più catastrofiche delle distopie postmoderne, il dominio e la manipolazione delle coscienze sono divenute un canone narrativo privilegiato che sembra trovare precisi riscontri nella realtà. Pare che la democrazia si debba esportare e imporre con la forza delle armi. Che la legalità internazionale debba essere affidata a guerre preventive. Che alla competizione tra paradigmi ideologici si sostituisca una guerra planetaria e millenaria tra il bene e il male. Che infine il consenso, frutto di alchimie mediatiche, sia alternativo alla partecipazione.
Forse siamo in presenza di una Quarta guerra mondiale che la modernità ha dichiarato a se se tessa, ma appare evidente che politica e cultura delle idee sono in conflitto, conservazione e innovazione non sembrano trovare un adeguato intreccio, potere e sapere hanno fatto divorzio. Si dice che, alla fine del secolo scorso, per effetto dell’accresciuta velocità del presente, la cultura occidentale abbia inavvertitamente sfondato il “muro della storia” (Baudrillard) e che la caduta del muro di Berlino ha sfondato il “muro delle ideologie” (Fukuiama, Friedman), ma in realtà si assiste all’allestimento di trincee per ospitare un pensiero unico, imperiale, autoritario e per sua natura “fondamentalista”.
Il potere del passato resiste all’innovazione del presente. Nei fatti, si può forse affermare, che la sfera del politico è l’ultimo retaggio che il comune sentire della modernità lascia al tempo presente, un’eredità del nostro passato culturale dura a morire. A fronte dell’innovazione, il potere appare oggi un campo trincerato contro il rischio della complessità e del libero confronto delle idee. In realtà l’emergenza tecnologica e il nuovo approccio al sapere danno scacco al pensiero politico tradizionale e forse lasciano appena intravedere una nuova frontiera.
Nei secoli XV-XIX la sfera del politico era stata affidata a due ordini del sapere robusti, dotati di indubbio prestigio e di una grande tradizione: il sapere storico e quello giuridico. Poi, nel corso del Novecento, a questi si è aggiunto, per breve momento, il sapere economico. Questo nucleo forte di discipline ha retto il patto tra potere e sapere su cui si fonda la sequenza forte della modernità (storia, politica, futuro), assicurato funzioni di governo di una realtà sociale a bassa velocità di mutamento e realizzato la conciliazione delle discontinuità storiche.
Ancor oggi, storici, giuristi, economisti costituiscono gli operatori della professionalità politica, ma la realtà che li circonda è radicalmente mutata. Il confronto con lo sviluppo tecnologico è tutt’altra cosa rispetto agli imperativi di stabilità e ordine del passato. La velocità del mutamento sociale e la complessità dei sistemi di relazioni culturali, non consentono più un governo del tempo e un’azione di freno/controllo sulla produzione di idee. Il consenso non è più il risultato dell’adesione a rigidi paradigmi ideologici. La storia non promuove più le mitologie della modernità, le scienze del diritto operano in un universo circostanziato che non supera i confini degli stati-nazione. L’economia infine è una disciplina messa in continuo scacco dal rapido evolversi dei processi di globalizzazione. Insomma una teoria unificata del potere capace di affrontare il nuovo corso degli eventi, è forse in via di formazione.