Parte I – lezione 2
La colonizzazione e umanizzazione del tempo è il compito che la cultura della modernità ha assegnato alla storia. Ma la riduzione del tempo a storia ha realizzato un processo “alchemico” che, desacralizzando e umanizzando il tempo provvidenziale-naturale, ha finito per sacralizzare il tempo umano, e, a poco a poco, quest’azione di colonizzazione e conquista lo ha reso “pubblico”, “collettivo” ben oltre gli angusti confini dell’esperienza individuale e della storia personale; cosicché la Storia dell’Uomo, necessariamente universale e teleologica, è divenuta “il tempo sacro” della modernità. La crisi della modernità, che caratterizza il XX secolo, riapre il dibattito sul significato e il senso della storia e del significato stesso del tempo, in un clima culturale invia di radicale trasformazione.
Identità e complessità
“la prima critica riguarda il racconto storico e il ruolo esplicativo fondante che esso deteneva nella coscienza moderna. In effetti la postmodernità si immagina libera da ogni fondazione e si elabora mediante la mobilità delle interpretazioni in virtù della compulsione ripetitiva delle forme e dei temi nei confronti dei quali ogni origine è dimenticata”.
Danilo Partuccelli
1.Identità e crisi di identità
L’idea di dedicare uno dei nostri periodici incontri alla riflessione comune sull’identità dello storico contemporaneo e cioè sulla definizione di un senso del suo ruolo pubblico e sociale (quindi politico e morale) nonché di quello professionale in quanto attore di un ordine del sapere un tempo centrale all’architettura culturale del pensiero e dell’esperienza, mi pare del tutto appropriata nell’ora di avvio del XXI secolo. Si tratta infatti, a mio parere e almeno per un istante, di violare i reticolati del ghetto accademico-disciplinare e guardare oltre i confini di quegli orti conchiusi e artificialmente protetti che i processi di integrazione-frantumazione in atto rischiano di rendere progressivamente sterili. Si tratta insomma di prendere atto del fatto che le cose, così come stanno, non vanno del tutto bene, che vi è disagio a praticare la Storia, a comunicarla e soprattutto a guidare chi la pratica; e si tratta soprattutto di non nasconderci il fatto che, al di là delle procedure e metodologie consolidate di scomposizione, ricomposizione e narrazione del tempo, l’universo che si offre all’osservazione dello storico appare confuso, incerto e misterioso sino a svelare un “lontano abbandono dell’essere” (Heidegger).
La nostra discussione dovrebbe proprio cominciare da qui: dal senso di una progressiva lontananza dall’oggetto dei nostri studi e dall’idea della crisi. Perché, questo è ovvio, interrogarsi sull’identità implica automaticamente una crisi di identità, quasi ne certifica la perdita (o il rischio di perderla) e, più in generale, denuncia una incertezza del senso, che apre la porta al vuoto e alla de-moralizzazione (Jonas). Sono questi peraltro gli stati d’animo e il comune sentire che caratterizzano il nostro tempo, quel nuovo corso della storia definito da molte voci “l’età del vuoto” (Lipovetsky). Il Quarto regno, garante di un definitivo potere dell’uomo, profetizzato da Daniele, sarebbe dunque infine giunto per mostrarci un mondo (e un uomo) definitivamente realizzato che coincide con il collasso temporale e con la dissoluzione dell’uomo moderno (Cioran, Baudrillard, Tourenne, Morin, Giddens).
Da questo punto di vista, dal punto di vista della crisi di identità culturale, la condizione dello storico contemporaneo (ma più in generale dello storico e del sapere storico) ben poco diverge da quella dei suoi colleghi umanisti (filosofi, antropologi, letterati, linguisti, pedagogisti, ma anche economisti, sociologi, psicologi). Naturalmente lo storico, manipolatore del tempo, più di ogni altro si trova in prima linea, ma “l’età del presente” (Kierkegaard) nella quale viviamo è per sua natura cosmopolita e offre cittadinanza alla crisi di tutti i saperi umanistici vittime del decomporsi dell’ordine enciclopedico e dello sfogliarsi dell’albero del sapere nella sua, un tempo, robusta e rassicurante gerarchia.
2. Una “storia” della crisi
Quel che rende più forte il peso della crisi (cioè di incertezza del senso e quindi di identità) nella percezione degli storici e del sapere storico è forse il fatto che proprio gli storici sanno o dovrebbero sapere che la cultura occidentale si confronta con questa crisi di identità, questo abbandono, de-moralizzazione, vuoto, dissoluzione temporale da ormai più di un secolo. Dagli anni settanta dell’Ottocento e fino a tutti gli anni settanta del Novecento, il tema della crisi è all’ordine del giorno della cultura occidentale, ne fa il tono e persino la struttura profonda che per questo ha tratti millenaristi e apocalittici. La crisi ha dunque una sua storia e questa storia è quella della crisi della modernità. Questa storia i contemporaneisti (per i quali il big bang principia con la prima industrializzazione) forse non sono in grado di raccontarla per intero, ma ne sono figli primogeniti e la percepiscono nel profondo forse più di tutti gli umanisti di ogni ordine e grado. L’identità dello storico deve perciò confrontarsi, in prima istanza e senza mediazioni, con la storia della crisi della modernità o se si preferisce dell’età contemporanea.
E’ una storia nota agli storici del pensiero e ormai raccontata in mille versioni e varianti sulla quale è inutile, almeno tra noi, spendere righe o parole. Ce ne stiamo occupando tutti, da attori e testimoni, e personalmente mi sono esercitato in più occasioni sull’argomento. Quel che mette conto di ricordare non è tanto la natura e verità della crisi, quanto la sua dinamica, la sua storia appunto e il suo esito finale: 1860-1890 critica della modernità e crisi del pensiero storico (Baudelaire, Nietzsche); 1890-1910 crisi della scienza, dell’idea del progresso e della scientificità della storia (Freud, Husserl, Heidegger, ma anche Dilthey, Simmel, Spengler, solo per citare); 1910-1930 crisi dell’idea di Europa (prima e dopo Spengler la letteratura declinista è sovrabbondante); 1930-1950 crisi della democrazia (cioè del politico) (Valery, Camus, Aron, Lukacs, Arendt); 1950-1970 crisi delle ideologie quindi della mitologia e della magia operativa realizzata dagli storici (sotto il profilo filosofico e sociologico la letteratura del post-moderno è praticamente inesauribile), 1970-1989 bilancio finale della crisi. Un bilancio che, per quanto ci riguarda, è pesante.
Infatti, anche se gli storici si sono sempre tenuti a debita distanza dal dibattito sul significato e il senso della storia e della storiografia, sanno che il cuore stesso della critica alla modernità (detto altrimenti della “crisi dell’età contemporanea”), il suo vero campo di battaglia è stato proprio il sapere storico: in particolare la progressiva demolizione della storiografia romantica prima, dello storicismo e del positivismo storico poi. Sotto il profilo accademico-disciplinare il sapere storico (certo uno dei più tardivi ad essere riconosciuti nell’albero istituzionale) vede la sua nascita nel 1810-1812 con l’istituzione delle prime due cattedre di storia (rispettivamente a Berlino e Parigi) per cadere sotto l’offensiva nietscheana nel 1879 e raccogliere la sua sentenza di morte nel 1922 (Troeltsch) in perfetta contemporaneità (e contestualità) con le fasi complessive della critica alla modernità. Insomma, crisi dello storicismo (inteso come impegno alla universalizzazione del sapere storico) uguale a crisi della modernità proprio perché alla storia era stato affidato il compito di celebrare-organizzare il processo di laicizzazione e con questo quello di autoaffermazione dell’uomo e della cultura generate dalla modernità stessa.
Un bilancio che propone all’apparenza una via senza uscita: il progetto antropologico a base storica elaborato dalla cultura della modernità (Sant’Agositno, Pico della Mirandola, Petrarca, Machiavelli, Montaigne, Bacone … nomi che cito a caso solo per fissare una linea del tempo) sembra esaurito o addirittura male impostato; a fronte delle tre deflagrazioni, dei tre ordigni esplosivi del XX secolo (la bomba atomica, la bomba genetica e quella informatica), l’emergenza umanistica sembra essersi persa lungo quel cammino “storico” che ha voluto percorrere. Insomma il soggetto implode sotto il peso dei suoi stessi obiettivi (Tourenne, Giddens): all’attuale livello di potenza consentito dalle tecnologie, l’uomo moderno, centro di tutto l’universo, attore privilegiato della creazione e ordinatore del mondo (vir virtutis, philosophe e poi citoyen), pare caricato di responsabilità alle quali non è in grado di fare fronte. L’esito finale della crescita morale, politica, sociale dell’uomo-humanitas che ha caratterizzato il processo di “innalzamento della storia” operato dalla modernità, altro non sarebbe che l’arcipelago gulag di un individualismo possessivo e narcisistico fluttuante in un mare agitato da ignote correnti (Virilio). E’ quel mare del vuoto che le tendenze nichiliste ed esistenzialiste si impegnano a scandagliare da circa un secolo. Un bilancio in conclusione senza via d’uscita e una crisi perpetua di identità: la storia sarebbe finita perché è venuto meno il soggetto del racconto da un lato (l’uomo moderno) e il narratore della sua vicenda (lo storico) dall’altro. Dunque nulla di più attuale, ma anche scontato, del dibattito che ci siamo incaricati di affrontare.
3. La storia della Storia: le dimensioni del tempo
Crisi del soggetto, abbandono dell’essere, crisi della storia (perché le tre azioni vanno fatalmente insieme): crisi dunque di identità dello storico (soprattutto di quello contemporaneo, mi verrebbe da dire). Perché la crisi del modello antropologico della modernità implica automaticamente la crisi del sapere storico: l’uomo e la sua società così come noi le pratichiamo sono, infatti, dimensioni e paradigmi a fondazione storica e cioè leggibili, spiegabili e assimilabili in virtù di un percorso temporale ad esso intimamente connessi. Anche questo tema è noto, scandagliato e, per certi aspetti, saturo.
Però forse tra noi, come con altri colleghi, su questo punto non ci siamo ben capiti, o meglio non sono stato capito. Che vi sia una censura? Che le fughe verso la metodologia e la filologia siano il risultato di una cattiva coscienza? Che vi sia una trincea professionale protettiva eretta contro destabilizzanti invasioni? Ma, diciamolo onestamente, come può lo storico affrontare l’oceano comunicativo che la nuova fase della modernità ha posto in essere stando in trincea? Come inserirsi nella vorticosa corrente mediatica, narrare, fare storia? Ed è davvero possibile oggi eludere, con il fragile scudo delle specializzazioni disciplinari, delle tesi, delle monografie, il tema del significato e del fine (o della fine) della ricerca storica? E come andare oltre i confini tradizionalmente fissati?
Cominciamo col dire (o semplicemente ricordare) che vi è stato un tempo e vi sono ancor oggi luoghi nei quali il pensiero storico non poteva e non può nascere perché è privo del suo stesso habitat: il tempo storico, un tempo lineare che si articola in una successione coerente di passato, presente e futuro. La linearità del tempo in realtà è essa stessa figlia della storia: è figlia del monoteismo giudaico-cristiano (la creazione del mondo coincide nel monoteismo con la creazione del tempo) e la sua umanizzazione coincide con l’Evento (unico e irreversibile) che ne annuncia anche la data finale, quel punto estremo che assicura la riconciliazione del tempo umano con la sfera immobile dell’eternità (Lowith, Gurevicth, Vovelle, Gauchet, Pomian, Habermas).
Bacino di coltura del monoteismo, il pensiero medioevale praticava un’idea della temporalità a più dimensioni o livelli (Tommaso D’Aquino): aeternitas (il non tempo del divino), aevum (il programma storico, tutto già scritto all’atto della creazione, che coincide con il disegno provvidenziale), tempus (quello fragile e transitorio, ininfluente e provvisorio dell’uomo creato, un tempo povero fatto di cerchi, sinusoidi, schemi ripetitivi senza Storia). Intorno al XIV-XVI secolo ecco la svolta: l’idea di una possibile ri-nascita della civiltà antica apre un processo di conquista e liberazione dell’aevum da parte del tempus. Il Rinascimento certifica non solo la morte di una civiltà (Santo Mazzarino, Garin), ma il potere tutto umano di rigenerarla, superarla e farla rivivere, e la modernità, da questo punto di vista, altro non è che una guerra di conquista individuale e collettiva del tempo, la sua restituzione all’uomo e all’humanitas per effetto del ruolo di centralità della specie, della superiorità gerarchica della creatura nel vasto universo creato. Allora nasce la storia come libera azione del soggetto e la storiografia della modernità può essere così definita come un grandioso impegno di desacralizzazione-colonizzazione del tempo sacro e provvidenziale (quindi naturale) a tutto vantaggio della narrazione della vicenda umana nella sua autonoma e responsabile crescita (un tempo non più naturale, ma di laboratorio, artificiale). Si tratta di un percorso-racconto a fondazione antropocentrica (e fatalmente eurocentrica) che, come ogni narrazione, ha un punto di partenza (il suo mito delle origini è la Ri-nascita) e un punto di arrivo (il suo evento apocalittico finale che è l’autoaffermazione dell’uomo), che si snoda in una concatenazione di rapporti causa/effetto e ordina la freccia del tempo (lo governa) in relazione alla sua linearità verso l’emancipazione, la liberazione finale dell’uomo (quella alla quale forse siamo arrivati).
Ma questa operazione di conquista e colonizzazione non è stata senza rischi e pericolose ambiguità. Progressivamente umanizzato e lavorato, il grande tempo cosmico e provvidenziale offerto dal sentire monoteista, ha poi perso il suo carattere di rigorosa e necessaria continuità: divenendo lo specchio dell’humanitas ne ha assunto i tratti e i colori. Il tempo dell’uomo (tempo storico) è, al pari del soggetto che lo produce, instabile, frutto di emozioni e passioni che si alternano in cicli, sinusoidi, corsi e ricorsi, drammatiche alternanze (di bene e male, vita e morte, buio e luce, guerra e pace, sviluppo e regresso), ha una intensità morale e riflette le passioni del cuore (il tempo è “difficile”, “maturo”, “fa giustizia”, è “galantuomo”, ecc.) e assume nel suo incerto corso colori diversi (vi è un’età/secolo/epoca d’oro, di ferro, dei lumi, del progresso, delle rivoluzioni, dell’espansione, e così via). Insomma tempo umano e tempo storico sono fatti della stessa sostanza. Spetta alla storiografia, che ne assume il monopolio, scoprire il segreto e la ragione del suo moto, allo storico ordinarlo in una narrazione esplicativa. Ma il tempo storico, lineare come è, non perde mai le sue caratteristiche essenziali: è, come il sapere stesso dell’uomo, cumulativo (succede a se stesso), gerarchico (vi è sempre un prima e un dopo, una causa e un effetto), patrimoniale (la sua cumulazione lo arricchisce e lo innalza). Insomma, desacralizzato, il tempo si umanizza e diviene il formidabile utensile culturale della modernità.
Inoltre la riduzione del tempo a storia produce anche effetti inattesi. Si tratta di un processo “alchemico” che, desacralizzando e umanizzando il tempo provvidenziale-naturale, ha finito per sacralizzare il tempo umano, e, a poco a poco, quest’azione di colonizzazione e conquista lo ha reso “pubblico”, “collettivo” (Ricoeur, Koselleck, Badiou) ben oltre gli angusti confini dell’esperienza individuale e della storia personale; cosicché la Storia dell’Uomo (necessariamente universale e teleologica) è divenuta “il tempo sacro” della modernità (Habermas), un possente mito in azione, totalizzante e universale, al quale spetta risolvere il problema della fondazione di un discorso sull’essere. “Noi siamo esseri storici prima ancora di considerare la storia e soltanto perché siamo quelli diventiamo questi” (Dilthey). E così possiamo dire fin d’ora che la Storia è una religione laica, una fede collettiva e un sacerdozio insieme.
La storiografia europea dei secoli XVI-XVII assume già i tratti di una “teologia della storia” (Pomian, Lowith) e poi si trasforma in una “filosofia” della storia (XVIII secolo) alla quale viene affidato il compito di fondare un sapere relativo alla totalità della vicenda umana. Con l’evento rivoluzionario la storia da plurale diviene singolare (Foucault) e il tempo storico diviene collettivo, di esso si fa un “uso pubblico” e quindi politico nel significato più alto del termine (e cioè ragione di identità, socialità, consapevolezza dell’azione sociale). Più in là (XIX secolo) la storiografia, esplicativa e prescrittiva, accetta lo scontro-confronto con il positivismo scientista e si pone come obiettivo la realizzazione di “una scienza esatta e positiva dello spirito” (Renan): la “scienza” delle scienze. Così quello a cui abbiamo assistito nell’arco di tre, cinque secoli è stato un episodio centrale delle “guerre del tempo” (Rifkin): l’uomo ha conquistato il suo tempo e la Storia è stata lo strumento per la “pianificazione” (Kant), occupazione, governo, controllo, colonizzazione del tempo; la più alta, e a mio avviso più nobile, manifestazione di potere (o “volontà di potenza”) della cultura occidentale in quel suo sofferto cammino che chiamiamo modernità. Osservata in relazione alla sua storia, la Storia altro non è che un racconto del Potere ordinatore del mondo, lo storico un attore centrale dell’ordine di tutti i saperi, e l’uomo moderno un prodotto della Storiografia e cioè di un racconto delle origini infinitamente ripetuto e universalmente condiviso.
Un’esperienza culturale esclusiva del pensiero occidentale, sì, ma di breve momento se consideriamo il corso dei cinque secoli della storia moderna in rapporto non solo ai tempi della specie (l’ordine temporale è ora di milioni di anni), a quelli della natura (siamo ai miliardi di anni) e del cosmo (centinaia di miliardi di anni); un tempo breve, e per certi aspetti fragile, anche se consideriamo il complessivo della cultura occidentale in relazione alle pluralità delle culture “altre” (rispetto a quella dell’Europa occidentale dei secoli XIV-XX) il cui censimento, sia per il passato che per il presente, sembra non finire mai e porta di continuo alla luce sistemi di civiltà e di conoscenze altrettanto vitali e significative. Un cammino concluso? Un “tempo” finito e quindi una Storia finita?
4. Fine della storia e oltre
Per molti autori il dibattito sulla fase critica della modernità e sul ruolo critico degli storici è, nei fatti, coinciso con quello in merito alla possibile fine della Storia. Ma questa ipotesi ha radici assai più profonde del dibattito moderno/postmoderno. Forse per primo Michelet ha avanzato quest’ipotesi immaginando che, con l’avvento XIX secolo, si fosse giunti alla data limite della Storia dell’umanità (“la storia di Francia è al suo punto di arrivo”), ma l’idea di un vero e proprio finis historiae l’ha formulata in modo organico Hegel per primo e nel 1807 (dopo la battaglia di Jena) al culmine della parabola dell’età moderna. L’idea era che, nel processo storico, si fosse giunti al capolinea per effetto del costituirsi, grazie alla Rivoluzione francese, dello stato liberale (forse anche democratico) e del conseguente moderno diritto di cittadinanza. Individuo, famiglia, società civile, stato e cittadinanza: il processo di innalzamento dell’uomo attraverso il “divenire storico” dialettico (insomma il tempo che passa) aveva, secondo Hegel, concluso il suo ciclo (Fukuyama). La Storia universale poteva dirsi conclusa per l’avvento dello Spirito, il suo materializzarsi sub specie “politica”, cioè storica (o viceversa): lo Stato moderno, sintesi complessiva dei processi dialettici di quella metafisica della laicizzazione che è l’idealismo.
La Storia finiva, secondo Hegel, perché il suo programma temporale (o almeno quello che egli stesso era riuscito a interpretare e modellizare) si era ormai concluso e il tempo a venire sarebbe stato quello di un adeguamento dell’umanità intera alla modernità, insomma un susseguirsi di processi di ammodernamento o modernizzazione, come ci piace dire oggi; una marcia d’integrazione in base alla quale, per estremizzare, “nella sua totalità il futuro è propaganda” (Brodskij) e cioè programma politico definito nei suoi obiettivi. Per sfuggire a questo apparente paradosso nichilista dell’idealismo, Marx ha rovesciato anche qui fino in fondo il pensiero hegeliano retrocedendo la storia a preistoria e fissando la data dell’inizio della storia vera (quella dell’uomo socialista) all’avvento dell’era comunista. Un’ipotesi teorica che oggi lascia perlomeno perplessi.
A pensarci bene credo che Hegel non avesse tutti i torti e che, in fondo, ci avesse azzeccato più di molti altri critici e teorici del postmoderno (Rossi). L’antropologia hegeliana, mobile, ma rettilinea e unidirezionale, costituisce, infatti, il compimento del percorso di centralizzazione-distanziamento dell’uomo dal mondo (natura, universo, cosmo), realizza il progetto umanistico della cultura occidentale e ne svela il mito delle origini: lo spirito-idea inteso come privilegio esclusivo dell’essere. E poiché la storia sempre e ovunque (in tutte le culture) parla dell’uomo e delle sue origini (è una procedura di affermazione di identità e quindi necessariamente autoreferente), nei fatti, la storiografia dell’Ottocento (specie quella tedesca) diviene una mitografia della modernità, la celebra sotto il profilo etico e la impone sotto quello politico: al meglio è la narrazione omerica (a fondazione eurocentrica) di un’epopea dell’uomo occidentale nel suo perturbato e drammatico percorso di domino del mondo, al peggio una soap opera di eroi del potere alla Carlyle o alla Sombart.
Che l’esperienza totalitaria del Novecento sia poi una evoluzione finale dello Stato nazionale liberal-costituzionale (nella fattispecie hegeliano- prussiano) o il suo lato degenerativo, poco conta ai fini del giudizio dato da Hegel. L’esperienza del Novecento, infatti, è millenarista e catastrofista proprio perché drammatizza il discorso della fine, lo esaspera in quella decostruzione del soggetto come attore privilegiato nel governo del tempo (Popper) che mette in difficoltà lo storico e ne segna la privazione di ruolo, la crisi di identità. Con argomentazioni diverse da quelle di Hegel, del resto, anche Troeltsch certificava l’avvenuto decesso della Storia universale all’indomani della Prima guerra mondiale annunciando la crisi irreversibile dello storicismo. Nel 1938, Aron argomenta in modo esemplare “i limiti dell’oggettività storica” in un saggio di decostruzione radicale del sapere storico della modernità. Marrou ne prende atto (1939) e svela la “tristezza dello storico” nel confrontarsi col tempo presente. Negli anni cinquanta, a fronte dell’offensiva strutturalista, la storia sembra ormai condannata a un descrittivismo opaco, al caos della contingenza e della dispersione nella incoerenza degli eventi (Lévi-Strauss). Un’altra sentenza di morte giunge, assai ben strutturata, nel 1953, con Significato e fine della storia (Lowith) e un epitaffio che non lascia molte speranze: “il pensiero contemporaneo è approdato a una radicale relativizzazione della storia e della conoscenza storica, il che costituisce la più grave minaccia per la sua possibilità di sviluppo”. Lyotard e Fukujama, dal canto loro, decretano la fine della storia nella seconda metà del XIX secolo in concomitanza con la morte delle ideologie. Insomma il Novecento si iscrive nella cultura europea come il secolo terminale del sapere storico esplicativo, prescrittivo, autoreferente. E anche se questa verità può apparire, al mondo chiuso e catafratto degli storici, una sorta di estremismo provocatorio, non vi è da farsi illusioni. L’espansione dell’impegno storiografico sotto il profilo istituzionale (accademico, disciplinare, didattico) che si può agevolmente registrare nel corso del XX secolo, è caratterizzato da un progressivo ripiegamento della ricerca su se stessa, da una crescente autorefernzialità e dal rinchiudersi in uno specialismo filologico strutturalmente incapace di percepire e affrontare la crisi del ruolo strategico del sapere storico nei rapporti con gli altri saperi. E, a mio parere, a questo punto siamo ancora oggi: al dibattito sul finis historae.
Intendiamoci bene: quello di cui si discute è la storia “al singolare”, il pensiero unico di un ordine del sapere dotato di un suo autonomo statuto, di una licenza esclusiva di investigazione e interpretazione di tutto il passato e del moto stesso della temporalità. La Storia può apparire oggi come un’esperienza finita non già nel senso che sono finiti gli innumerevoli eventi che la compongono, ma perché è venuto meno il senso della loro composizione esplicativa (del “discorso” storico, appunto), della loro narrazione unitaria che fu quella forza centripeta chiamata Storia universale, e cioè una scrittura degli eventi, rigorosa, lineare, programmatrice del passato e del futuro dalla quale stentiamo a prendere le distanze (Giovagnoli, Romitelli). Le aspirazioni millenarie del Terzo Reich, l’esasperazione dell’imperialismo e dei nazionalismi fascisti, il mito della razza, del tramonto irreversibile della continuità storica (e cioè “tramonto dell’Occidente”) e, in una parola, le culture del totalitarismo e la fede declinista, hanno realizzato il suicidio del “tempo storico” della Storia universale: come ogni “rivoluzione” (e cioè come ogni tentavo di rigenerare il tempo storico), calendarizzando il tempo a partire dall’anno zero, e cioè a partire dalla sua fine, i totalitarismi hanno compiuto un’eutanasia della Storia (Glukzman). Visto in questa prospettiva il bilancio della crisi e il quadro che ne emerge sono, a dir poco, sconfortanti. Tutto finito? Tutti a casa dunque? Non proprio.
Non è ovviamente il tempo e neppure il “tempo storico” che sono finiti, no naturalmente; semplicemente è il canone della sua narrazione che è mutato come se fossimo passati dal contrappunto alla sinfonia o viceversa. Quel che del tempo è cambiato è la sua unilateralità, la sua velocità, la sua profondità e la sua unidimensionalità. O forse, più verosimilmente, siamo noi che siamo mutati e lo percepiamo in modo diverso.
E’ stato scritto al riguardo in modo esemplare (Baudrillard) che la fine della storia coincide con la liberazione degli eventi dalla prigionia della Storia universale; che oltre una certa data del Novecento abbiamo superato il “muro della storia”; e che gli eventi moltiplicati e liberi dal Racconto e dal “metaracconto” (Lyotard) danzano ora come particelle cosmiche; e infine che gli eventi stessi sono ormai “entrati in sciopero” contro le manipolazioni degli storici imponendo la rinuncia al racconto unificatore della storiografia.
Io credo vi sia del vero in questo genere di intuizioni interpretative, credo che gli storici dovrebbero prenderne atto e, narratori di miti quali sono, debbano cambiare registro, andare oltre la Storia. Come?
Oltre la storia Isaac Asimov, non so in quale isola della sua sterminata enciclopedia immaginativa, aveva proposto di mettere all’ordine del giorno degli storici la “storia del futuro” (o “psicostoria”), la sua effettiva scrittura a fini politici e sociali. L’idea, ereditata da Forester, era quella di spingere gli storici a costruire modelli matematici di simulazione dello sviluppo degli eventi presenti facendoli agire in reti sistemiche logiche e raccontandone poi gli effetti (cosa ben diversa dall’approccio esclusivamente creativo della fantastoria oggi di gran moda). Gli eventi così realizzati e raccontati avrebbero automaticamente agito nei loro anelli di retroazione sulla struttura del tempo con la conseguenza che il futuro sarebbe diventato il presente e il passato sarebbe diventato futuro. Oltre la storia, Asimov proponeva di andarci così, e l’idea appare oggi meno bizzarra di quanto siamo disposti ad ammettere: chi analizzasse con attenzione la “storia” della guerra in Iraq condotta dai servizi di informazione (le cosiddette intelligence) e dai media, scoprirebbe il segreto di Asimov e non potrebbe dargli torto. Non scandalizziamoci dunque e andiamo avanti, andiamo ancora oltre la Storia.
5. L’incidente inatteso.
La crisi della storia (e della storiografia) nel corso del XX secolo (al pari di quella degli altri saperi umanistici) è anch’essa “storica”, una narrazione drammatica o tragica (Ortega, Unamuno, Marrou, Spengler, Valery, Guenon…) di delocalizzazione dell’uomo moderno rispetto al suo naturale habitat: la Storia universale, intesa come conoscenza esclusiva del tempo, dell’uomo e dell’umanità, a programma predefinito e per molti aspetti divinatorio. Nel corso del Novecento le “scienze” sociali hanno, infatti, a poco a poco sostituito la filosofia della storia nello studio dell’uomo; hanno elaborato tecniche e modelli di analisi dei fenomeni sociali nel presente, spezzando, con l’osservazione dei fatti con-temporanei, la catena lineare degli eventi che era stata la naturale garanzia del sapere storico; gli steccati e i distinguo posti in campo dalla storiografia neopositivista e storicista non hanno, nei fatti, aggiornato il sapere storico al complessivo sviluppo delle conoscenze che si sono registrate nel corso del secolo. Per contro una vera e propria forza centrifuga ha sottratto alla storia un insieme di saperi i quali hanno assunto autonoma dignità e si sviluppano ora al di fuori del tradizionale discorso storico, lo minacciano e lo espongono a invasioni e smembramenti. Il mutamento più importante al quale abbiamo assistito nella seconda metà del XX secolo è lo sdoppiamento, nell’ambito delle neonate scienze umane (linguistica, antropologia culturale, estetica, comunicazione, semiologia) tra teoria e storia su tutta una serie di oggetti di studio un tempo affrontati soltanto da un punto di vista e con metodologie storiche (Chatelet). Il processo di impoverimento e arretramento delle discipline storiche è del tutto evidente soprattutto sul fronte accademico a tal punto che, negli anni Novanta del Novecento ci si è chiesti: “a cosa servono gli storici?”.
Ma usciamo dal Novecento, un secolo per certi aspetti “inutile” (Moro), che è ormai definitivamente lontano ed entriamo nel nostro tempo. Oggi lo scenario, rispetto al XX secolo, è del tutto mutato.
Le conoscenze affluite negli ultimi trent’anni solo ora permettono di chiarire in modo del tutto nuovo la situazione dell’essere umano nell’universo. I nuovi orizzonti della cosmologia e della fisica, delle scienze della terra, dell’ecologia, della biologia, lo studio della preistoria e della paleoantropologia negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, poi lo sviluppo della cibernetica, della neurobiologia molecolare, della psicologia e della scienza cognitiva, dell’universo digitale, della memoria artificiale e della sfera virtuale negli anni ottanta e novanta hanno, per effetto del loro istantaneo intreccio e della loro automatica collaborazione, creato un inatteso big bang del sapere; hanno sfondato il muro della storia e della modernità, e modificato le idee tradizionali in merito all’universo, alla terra, alla vita dell’uomo sulla terra e all’uomo stesso, ereditate dal pensiero occidentale dei secoli XVI-XX. Si tratta di un incidente inatteso che ha creato condizioni caotiche nell’universo dei saperi tradizionali, vi ha inoculato il virus della complessità, li ha frantumati, ha azzerato il privilegiato ruolo di sintesi delle scienze umane, a cominciare proprio dalla storia, e rischia ora di rendere invisibile la complessità umana facendo dell’uomo “storico” della modernità poco di più che una fragile traccia sulla sabbia esposta alle onde della tecnica e alle maree dell’emergenza tecnologica. Un uomo che, secondo taluni, necessita ormai di riprogettazione e di un potenziamento genetico e biotecnologico per affrontare (o accettare) i suoi futuri destini.
Un bilancio della crisi di identità dello storico che vada oltre il millenarismo del finis historiae può forse partire da qui e cioè da quei “nuovi saperi” che potrebbero certificare il superamento del conflitto, tutto storico (quindi tutto occidentale) tra vecchio e nuovo, e segnare la fine (o il superamento) del ciclo della modernità nonché l’approdo all’isola di Ucronia, là dove vecchio e nuovo, antichi e moderni, passato e presente cessano di darsi scacco da se e l’orizzonte temporale si complica in una pluralità di dimensioni, velocità, densità, tra loro coesistenti. Un’isola per altro misteriosa, nella quale anche l’opposizione ordine-disordine (al pari di quelle passato-presente e passato-futuro) perde di significato perché, come insegna la teoria del caos, ciò che noi chiamiamo disordine altro non è che complessità.
6. Sapere inutile e uomini nuovi
Vecchio e nuovo, antichi e moderni, umanisti e scienziati, passato e futuro, moderno e postmoderno e poi ancora vecchio e nuovo. Su questo genere di opposizioni retoriche si è costruito il “moderno” (Petrarca) e ora gli orizzonti dell’esperienza e del sapere della modernità sembrano essersi chiusi su loro stessi in quella dimensione del tempo (il nostro tempo) che non prevede altro passato se non quello generato dal presente (Lepetit, Koselleck, Ricoeur), né altra esperienza se non quella dell’immaginazione intesa come il livello più alto della conoscenza, quello nel quale il sapere si libera, per un attimo, dalle sue interdizioni e consente l’avventura individuale, l’accettazione dell’inatteso, la comunicazione istantanea incurante della gerarchia. La metafora del “mare aperto” a infiniti e imprevedibili orizzonti e quella di una “navigazione” avventurosa negli oggetti del sapere (i prodotti dell’invenzione) che il mondo digitale e il suo territorio (la rete) hanno imposto nell’età presente, è apparsa finora come l’unica capace di materializzare l’espansione caotica e la progressiva frantumazione (ma anche archiviazione) del sapere enciclopedico inteso come programma di espansione e catalogazione sulla quale la storiografia aveva un incontrastato dominio.
I nuovi saperi (con il che dobbiamo intendere il nuovo approccio alla conoscenza nel mondo della comunicazione globale), infatti, per definizione, non sono enciclopedici perché l’idea stessa di enciclopedia è la vittima necessaria dell’universo digitale e comunicativo nel quale si materializzano le nostre esperienze del presente; ne sono vittime ancor più illustri i sistemi classificatori, i paradigmi rigidi, i percorsi predefiniti e le illusioni della scientificità della scienza: in una parola i polverosi musei tematici frutto della passione razionale sei-ottocentesca nei quali l’itinerario storico era un percorso obbligato. Quel che sembra essere definitivamente mutata è la struttura cumulativa, gerarchica, patrimoniale (dunque enciclopedica) della conoscenza come la ha praticata la modernità, un approccio al conoscere del quale il sapere storico si era posto al servizio e in virtù della quale è stato progettato e prodotto l’homo politicus (nella sequenza crono-storica di principe, cortigiano, homme de lettres, philosophe, suddito, cittadino) dell’Europa occidentale (Moro). Un modello antropologico a fondazione storica che non sembra trovare più luogo nella percezione del tempo della fase postmoderna la quale si caratterizza “non solo come novità rispetto al moderno, ma più radicalmente come dissoluzione della categoria del nuovo” (Vattimo).
Sta di fatto che l’anello di retroazione aspettativa-ricerca-invenzione-celebrazione e comunicazione dell’invenzione – ancora aspettativa del “nuovo”, tipico del nostro tempo archivia non solo il principio di continuità, ma rischia di rendere superfluo anche quello di discontinuità. Se la realtà è una continua produzione di novità che si superano e si cancellano le une la altre nell’atto di costituirsi, continuità e discontinuità si riducono a un problema di moto perpetuo e indistinto. Qual è allora il territorio dello storico in quest’isola di Ucronia fatta di eventi, istanti ed eventi istantanei nella quale il tempo storico appare perduto (Giovagnoli)?
Alla luce della rivoluzione atomica, genetica, informatica, l’uomo post-moderno o, se si preferisce, l’individuo planetario del XXI secolo (Morin), appare ormai del tutto diverso da come lo avevano pensato e progettato i saperi della modernità. Composto di atomi, molecole, particelle, la cui vita e età si misurano in miliardi di anni e in nanosecondi, e la cui azione corrisponde a codici di solidarietà e di conflitto ben più vasti di quelli sociali a noi noti, l’uomo che oggi conosciamo è certo diverso da quel semplice composto di alto e basso, anima e corpo, spirito e materia, ragione a passione sul quale si è fondata la definizione della “dignità dell’uomo” classica e moderna (Pico, Montaigne, Kant): non sembra più essere il prodotto esclusivo della storia. Più di recente lo studio dei misteriosi rapporti che intercorrono tra cervello, mente e cultura (che è come dire specie, individuo, società) hanno archiviato le tradizionali certezze in merito ai processi conoscitivi, al ruolo della memoria, alla natura stessa della psiche e del pensiero e reso fragile la “geometria delle passioni” (Bodei) sulla quale si fondava l’antropologia evolutiva della modernità. Più che principe e cittadino del mondo, più che essenzialmente “politico” e arbitro dell’insieme di relazioni che lo connettono nel suo cammino con la natura, la società, la tecnologia, più che un prodotto della sua storia, l’uomo della post-modernità, così come ce lo offrono le nuove scienze e i nuovi saperi del XXI secolo, appare un evento inatteso, una nuova scoperta. Più che attore esclusivo del suo tempo (la storia) ci appare come fatto e costituito da una pluralità di dimensioni e orizzonti temporali. Dall’homo hierarchicus (Dumont) e dall’homo politicus siamo inavvertitamente passati (forse per il breve tramite dell’homo oeconomicus – Dumont) all’homo complexus nel significato letterale del termine (complexus significa “tessuto insieme”) e cioè “tessuto insieme” ad altre esperienze, consociazioni, specie, individui, relazioni di potere e… altre storie.
7. Storia e storie.
Paleontologi, ecologi, embriologi, genetisti, microbiologi, biochimici stanno da poco più di vent’anni delineando le molteplici storie della vita: macromolecole organiche, codici biochimici, comunità di batteri, tipi di cellule, piani di organizzazioni, infinite strutture di reti sistemiche e solidali (che è come dire organizzazioni sociali) sono nate, si sono stabilizzate, si sono diversificate nelle ere del nostro pianeta. Sono emerse tracce di creazioni, di migrazioni, di metamorfosi, di catastrofi, di estinzioni di massa, di radiazioni evolutive e involutive, di colonizzazioni di nuovi habitat, di stasi e accelerazioni su scale temporali infinitamente complesse che svelano una pluralità infinita di storie e di eventi. Nel giro di poco più di cinquant’anni, il pensiero e la ricerca scientifica hanno fatto emergere una pluralità di storie e una pluralità di tempi a diverse estensioni, dimensioni e velocità: tempi geologici certi, misure temporali altrettanto certe delle particelle subatomiche, tempi biologici che dettano la vita e la morte di cellule, molecole, microrganismi; è stato scoperto e misurato il nanosecondo che si materializza nei processi neuronali e nei circuiti informatici. E si è scoperto che queste molteplici dimensioni interferiscono e partecipano alla stessa costituzione dell’organismo umano. A partire dalla fisica teorica, la ricerca delle origini ha sfondato il senso del tempo storico modellato su quello umano. Cosicché il governo della temporalità appare oggi una sfida del tutto nuova e un problema di connessione, concordanze, reti e trame che vanno ben oltre i confini del tradizionale discorso storico. La ricerca delle origini si è ormai dilatata, oltre l’antropocentrismo, a una galassia di vicende ed eventi per i quali il racconto cronologico, lineare e successivo della narrazione storiografica non basta più.
Come può competere il “tempo storico”, tutto umanizzato e destinato a raccogliere gli eventi relativi alle vicende umane, con queste dimensioni “altre”? E come può competere la narrazione dello storico, così radicata all’epopea umanistica della modernità, così monolitica (e ormai monotona) nella celebrazione dell’uomo come prodotto della storia e quindi homo politicus, rispetto a questa complessità? L’uomo storico si trova oggi a confronto con eventi ritrovati e ricostruiti che espandono la vicenda umana al di là e oltre la Storia. A fronte di quella che viene definita una nuova “odissea della specie” (Soppelsa), la storia ha perso il monopolio del passato; il tempo “storico” si restringe paurosamente rispetto agli orizzonti temporali della vita dell’universo e l’uomo storico della modernità non è più il paradigma del tempo.
Misurato sulla scorta di questi nuovi saperi e delle storie che essi raccontano, il processo del disincanto (cioè quello di laicizzazione e di umanizzazione del tempo praticato nei secoli XV-XX – Gauchet, Dahrendorf, Habermas) rischia di essere poco più che un processo di estraniazione dell’uomo dal mondo, un percorso di alienazione e un errore di prospettiva (Gauchet). Che Rousseau avesse davvero ragione? Che il “ritorno alla natura” oltre le arti, oltre le scienze, oltre le opere dell’uomo in società, comporti automaticamente una reversione del tempo storico, una decolonizzazione della temporalità e un azzeramento della storia (Baudrillard, Tarpino, Ricoeur)?
Oltre il muro della storia (oltre l’illusione della sua fine) si aprono nuove dimensioni narrative e la Storia in quanto mitografia o “tempo sacro” (Habermas) della modernità è costretta a segnare il passo perché è il soggetto del racconto, l’uomo, che ha perso la sua esclusiva struttura a dominanza storica; la società stessa, come prodotto dell’innalzamento storico, ha perso (insieme alla sua proclamata razionalità-necessità) la sua centralità al mondo. L’uomo e la sua società narrata devono ormai convivere con altre storie, altri racconti, altri soggetti. Insomma è il diritto di cittadinanza dell’uomo nel mondo (altri dicono ormai nella biosfera e addirittura nella noosfera: Morin) che sta cambiando le sue basi.
8. Nuovi orizzonti, nuovi territori.
I nuovi orizzonti della conoscenza (quelli del XXI secolo del quale noi storici siamo generalmente disinformati) offrono, infatti, un diverso approccio gnoseologico, e più in particolare, a livello epistemologico, rendono difficile riconoscere la “scientificità” della scienza, svelano la mutata condizione dell’uomo rispetto alla sua rassicurante e impraticabile centralità, ne indicano la complessità e la pluridimensionalità, fissano il destino della specie a livello cosmico e archiviano l’antropocentrismo (cioè l’eurocentrismo) che ha fatto la strategia di sviluppo, progressiva ed esclusiva, della cultura occidentale nei secoli della modernità. L’insieme dei rapporti tra il cervello e la mente, tra mente-conoscenza-esistenza, pongono oggi in primo piano processi conoscitivi che impongono nuovi compiti al pensiero e alla memoria, offrono nuovi territori da esplorare e lasciano intravedere una inattesa struttura del reale intesa come prodotto esclusivo del pensiero. Quello a cui forse ci troviamo di fronte è il ripristino delle condizioni di incubazione della modernità, quella zona incerta (situabile tra Umanesimo e Rinascimento, Oriente e Occidente, magia e scienza, e prima della rivoluzione galileana) nella quale l’immaginazione contende alla ragione il primato della conoscenza, il metodo analitico cede il posto a quello della pertinenza (Morin) e della opportunità, la collaborazione e la “simpatia” prevalgono sull’ordine analitico-classificatorio. La diffusione dell’informazione a livello planetario, la velocità di espansione e rappresentazione (divulgare, virtualizzare) delle conoscenze e la libertà-casualità del loro intreccio oltre i confini delle gerarchie e degli statuti disciplinari, ha poi messo in crisi il complessivo delle scienze umane (storia e filosofia, antropologia e pedagogia, ma anche economia, psicologia, geografia, scienze giuridiche e così via) alle quali era stato affidato il compito politico-ideologico di controllare e governare lo sviluppo della scienza a beneficio dell’uomo, della modernità e della società occidentale. Le discipline storiche che avevano il ruolo di snodo, e la Storia che era stata attrezzata per essere un vero e proprio “mercato comune delle scienze umane”, debbono ora porsi al confronto con una dimensione temporale e materiale infinitamente più complessa rispetto ai rassicuranti percorsi lineari, circolari, sinusoidale che hanno praticato fin qui.
La crisi di identità della quale stiamo parlando mi sembra trovare qui le sue profonde radici.
Per approfondire bisognerebbe partire dallo sforzo, che caratterizza le attuali strategie della conoscenza (del sapere e della comunicazione: quindi dell’educazione-formazione), di organizzare il dialogo e le condizioni di scambio tra le conoscenze neonate delle scienze di osservazione della natura e gli studi umanistici (essenzialmente pedagogici) allo scopo di ricollocare la complessità e la multidimensionalità umana nel suo nuovo habitat: la noosfera, ovvero la sfera della conoscenza come struttura specifica della realtà. Il cammino dovrebbe essere quello che separa l’uomo storico (homo politicus) dall’uomo globale (homo complexus) inteso come cittadino di una rete di comunicazioni e di feed back degli eventi su una scala ben più vasta di quella sociale e storica a temporalità lineare: “ogni essere complesso è infatti costituito da una pluralità di tempi, ognuno dei quali è legato ad altri con articolazioni sottili e multiple” (Prigogine). Non si tratta per altro di una esperienza ignota al pensiero storico del XX secolo: questo cammino verso la complessità e la pluralità dei tempi, del resto, se pur timidamente, è già da tempo iniziato. Personalmente conosco bene quello compiuto dalla storiografia francese, non certo il più marginale al nostro tema in discussione. Cerchiamo di riproporlo in estrema sintesi.
9. Civiltà, evoluzione dell’umanità, civiltà materiale.
Il punto di partenza della riflessione che ha portato al progetto-proposta di costituzione europea nasce in terra di Francia e coincide con la consapevolezza dei neocostituenti che “l’Europa è un continente portatore di civiltà” (se cominciamo così..!); si tratta di un fondamento di identità, di una idea forte che appartiene alla storia e all’esperienza europea e la stessa parola di civiltà è di invenzione europea.
Sono stati scritti molti volumi e altri ancora se ne possono scrivere sull’argomento, ma è opinione comune tra gli storici che la parola civiltà, nel significato che oggi le attribuiamo sia nata nella cultura illuminista francese, come culmine del processo di laicizzazione dei secoli XV-XVIII. La civilisation des moeurs stava a significare un processo di innalzamento della storia, una crescita spirituale e morale dell’uomo, nel contesto sociale e nell’ambito di una società a misura d’uomo, uomo inteso come evento centrale e dominante della creazione e quindi del suo sviluppo temporale: la storia umana ovvero la storia “universale”. La civiltà dunque è stata scoperta, interpretata e percepita come un processo esclusivo (il processo di incivilimento), come fondamentale caratteristica evolutiva dell’Europa che ne sarebbe a tutt’oggi “portatrice”. Il vettore di questo processo è stato individuato nel tempo lineare e irreversibile di origine giudaico-cristiana, il programma o software è stato infine l’idea di “progresso”.
Le varianti sul tema natura-progresso-felicità-filosofia sono infinite, ma il tratto che tutte le accomuna è quello di un processo di distanziamento-innalzamento (anche il più tormentato possibile) dell’uomo dalle sue “origini” brutali (il racconto delle origini è indispensabile per qualunque approccio storico) verso il suo destino di autocostruzione e autoaffermazione (Elias): dal basso all’alto, dal micro al macro, dall’individuale al collettivo. Nel concetto di civiltà non vi sono spazi residui rispetto al conflitto (tragico) dell’uomo con la natura (anche con la sua stessa natura – Hobbes) e con il suo specifico destino di dominio. Per questa strada, nel corso del XIX secolo, la funzione normativa del processo storico (e della storiografia) ha finito, per saldare in modo indissolubile il rapporto tra passato e futuro a tal punto da generare la vera e propria nevrosi culturale della modernità: la “malattia del futuro” (Benichou).
Nella prima metà del Novecento, proprio nella cultura storica francese, qualche perplessità e un certo revisionismo hanno prodotto una significativa variante sul concetto di civilisation des moeurs (cioè della nazioni e degli aggregati culturali e sociali) e della normatività prescrittiva della storiografia: il sapere storico è stato, infatti, tutto raccolto in una collana il cui titolo significativo (e polemico nei confronti dell’espressione dominante nella cultura tedesca di Storia universale) è stato quello di “évolution de l’humanité” (Febvre, Bloch). Qui l’idea di progresso spirituale si alterna a quella di “evoluzione”, meno immateriale, più complessa, meno esclusiva dell’uomo occidentale come paradigma dell’umanità tutta intera. Si scopriva insomma che il vettore temporale, pur nella sua linearità, non era univoco, che era possibile una pluralità di percorsi storico-evolutivi, una molteplicità di strategie di manipolazione del tempo e che queste davano persino luogo a obiettivi differenziati di “sviluppo” (Febvre) e cioè di civiltà.
Nella seconda metà del Novecento, sulla scorta degli studi della preistoria, delle nuove metodologie di ricerca sperimentale (la rinnovata antropologia fisica e sociale (Leroi-Gourhan) e la sociologia, poi per effetto della rivoluzione prodotta dall’antropologia culturale (Mauss, Levi-Strauss) e dalla linguistica (Sapir, De Saussure, Barthes), il paradigma della civiltà ha sfondato definitivamente i confini immateriali (ideologico-spirituali) per divenire (anche qui l’espressione fu ovviamente polemica) “civiltà materiale”. Qui le condizioni e le opportunità di evoluzione-innalzamento-distanziamento dell’umanità si complicano ulteriormente in virtù dell’insieme di relazioni che l’uomo (sarebbe meglio dire la “specie”) intrattiene con la pluralità dei soggetti dell’azione ambientale: gli ecosistemi fisici, geografici, climatici, tecnologici. Montesquieu alla fine riprende il ruolo che gli spetta e nell’indagine storica si riversa il complessivo delle metodologie altre: all’idea di evoluzione si sostituisce quella di “sviluppo” e la storia diviene “il mercato comune delle scienze umane” (Braudel).
10. Aperture, complessità, profondità.
Ma questo mercato, proprio per essere tale, è aperto ricco di scambi e contaminazioni inattese, fluttuante nelle sue merci e nei suoi valori. Sul piano della temporalità la linearità si complica: il tempo non solo scorre a velocità diverse (Bertelli), ma anche in diverse direzioni. Si scopre una storia “immobile” (Le Roy Ladurie), un diverso grado di “temperatura storica” (Levi- Strauss) a seconda degli habitat e delle culture, una vera e propria strategia politico-culturale del tempo sociale (Moro), una sua frantumazione feconda nella durata degli eventi (Braudel); direttrici diverse nel rapporto tra uomo e programmazione-narrazione del suo stesso destino (Foucault). Aggregati all’esperienza del concreto, “materializzati” per così dire, i concetti di civiltà ed evoluzione della civiltà o dell’umanità, mutano radicalmente di significato. Il racconto della storia si articola e disaggrega proprio perché entrano in scena altri attori che all’apparenza di “umano” (per lo meno agli occhi degli storici) non hanno nulla: gli strumenti e le tecniche, le specie animali consociate, le innumerevoli varianti delle specie vegetali, gli habitat climatici, la struttura genetica, in una parola la biosfera e la sua popolazione di ecosistemi. Si tratta di una complessità che implica continue, inattese scoperte e processi di revisione radicali, nei quali persino il segreto, il silenzio e l’oblio divengono piste, tracce e fonti ancora inesplorate della ricerca storica (Rossi). Il carattere teleologico e totalizzante della Storia universale moderna si corrompe e origina una sorta di ritirata semantica che è ormai facile declinare: progresso, evoluzione, sviluppo, mutamento, discontinuità. La Storia diviene il luogo di certificazione-spiegazione delle discontinuità rispetto al flusso maestoso di un tempo storico che ormai di predeterminato non ha più nulla. E lo storico entra in crisi, diviene “triste” (Marrou), osserva inerme l’implosione-esplosione del suo territorio di caccia, dei suoi paradigmi causali e persino del tradizionale concetto di fonte storica.
Quel che sembra essere cambiato nel corso del Novecento è al tempo stesso il “territorio dello storico” (Vovelle, Le Goff, Nora) e il ricercatore; insomma l’oggetto indagato e il soggetto indagante. La crisi del soggetto (cioè dell’antropologia classica della modernità) e la complessità che ne consegue, sono i due aspetti di un unico processo che, a partire dal 1989 (data convenzionale), archivia la semplificazione antropologica dell’homo politicus nel suo rapporto esclusivo cittadino-società-futuro, a tutto vantaggio della pluridimensionalità del rapporto uomo-mondo, specie-ambiente. Il cammino dalla civilisations des moeurs alla “civiltà materiale” sta insomma a certificare non il venir meno della centralità dell’uomo al mondo, ma le mutate dimensioni dell’uomo e del mondo: rispetto alla fondazione del XVI secolo, sono le prospettive di tempo e spazio nelle quali si iscrive la Storia che hanno cambiato sostanza, misura e profondità.
E così le storie e le piste di ricerca si moltiplicano, si moltiplicano le fonti, si moltiplicano le narrazioni e la ricerca del punto di partenza, del mito delle origini, si drammatizza. Si moltiplicano anche a dismisura gli eventi della storia passata e presente a tal punto che sarebbe ormai forse il caso di lanciare una “demografia degli eventi”. Sotto il peso della complessità e della multidimensionalità degli eventi si favoleggia di una “nuova storia”, di una “storia totale” (Le Goff) o “globale” (Furet) e di una storia che sia “la somma di tutte le storie possibili” (Braudel). Il progetto è ambizioso, ma decisamente in controtendenza e riconduce al passato di una storia totalizzante come sapere egemone e onnivoro: negli anni Ottanta e Novanta, a cominciare proprio dalla scuola delle Annales, la Storia va in briciole, si polverizza (Dosse, Danto, White, Gallie, Veyne). L’integrazione dell’uomo nell’economico e nel sociale prima (storia economica, poi sociale), poi nell’ambiente naturale (geografia storica) e tecnologico (storia della tecnica), poi nei flussi di vita (demografia storica), poi ancora nella sfera psico-biologica (antropologia storica, psicologia storica, storia delle mentalità, dell’alimentazione, della malattia, delle donne, del bambino e della famiglia, del sesso e delle passioni, ecc.), invece di riorganizzare l’antropologia della modernità su nuove basi, ha contribuito a dilacerare, in un rito sacrificale, il soggetto attore della modernità, cosicché, spiegando se stessa, proprio la modernità ha svelato i suoi misteri e praticato la sua eutanasia.
I dubbi, le perplessità, le revisioni e la critica al sapere storico come residuale di un apparato ideologico e di potere del pensiero occidentale (pur nei nuovi approcci vagamente marxisteggianti) si sono poi intensificati nella seconda metà del XX secolo fino alla denuncia di un vero e proprio “tradimento degli storici” colpevoli ormai di essere “produttori della materia prima che viene poi trasformata in propaganda e in mitologia il che è vero soprattutto in un tempo in cui stanno scomparendo mezzi alternativi di produzione del passato: tradizione orale, memoria familiare e tutto quanto dipende dalla comunicazione intergenerazionale che sta venendo meno nelle società moderne” (Hobsbawm).
E infatti c’è anche di peggio. Lo sviluppo inatteso dell’universo digitale, l’avvento dell’era dell’accesso alla rete e l’incredibile densità-confusione del sistema di comunicazioni a livello planetario, hanno emarginato la scrittura come processo comunicativo, dilatato a dismisura lo spazio, frantumato ogni coerenza temporale, moltiplicato le testimonianze e le fonti, rendendone pressoché impossibile il controllo interpretativo, il senso e il significato. A fronte dei nuovi media (che ci ostiniamo talvolta a confondere con le “comunicazioni di massa”) la scrittura, roccaforte della storiografia, è divenuta l’ultima ridotta di un sapere assediato. Il “mercato comune delle scienze umane” si è insomma globalizzato davvero a dispetto degli storici che ne vorrebbero il controllo, mercificando gli eventi con evidenti effetti inflattivi e recessivi. E’ “lo sciopero degli eventi”, e di conseguenza la fine o metamorfosi del tradizionale “discorso” storico (cioè del “comporsi di proposizioni relative agli eventi storici e alle loro connessioni”, Aron). Quel che cambia è la metafora stessa del sapere storico: la Storia era stata vissuta prima come “cumulazione” (patrimonio), poi come “innalzamento” (processo di discontinuità) infine come processo di integrazione/identità e ora sembra coincidere con un particolare modello di “comunicazione aperta” costituita da una rete instabile di eventi. Al tempo storico con i suoi ritmi successivi, lineari, accelerati si sostituisce lo spazio sociale e culturale; alla cadenza cronologica la simultaneità così che “oggi sperimentiamo il mondo non tanto come lunga esistenza che si svolge nel tempo, quanto come una rete che collega punti riavvolgendosi nella sua stessa matassa” (Kunar). L’individuo post-moderno vivrebbe così una condizione strutturalmente astorica fatta di presenti puri e senza relazioni (Jameson), mentre il controllo della dimensione spaziale e del suo possesso “qui e ora” diviene esclusiva del senso di se e della propria identità personale. Scomparsa la “presenzialità del passato” (Huess) oggi si osserva la “perdita del tempo storico” (Romitelli).
Insomma, a mio parere, è evidente che in questo mutato clima antropologico e comunicativo il discorso storico si complica ben oltre la vocazione “artigianale” degli storici. Il percorso verso la complessità che caratterizza il metodo storico nella seconda metà del XX secolo, e del quale siamo figli, non è solo il risultato dell’invasione nel territorio storiografico degli assunti e delle scoperte che le scienze della natura e della società (così feconde a partire dalla fine della fisica classica e dalla revisione darwiniana, dalla rinascita dall’antropologia culturale e dalla storia delle mentalità) riversano nel “discorso” storico(cioè in questo specifico linguaggio relativo all’insieme di relazioni tra gli eventi), ma è anche la conseguenza di una delocalizzazione del soggetto rispetto al corso di quel tempo “umano” che è il tempo storico.