La cultura è il prodotto e, al tempo stesso, il fattore strategico dell’evoluzione della specie. Al pari di molti altri sistemi culturali, che hanno accompagnato e accompagnano la vicenda umana, la modernità è un prodotto circostanziato nello spazio e nel tempo: l’Europa occidentale, i secoli XV-XX. Storia, politica, futuro costituisce una sequenza di parole chiave che può caratterizzare e, in qualche modo, spiegare la specificità di questo modello di cultura. Tuttavia i processi in atto di globalizzazione nel sistema delle comunicazioni umane, e ciò che ne consegue in termini di integrazione e confronto tra culture, ha profondamente indebolito questa sequenza. A detta dei più, anche la parola declino dovrebbe ora caratterizzare l’esperienza culturale che chiamiamo modernità e sembra giunta essere al suo capolinea. E tuttavia oltre il declino… 

Modernità e altre catastrofi – Caratteri e confini – i paradigmi del mondo alla rovescia… – … e le novità del presente – Storia e storici.

“L’essere umano deve viaggiare. Solo in terra straniera egli può essere se stesso; a casa propria deve invece raccontare il suo passato che, nel presente, si trasforma in una maschera pesante e dissimulatrice”

Rahel Vanhagen

“La Storia si costituisce nell’atto della sua narrazione, che ordina l’accadere degli eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel fluire insignificante del tempo”

 Umberto Galimberti

“Riflettere sulla forma grammaticale e sulla struttura del linguaggio in cui viene costruita la storia, sui divari culturali dei costrutti temporali, sulla psicologia della concezione temporale, sui differenziali temporali e di contemporaneità dei processi, sulle velocità storiche, è di estrema importanza per la elaborazione di una metodologia (auto)critica dell’analisi storica”

Rolf Petri

Modernità e altre catastrofi.

Prerndiamola alla lontana, come compete a uno storico che guarda con distacco e da lontano. Da molto lontano. 

In Principio vi è un istante, un nanosecondo o un picosecondo, insomma una particella di temporalità fatta di materia insondabile, massa, energia; un luogo vuoto e immensamente pieno. Poi un botto enorme, una specie di boato senza suono e solo fatto di luce, il big bang. Poi vi è una danza creatrice e feconda di atomi, particelle, protoni e neutroni che si combinano in infinite alleanza e abbandoni, fusioni e scissioni. Ad altissime temperature, la catena delle reazioni termonucleari ha generato al tempo stesso materia e antimateria, spazio e tempo e non è improbabile che in qualche remoto angolo di qualche galassia vi sia un antimondo in tutto simile al nostro che, proprio per questo, neppure incontrandolo riusciremmo a riconoscere. Tredici miliardi di anni fa, miliardo più miliardo meno, tutto è cominciato così. Oggi sappiamo che questa è l’Origine. La genesi prevede l’espansione immensa e simultanea dell’universo, galassia dopo galassia, stella dopo stella. Il sole viene “alla luce”, è il caso di dirlo, quattro miliardi e mezzo di anni fa, insieme al suo sistema, Terra compresa. Sulla Terra le prime forme di vita vengono ora datate quattro miliardi addietro, la biosfera e cioè la sfera della vita si forma…. E poi l’avventura comincia (Altschuler).

Secondo una cronologia ormai nota, la vita si radica ed evolve, era dopo era, lungo il corso di centinaia di milioni di anni, una “storia breve” rispetto a quella dell’universo. La danza creatrice continua tra successi e insuccessi. Nulla di rettilineo o ritmato dal tempo “storico” così come noi lo percepiamo; vi sono stasi, rivoluzioni, inversioni di marcia, metamorfosi e mutazioni, programmi di riforma e adattamento, estinzioni di massa (se ne contano ormai cinque), poi ancora fasi impreviste e imprevedibili di rilancio della vita. Un filo rosso collega, in qualche modo, le prime forme di vita con l’età dei mammiferi. Quest’ultima avventura, nella quale siamo direttamente coinvolti, si misura sul breve termine, sessantatre milioni di anni. 

La genesi cosmica prevede anche la sua apocalisse. La catastrofe finale sarà annunciata dall’invecchiamento/raffreddamento del Sole. La procedura, sul medio termine, prevede un aumento progressivo della luminosità della nostra stella madre: allora le forme di vita del nostro pianeta scompariranno e poi Gaia diventerà sterile, un relitto cosmico che non vale neppure una esplorazione. Vi è di peggio. Sul lungo termine la superficie in espansione del Sole, divenuto ormai una gigante rossa, sarà vicina all’orbita del nostro pianeta e il suo disco incomberà sulla Terra occupando la metà del cielo. Poi quel che resta di ciò che chiamiamo “il nostro mondo”, cadrà a spirale e nell’oblio verso le profondità della stella morente per effetto dell’attrito con l’atmosfera solare. Il mondo finirà nel fuoco. In alternativa, se al fuoco dovesse sfuggire allontanandosi dal Sole, il mondo finirà nel gelo e nel ghiaccio. La notizia confortante in merito a questa certa apocalisse, matematicamente certa, è la previsione dei tempi: il medio termine si misura sull’arco di un miliardo di anni, il lungo termine è previsto in altri cinque miliardi. Di tempo ce n’è quanto basta per lo sgombero, l’allestimento di un’Arca, la colonizzazione di altri pianeti, la continuità della vita così come è esistita su Gaia.

Ma vi è un altro problema da superare più a brevissimo termine: il rischio d una nuova, imminente estinzione. Questione, si dice, di qualche migliaio o centinaio di anni.

Giunto buon ultimo nel processo dell’evoluzione, l’uomo sarebbe ormai al capolinea evolutivo per effetto del suo potenziale di sviluppo, della rapidità di successo caratteristico della specie e delle modalità di gestione di questo successo (Pievani). In un Avvertimento degli scienziati del mondo all’umanità, scritto e sottoscritto dall’intellighenzia scientifica in un’epoca ormai lontana (il 1992), si denuncia con enfasi il rischio di una rotta di collisione tra uomo e natura. “Le attività umane danneggiano in modo grave e spesso irreversibile l’ambiente e le risorse essenziali”, vi si legge, “Molti dei nostri comportamenti, se non poniamo loro argine, mettono a rischio il futuro che desideriamo per la società umana e per il regno vegetale e animale e possono alterare il mondo al punto da renderlo incapace di sostenere la vita così come noi la conosciamo”. All’origine di questo stato di cose e di questa apocalissi imminente, vi è dunque  un incidente inatteso dell’evoluzione: l’Homo sapiens, e cioè noi, la nostra cultura, la nostra civiltà.

Vale solo la pena di ricordarlo; la comparsa dell’uomo sulla terra non trova ancora concordi antropologi e paleontologi e neppure siamo in grado di affermare le modalità della diffusione della specie, i suoi tempi, la catena biogenetica evolutiva. Ma una cosa è certa, l’uomo “biologicamente” moderno, e cioè l’individuo in possesso di capacità tecniche e innovative produttrici di arte e dotato di autocoscienza e di pensiero morale (Homo sapiens) in tutto simile a noi, annuncia la sua presenza e si afferma definitivamente circa quaranta/trenta mila anni fa. Un soffio nelle dimensioni cosmiche che siamo in grado di ricostruire. La novità di questo strappo evolutivo, di questa non più riconciliabile discontinuità che ha il tratto di un nuovo big bang, consiste essenzialmente nel fatto che, da questo momento in poi, l’evoluzione non è più guidata da fattori biologici, ma da processi culturali. L’uomo, a fronte e contro la natura, produce cultura, sapere e tecniche che consentono accelerazioni e innovazione.

Anche qui una quasi unanimità si è realizzata tra gli osservatori del fenomeno. La cultura è stato l’elemento di novità nel mondo naturale e può aver avuto una funzione decisiva nei processi di selezione. “La forza che sembra aver accelerato il nostro accrescimento encefalico è uno stimolo di tipo nuovo: il linguaggio, il sistema dei segni, la memoria collettiva tutti elementi della cultura. Evolvendosi la cultura si evolveva il cervello che, a sua volta, portava la cultura ad arricchirsi di elementi sempre più complessi. Cervelli più voluminosi e dotati di maggiori potenzialità condussero a culture più complesse, queste, a loro volta, fecero sì che il cervello crescesse e migliorasse” (Wills); la cose sarebbero andate così. Un cerchio virtuoso e una progressiva, formidabile concentrazione di energia, massa critica, feet beck. E così la cronologia dell’avventura umana è una cronologia culturale e di modelli di cultura. Paleolitico superiore, inferiore, rivoluzione del Neolitico, nascita dell’agricoltura, della città, della scrittura, invenzione/appropriazione del tempo e dello spazio hanno progressivamente sottratto ai ritmi e al dominio della natura il monopolio evolutivo. Sull’arco di dieci, quindicimila anni, questo scontro natura/cultura, ha prodotto una svolta nello sviluppo, un punto di fuga che ci porta oggi alla soglie di una “cultura delle idee” e di una “società della conoscenza”.

Vista in questa prospettiva “globale” (fin dalle sue origini), l’avventura della specie è fatta di rinascite e rivoluzioni, mutazioni e metamorfosi di modelli culturali che si scontrano, si integrano, corrono paralleli, decadono ed evolvono in una danza creatrice le cui regole sono allo studio di neonate discipline e di una “scienza della cultura” in via di formazione (….). Semmai al capolinea della nostra evoluzione siamo oggi arrivati, ciò è accaduto in virtù della cultura e, in particolare, per effetto di un modello culturale di breve momento (questione di quattro o cinque secoli), ma di una tale complessità e velocità di cui solo ora forse ci rendiamo conto. È quello realizzatosi nell’Europa occidentale tra il XV e il XX secolo che, per convenzione universale, chiamiamo “modernità”. 

Proprio all’interno e in virtù di questo modello culturale si è, infatti, conseguito un balzo inatteso del processo evolutivo. L’homo sapiens ha fatto luogo ad una serie incalzante di nuovi prodotti dell’evoluzione: l’homo faber, oeconomicus, politicus, hierarchicus e così via fino a giungere all’homo complexus (e cioè “legato insieme” all’ambienta che lo circonda) che è l’uomo del presente (Morin) destinato forse, a sua volta, ad archiviare tutti quelli che lo hanno preceduto.

E proprio questa evoluzione biologico-culturale ha consentito un progressivo ed esclusivo processo di produzione/creazione del tempo e dello spazio a favore della specie la quale sembra ora doversi misurarsi con nuovi percorsi evolutivi e con una cultura della complessità in grado di superare i confini stessi della modernità.

Partiamo dunque dal punto a cui siamo arrivati, un capolinea. 

Caratteri e confini.

All’avvio del Terzo millennio il discorso sulla modernità è ineludibile, coinvolge tutti gli ambiti della cultura, confonde le discipline, sovverte le genealogie sino a fare della molteplicità dei dibattiti e degli innumerevoli problemi che essi suscitano, il problema. È innanzi tutto un discorso interiore, una tensione quotidiana della coscienza e dell’esperienza sempre presente e ovunque diffusa. Cosicché questo discorso è destinato a confluire, e rischia di perdersi, in una vasta biblioteca il cui titolo potrebbe essere la “crisi” o, per evitare ogni drammatizzazione, “il disagio della modernità” (Taylor). 

Ridotto all’osso, e facendo giustizia sommaria di tutti i testi raccolti in questa ideale biblioteca da qualche decennio, questo disagio della modernità ci è noto e si riassume in un facile paradigma. In termini di storia della cultura la modernità può essere definita come quel punto di fuga del pensiero occidentale che, a partire dal XVI secolo, segna l’avvio di un processo di disincanto del mondo, di distanziamento della società dalla natura e dell’uomo dal cosmo (Gauchet).

Naturalmente un definizione della modernità come particolare modello di cultura pone problemi ben diversi da quelli pur complessi che suscita agli antropologi l’analisi di una cultura primitiva, non fosse altro perché la modernità ha continuato a interrogarsi su stessa e ha di continuo ridefinito se stessa, ricercato le sue radici, le ragioni della sua esclusiva identità, le prospettive del suo mutamento. Ha scoperto le cultura “altre”, ha colonizzato il pianeta e avuto una eccezionale capacità di attrazione. Per una definizione, la strada obbligata è quella della semplificazione, tanto più rischiosa in presenza di un sistema culturale votato alla complessità. Ma, appunto , è una strada obbligata e per questa strada occorre, almeno in prima approssimazione, procedere. 

Nel suo significato più ampio la modernità è un modello di cultura, uno dei tanti che hanno accompagnato, nei tempi e nei luoghi l’evoluzione dell’uomo e che sono esistiti ed esistono ancor oggi sul pianeta censiti e studiati da etnografi, antropologi e sociologi. Si tratta di un’esperienza sorta e radicata nell’Europa occidentale, quindi eurocentrica, che privilegia la conoscenza e lo scambio di conoscenze come tecnica di evoluzione (destino) consapevole della specie umana, quindi antropocentrica. Il che comporta automaticamente un continuo potenziamento, nel tempo, del soggetto nel suo confronto scontro con la natura, una progressiva densità della socialità umana e una strategia di occupazione e umanizzazione dello spazio e del tempo. In questo senso storia (e cioè governo e umanizzazione del tempo), politica ( governo del tempo e costruzione di un ordine sociale alternativo a quello naturale), futuro (e cioè una strategia consapevole della evoluzione nel tempo e nello spazio prodotto e governato dall’uomo) costituisce la sequenza caratteristica della modernità.

Intendiamoci bene. Non vi è un modello culturale, anche il più remoto, che non abbia un attitudine di costruzione e compresenza con il passato; le funzioni della memoria sono una peculiarità dell’uomo “biologicamente” moderno e svolgono un ruolo da sempre decisivo nella tutela e continuità della specie e nella costruzione del patrimonio culturale. Ma l’idea che l’uomo sia un prodotto del tempo e che il tempo sia a sua volta un prodotto dell’uomo, che cioè la realtà nel suo movimento sia una conseguenza dell’intervento umano sull’ambiente che lo circonda e che vi sia insomma una circostanza storica che fa diverso l’essere umano a seconda del tempo in cui gli è toccato di vivere, questo è un’invenzione della cultura occidentale a partire dal XV secolo. Lo stesso si può dire per l’idea di politica: ogni comunità, per essere tale, deve elaborare, nella sua cultura, un modello di ordine delle relazioni sociali e cioè di collaborazione, senza di che non esisterebbe come tale. Ma la sfera del politico, nei secoli della modernità, è un programma di costruzione dell’ordine sociale plastico e flessibile, decisamente complesso e per necessità connesso all’idea di un tempo umano in continua mutazione. Per quanto infine attiene all’idea di futuro, è tipico della cultura della modernità aver realizzato una percezione della temporalità come processo lineare e irreversibile nel quale appunto il futuro intrattiene stretti legami con il passato e può essere dominato mediante programmi consapevoli di sviluppo dell’ordine sociale quel che chiamiamo la “costruzione” della società futura.

Quel che dunque rileva, ai fini di una definizione e spiegazione del modello culturale della modernità, è la particolare forza della sequenza storia-politica-futuro, l’intreccio e l’interdipendenza di queste parole chiave che ne hanno fatto una rete sistemica densa di energia e di capacità espansiva in grado di autoriprodursi nel tempo e secondo precise strategie. E questo è appunto la modernità.

Una sequenza, che sarebbe riduttivo definire di laicizzazione o emancipazione, e che ha genrato (e si fonda su) tre significativi assunti.

In primo luogo la modernità si caratterizza per affermare la centralità dell’uomo rispetto al mondo e il suo divenire misura di tutte le cose; ciò comporta una continua osservazione da parte dell’uomo della sua stessa natura e la conseguente obbligazione di conoscere il mondo per conseguire la posizione di dominio che gli compete. Il secondo assunto è costituito dal privilegio accordato alla razionalità nel processo della conoscenza e, di conseguenza, dalla pratica di una fiducia profonda nel sapere come strumento di appropriazione (ma anche di invenzione) della realtà. Infine (terzo assunto) il marchio più visibile della modernità è la fede nella possibilità di realizzare, per effetto della centralità dell’uomo e del privilegio del sapere, un ordine definitivo del mondo attraverso l’indefinito sviluppo della convivenza umana, il suo incessante progredire nel processo di emancipazione della persona, di dominio e trasformazione (si potrebbe anche dire creazione) del mondo.

Sul piano del rapporto con la temporalità questi essenziali assunti implicano un processo di progressiva laicizzazione del tempo, una sua reinvenzione in chiave tutta umana per far trionfare l’uomo e le sue opere su ogni rischio di discontinuità e di oblio. Proprio per questo la modernità, nella sua struttura più profonda, è un programma operativo di costruzione della città terrena nel continuo fluire di un tempo umanamente governabile e prevedibile, il che fa del sapere storico una passione civile e del tempo della storia un tempo tutto politico. La struttura stessa del moderno e della cultura della modernità si vede così collegata in un rapporto di specularità alla sfera del politico rispetto a tutta l’età medievale che la ha preceduta e che traeva invece la sua identità dalla sfera del sacro. L’homo politicus, la vita politica e la produzione di modelli e ideologie politiche conseguono direttamente all’arretramento della sfera del tempo sacro e al confinamento della sfera della religiosità in un luogo del soprannaturale estraneo alla polis a tutto vantaggio di un tempo umanizzato e storico nel quale si possono liberamente fondare le mitologie dell’origine della società e del potere che le governa.

Così, immersa nel suo tempo lineare caratterizzato da un fluire sempre più rapido, la modernità ha progressivamente lavorato, nel corso di quattro, cinque secoli, questi assunti sino a trasformare quelli che erano i punti di forza e i fattori di successo di un’età e di una cultura (quella dell’Occidente e dell’Europa occidentale) in altrettanti indicatori di crisi e di disagio. Da ormai più di un secolo la critica alla modernità si coniuga con il suo stesso declino e, in certo senso, l’originaria sequenza si è ulteriormente arricchita in quella che ci è familiare: storia, politica, futuro e declino fanno un tutt’uno nel comune sentire. E per fondate ragioni.

La centralità dell’uomo e il progressivo disincanto del mondo hanno finito per generare una sacralizzazione dell’ humanitas, poi una polverizzazione individualistica (“un individualismo estremista” Bellah, o un “egoismo possessivo” Macpherson, o un “individualismo repressivo” Losurdo) sino a realizzare una soggettività che “minaccia di imprigionare l’individuo tutt’intero nella solitudine del suo cuore” (Tocqueville); cosicché quella che Kierkegaard volle definire “l’età del presente”, ha perso ogni dimensione nobile ed eroica della vita. Il lato oscuro del percorso dall’individualità all’individualismo, che caratterizza il ciclo del tempo moderno, è infatti un progressivo incentrarsi dell’uomo sull’io che appiattisce e restringe le nostre vite e ne impoverisce il significato in un miserevole narcisismo.

Il privilegio accordato alla razionalità come strumento della conoscenza ha realizzato, a sua volta, un processo di autolegittimazione della conoscenza scientifica e favorito la presunzione di una totale coincidenza tra verità ed emancipazione in virtù della sequenza ricerca scientifica – ricerca applicata – tecnologia – produzione di beni materiali – benessere – libertà. Si è assistito così all’insorgere di un primato della ragione strumentale, intendendo con ciò “il tipo di razionalità cui ci rifacciamo quando calcoliamo l’applicazione più economica dei mezzi disponibili a un fine dato” (Taylor). Si tratta di un uso della razionalità che intreccia potere e sapere mell’esaltazione della tecnologia e in base al quale la misura del successo è costituita dal massimo dell’efficienza e dal miglior rapporto costi-benefici. Ciò è apparso a tutta prima un processo di liberazione definitiva dell’uomo dai suoi limiti e dai suoi essenziali bisogni, ma il rovescio di questa mutazione della razionalità in ragione strumentale sta nella diffusa preoccupazione (divenuta ormai esperienza quotidiana) che il dominio della tecnica, in luogo di rimodellare il mondo a beneficio dell’uomo, riduca la nostra esperienza al puro scialo e alla sterile dinamica di produzione e consumo di beni materiali. Con il che l’intreccio sempre più stretto tra potere e sapere, in luogo di fondare la nostra emancipazione, rischierebbe di soggiogare la mente e di ridurre a zero il grado della nostra libertà.

Oggi la centralità dell’uomo ridotta a celebrazione dell’individualismo e il privilegio della razionalità ridotto a mitologia della ragione strumentale, rischiano infine di dare scacco alla speranza-programma propria dell’età moderna di realizzare uno stabile ordine del mondo in vista dell’emancipazione della persona umana. 

E così il terzo assunto della modernità, la fede nella possibilità di un progressivo sviluppo della socialità a misura umana e di un potere dal volto umano che la governi, minaccia ormai di trasformarsi in una sfiducia profonda, se non radicale, nei confronti della razionalità della città terrena. Detentore del sapere tecnologico e del potere della tecnologia, lo stato totalitario è divenuto, nel XX secolo, organizzatore di apparati repressivi formidabili che, ancor oggi, minacciano l’esistenza dei diritti del cittadino. Cosicché si registra ormai, se non il declino, certo la pericolosa mutazione della ragione e degli scopi della socialità politicamente organizzata. La forma Stato inventata nel corso del XVI secolo per assicurare un ordine definitivo alla socialità, sembra aver fatto luogo a un corrucciato Leviatano che si autolegittima e persegue finalità alternative agli obbiettivi della società civile. E la messa in disarmo di questo attore centrale o semplicemente l’ansia per la sua revisione lasciano intravedere all’orizzonte misteriosi poteri “ultranazionali” (ancor più che “multinazionali” o “sovranazionali”) che non si curano più della cellula sulla quale, e per la quale, la modernità ha fondato il suo immenso potere.

Storia politica, futuro hanno fatto divorzio e si sono trasmesse le loro proprietà negative; quelli che erano i punti di forza del sistema culturale che, a partire dall’Europa, si è imposto a livello planetario nel corso di cinque secoli, paiono oggi dei punti di debolezza. Che resta di questa sequenza forte nel sentire e nell’esperienza comune? Quale capacità di attrazione questo sistema di cultura ha sui giovani? E come si concilia con i processi di integrazione culturale in corso e lo scontro/confronto del pluralismo che rende possibile la mondializzazione della cultura?

Storia. Il sapere storico, nelle sue varie fasi di sviluppo, è stato senza ombra di dubbio un vettore privilegiato nella cultura della modernità. Nella fase matura, il secolo XIX e la prima metà del XX secolo, ha poi rivendicato e in parte ottenuto un ruolo di unificazione del sapere. Ha così costruito e trasmesso il patrimonio di idee forti (ideologie) del sentire politico della modernità, e con ciò ha fissato le strategie dell’agire politico e offerto le opportunità di una previsione/programmazione del tempo futuro. Ma, proprio per effetto del suo ruolo egemone e in forza della sua stessa espansione, l’esperienza storiografica ha subito l’impatto diretto della fase critica di questo modello culturale. A fronte della deriva del XX secolo e della crisi delle ideologie tradizionali, un vasto dibattito si è aperto sul significato e il ruolo del sapere storico; a fronte dell’emergere di nuovi saperi che accompagnano lo sviluppo tecnologico e dello sfondamento delle tradizionali categorie di spazio e di tempo, la storiografia appare una tecnica non più centrale per il governo del futuro, L’uomo come prodotto della storia pare oggi residuale rispetto all’uomo tecnologico e all’homo copmplexus che sembra caratterizzare l’era dell’innovazione e della cultura dell’accesso (Rifkin). Quel che si registra e si denuncia, da parte degli storici, è una sorta di “esilio del tempo” (…), di deperimento della “memoria storica” (…), di un emergere dell’oblio a fronte del dominio incontrastato del presente. Di più, la produzione infinita degli eventi, che l’istantaneità delle comunicazioni umane ha prodotto mette in discussione l’insieme dei rapporti lineari tra passato presente e futuro e crea una pluralità di tempi difficili da ricondurre al tracciato della Storia universale. Il che ha indebolito il solido rapporto tra Storia e politica. 

Politica. Nel sentire politico, infatti, il disagio della modernità coincide con il ripiegamento di ogni certezza in merito alle possibilità di governo del tempo: i progetti di lungo termine necessari per la costruzione della società futura non trovano più il loro naturale fondamento nell’esperienza del passato. Le generazioni si dissociano e perdono contatto tra loro con l’inevitabile conseguenza di una costante e irriducibile discontinuità culturale. Nelle nostre società industriali e tecnologiche, divenute ormai una sorta di villaggio globale, sta forse avvenendo qualcosa che assomiglia a un esilio del collettivo e della sfera pubblica. Viene meno la collaborazione e quel senso di amicizia tra gli uomini che è il significato più profondo dell’esperienza e della narrazione storica, e ciò fa emergere il pericolo di una nuova forma di dispotismo che non si limita ad opprimere i sudditi, ma li modella, li costruisce a suo piacimento. Ciò che oggi rischiamo di perdere è il controllo del nostro destino, ossia di perdere proprio quella centralità rispetto al mondo e quella facoltà di dominio e programmazione del tempo sulla quale la modernità ha fondato e costruito la sua stessa identità. La modernità sembra darsi scacco, sul terreno che le è più famigliare e la giustifica: la capacità di costruire consapevolmente il futuro. 

Futuro. Anche il futuro, dunque, cade vittima di questo processo di disaggregazione della sequenza portante della modernità, perché là dove “il passato non illumina più il futuro, l’uomo è costretto a procedere nel buio” (Tocqeville). L’emergere del soggetto e l’esperienza individuale rischia di ridurre l’uomo ad un evento istantaneo racchiuso nel suo tempo. I confini del presente che si dilatano ormai ad un vero e proprio oceano aperto alla libera navigazione della conoscenza, ma non esiste ancora una portolano che assicuri l’approdo ai nuovi saperi e alle opportunità che le nuove velocità del tempo offrono all’avventura della specie. E forse il più grande disagio della modernità, il sintomo della sua crisi e del suo declino consiste proprio nella incertezza in merito ad ogni possibile colonizzazione del futuro. 

Il primo interrogativo che vien fatto di porci è, allora, che cosa vi sia oltre questo confine buio, cosa davvero vi sia oltre il declino.

I paradigmi del mondo alla rovescia…

A tutta prima quel che ci sembra di incontrare è un mondo rovesciato o, meglio, una cultura alla rovescia rispetto a quella che abbiamo praticato fin qui. Un nuovo modello di cultura che, per opposizione, è stato definito nel recente passato come “postmodernità”.

Sull’argomento si è andata cumulando, nel corso di pochi decenni, una letteratura sterminata di proposte interpretative, definizioni, paradigmi esplicativi. Inutile richiamarla perché è ormai nel nostro quotidiano; l’idea e la percezione di un mutamento radicale, di una metamorfosi e di uno sfondamento del muro del tempo e dello spazio della modernità, è divenuto un comune sentire, una pratica di vita. Ne parliamo facendo ricorso a termini come globalizzazione, mondializzazione, era dell’accesso, cultura planetaria e così via. Atteniamoci, per cominciare, a un paradigma interpretativo che raccoglie un ragionevole insieme di indicatori per caratterizzare i due modelli di cultura: la modernità da un lato, il postmoderno dall’altro (Rossi).

La cultura della modernità sarebbe stata caratterizzata, nel suo ciclo secolare, da: 

– una razionalità universalmente diffusa che fonda il concetto stesso di humanitas e conferisce all’uomo e alla specie una risorsa esclusiva nella conoscenza della realtà e dell’evoluzione;

– quindi una ragione “forte” che costruisce spiegazioni totalizzanti del mondo e conferisce al pensiero scientifico un privilegio nella ricerca della Verità,

– una cultura dominata dall’idea dello sviluppo storico del pensiero come incessante e progressiva (lineare) illuminazione che assicura l’appropriazione di conoscenze e garantisce, nel tempo, l’identità e il successo della specie

– una cultura sorretta dalla certezza dello sviluppo storico come evento o serie di eventi positivi (progresso) e dalla certezza di un benefico impatto della tecnica come strumento di emancipazione e liberazione dell’uomo. 

Per contro la cultura che è succeduta alla modernità, e cioè quella che pratichiamo o è in via di formazione, che viene “dopo”, le succede e la supera, avrebbe quali caratteri essenziali:

– un progressivo indebolimento della razionalità intesa come legittimazione del primato dell’uomo nel mondo;

– una pluralità di modelli e paradigmi della razionalità non omogenei e vincolati al loro specifico campo di applicazione, ma generati da imprevedibili impulsi creativi;

– un nuovo approccio al pensiero scientifico in virtù del quale la scienza riconosce il suo carattere di discontinuità nella crescita e quindi l’imprevedibilità delle sue applicazioni; e la conseguente accettazione del fatto che scienza e tecnologia non rilasciano più Verità e non appaiono in grado di garantire la libertà morale e materiale dell’uomo;

– infine una progressiva dissoluzione dell’idea di ciò che è nuovo come conseguenza prevedibile e dominabile dello sviluppo (la successione automatica di vecchio/nuovo) e la conseguente affermazione del “nuovo” come valore in se.

Definita in relazione a queste opposizioni, la postmodernità sarebbe dunque una sorta di ripiegamento del corso tradizionale e rettilineo della modernità, un processo di revisione dei suoi canoni forti e del programma implicito alla sequenza storia, politica e futuro che la caratterizza, la spiega e ne ha fatto la forza centripeta a vantaggio dell’occidente e dell’Europa “portatrice di civiltà” , come appunto si legge nel progetto di costituzione dell’Unione. Un insieme di rinunce, di aggiustamenti e di declino.

Ancor più netta l’idea di declino la si può leggere in tutta la letteratura critica della modernità che ne annuncia la fine e la metamorfosi irreversibile per effetto di un imprevisto approdo del pensiero occidentale: quello all’era della tecnica. Il passaggio da cosmo-polis a tecno-polis, generato dall’emergenza tecnologica e da un pensiero il cui vero DNA sarebbe quello di generare tecnica, costituirebbe il confine estremo della conoscenza e della libertà umana; alla tecnica spetterebbe infatti il compito di espropriare l’uomo di tutto il suo potere fino a disumanizzarlo. È questo un lugubre salmodiare che fa il tono culturale del XX secolo. Principia nelle radici pensiero antistorico (Nitezsche) dell’antimodernismo (….), del revisionismo delle ideologie tradizionali (Lyotard), diagnostica il declino e la fine (Spengler), trabocca nel malessere della civiltà (Freud), annuncia la distruzione della ragione (Lukacs), la fine dell’intellettuale (Zolla), scopre una dialettica autoritaria dell’illuminismo (Horkeimer, Adorno), si intreccia con le interpretazioni del totalitarismo (….) fino a giungere alle correnti esistenziali e nichiliste che scuotono il secolo delle tre guerre mondiali e del materialismo alienante connesso all’uomo-massa (Prega y Gasset) e alla civiltà dei consumi. Un pensiero catastrofico, più che tragico, vagamente ossessivo fino a divenire un de profundis monotono difficile da far recitare alle giovani generazioni.

L’assunto è più o meno sempre lo stesso. “Se la tecnica diventa quell’orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi d’esperienza, se non è più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il modo di fare esperienza, allora assistiamo a quel capovolgimento per cui soggetto della storia non è più l’uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero «strumento», dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario” (Galimberti). 

Sarebbe insomma la tecnica e l’emergenza tecnologica il veleno omicida dell’esperienza della modernità e responsabile di una radicale revisione/rovesciamento   dei tradizionali modi di intendere la ragione, l’ideologia, la politica, la natura, e la stessa storia. E allora, anche qui, oltre i confini della modernità, il mondo si rovescia, la cultura inverte il suo corso probabilmente verso il buio, forse verso la barbarie. Ragione, ideologia, politica. Storia perdono di peso e densità, allentano quei reciproci legami che avevano fondato un solido sistema di cultura. 

Per tutti coloro che hanno dichiarato guerra all’avventura tecnologica, la ragione, di fronte alla centralità della tecnica, non è infatti più l’ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive cosmologie, ma diviene semplice procedura strumentale che garantisce il calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e gli obbiettivi che si intendono raggiungere. 

Le ideologie, la cui forza riposava sull’immutabilità del loro corpo dottrinale, nell’età della tecnica non reggono alla dura riduzione di tutte le idee a semplici ipotesi di lavoro

La politica, che un tempo assicurava la certezza di costruire l’ordine sociale, ora può decidere solo in subordine all’apparato economico, a sua volta subordinato alle disponibilità garantite dall’apparato tecnico. In questo modo la politica si trova in una  situazione di adattamento passivo, condizionata dallo sviluppo tecnico che essa non può controllare.  

La storia infine, che assicurava la produzione del tempo, ne dettava il moto e il governo fino a produrre il futuro, si scontra con il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fin etici e non controlla più la realtà posta in essere dall’imprevedibile sviluppo tecnologico. L’uomo, a questo punto, nella sua totale dipendenza dall’apparato tecnico, diventa astorico, perché non dispone di altra memoria se non quella mediata dalla tecnica, che consiste nella rapida cancellazione del passato per un presente vissuto solo come luogo di produzione-consumazione del nuovo.

Anche qui, rovesciamenti e ripiegamenti: declino. La sequenza storia, politica e futura sembra dissolversi e produrre l’archiviazione del modello culturale caratteristico dell’Europa dei secoli XV-XX. Vista in una prospettiva meno drammatica, ma non per questo consolante, la modernità sarebbe giunta infine la capolinea per effetto del suo rapido successo:in virtù della sua centralità al mondo e della sua facoltà di conoscere, l’uomo avrebbe ottemperato agli obiettivi che il modello culturale gli ha imposto; ha conquistato il mondo, piegato la natura, sostituito le specie concorrenti con i prodotti della sua tecnica. Tutto finito. E poi?

… e le novità del presente

Poi forse, oltre il buio, oltre le catastrofi (qui intese….), oltre la storia, la politica, il futuro, oltre il declino, vi è anche il cielo sereno. Vi sono nuovi orizzonti, nuovi continenti dell’esperienza da scoprire, nuove prospettive di vita. È poi così vero che si assiste a un definitivo divorzio tra scienza e tecnica, tra sapere ed esperienza,  emancipazione e sviluppo? La rete di comunicazione che avvolge il pianeta, la cybersfera, è solo un corazza plumbea, uno strumento di archiviazione del sapere e della libertà o un mare aperto alla libera navigazione?

Può anche darsi che la tecnica dia scacco all’humanitas, e che siamo giunti agli sgoccioli della nostra carriera di esploratori degli spazi terrestri, che gli imperativi che la cultura della modernità aveva fissato al pensiero si sono forse in buona misura raggiunti, tuttavia si deve registrare, nel corso degli ultimi quindici, venti anni una nuova entusiasmante avventura della conoscenza dell’uomo e del cosmo: la seconda rivoluzione scientifica.

Non vi è dubbio che questa seconda rivoluzione del pensiero scientifico ha preso corpo giusto un secolo fa con la teoria della relatività che ha aperto le danze di tutto un secolo di successi e di rovesciamenti del pensiero tradizionale (….). Poi , e con accelerazione crescente, questo abbrivio si rafforza anche in virtù dei supporti tecnologici che hanno reso possibile e imposto intensi livelli di collaborazione e integrazione tra scienziati e discipline. Cibernetica, teoria dell’informazione, teoria generale dei sistemi, teoria dei giochi intrecciandosi con altri campi di ricerca hanno, a loro volta, generato inattesi fasci disciplinari e reti sistemiche che offrono una nuova immagine dell’uomo, dei suoi comportamenti e della sua natura.

Ma questo elenco è incompleto, in continuo movimento e arricchimento, mobile, aperto, flessibile come lo è la cultura del presente che aggiorna e supera la sequenza forte della modernità (storia, politica, futuro) in un nuovo modello caratterizzato da dal nuovo convoglio semantico fatto di collaborazione, organizzazione, innovazione.

Questo panorama non deve dunque trarre in inganno. Qui non si tratta più di una genesi di specializzazioni disciplinari nel significato tradizionale del termine, e se di una prodigioso arricchimento dell’albero enciclopedico questa nuova genealogia del sapere ha proprio i tratti del labirinto, di un insieme di percorsi aperti e, in buona misura, privi di direttrici definite, di approdi sicuri (D’Almbert). Più che rigide gerarchie e specializzazioni, si tratta di piste di ricerca, che non svelano statuti epistemologici definiti, ma progetti di ricerca, di reti momentanee e mobili di collaborazione e luoghi di eccellenza. Lo statuto dei nuovi saperi è plastico, flessibile, “indisciplinato” e contraddittorio, è iconoclasta interdisciplinare e indicatore di quella cultura delle idee che caratterizza una nuova fase dell’esperienza creativa: l’innovazione (Negroponte).

Così oggi sappiamo che il cosmo è un immenso laboratorio chimico, che la vita è uno scambio di informazioni tra innumerevoli molecole all’interno di unità organica che chiamiamo cellula; che tutto la realtà organica e inorganica è fatta di una vertiginosa danza di atomi e risponde alle leggi della fisica; che l’uomo è una macchina molecolare e al tempo stesso un composto di cellule tra loro in continua collaborazione/competizione. Incominciamo a intravedere il tessuto e il significato di reti sistemiche di informazioni che dall’infinitamente piccolo vanno a spazi immensi e si muovono su scale di valori temporali un tempo ignote. Della materia, del cosmo e dell’uomo sappiamo molto di più di quanto si osasse sperare solo una cinquantina di anni fa e questo perché, in questo breve lasso di tempo, si è realizzata una stretta collaborazione tra la tradizionale pratica della ricerca e le intelligenze artificiali, una collaborazione che, è il caso di dirlo, ha messo le ali al pensiero. A sua volta questa collaborazione ha sviluppato, non solo nuovi approcci al sapere e nuovi saperi, ma una inattesa attitudine alla conoscenza e un suo ruolo di centralità che testimoni e attori della cultura della modernità potevano solo immaginare nei miti di Atlantide e della Nuova Atlantide (Bacone). Nulla di definitivo e di certo, naturalmente, nulla di trionfalistico in questa infanzia dei nuovi saperi. Anzi l’universo stesso del sapere è un tavolo aperto ai dibattiti, ai successi e ai rischi  impliciti ad ogni esplorazione. Ma che questo stato di cose stia modificando le basi stesse dell’antropologia della modernità e della convivenza è un’opinione diffusa:è la comunità scientifica e sono le massime istituzioni internazionali che parlano di una società della conoscenza e di un nuovo soggetto pronto ad abitarla. Insomma il distanziamento dal passato è vertiginoso, un distanziamento culturale, e i prossimi cinquant’anni (Brokman) sembrano destinati a produrre ulteriori accelerazioni in termini di novità.

Si può dunque comprendere come appunto la categoria del nuovo finisca in qualche modo per caratterizzare il tempo presente. Qui la discontinuità con il passato assume i tratti della mutazione o, se si preferisce, di una metamorfosi vera e propria: il nuovo non sarebbe più la conseguenza della opposizione fondante della modernità tra continuità e discontinuità, tra antichi e moderni, vecchio e nuovo, passato e futuro che ha dato ruolo e senso al sapere storico; il nuovo sarebbe una automatica generazione del presente il suo essere stesso, istantaneo e ovvio ancor prima che necessario. 

Vista appena in superficie questa metamorfosi non ha certo nulla di rassicurante perché nulla è scontato e non è possibile formulare alcuna previsione. Le nuove vie del pensiero e dell’esperienza portano in direzioni sempre inattese, impreviste e imprevedibili. Quel che forse si può indovinare è che la sequenza storia, politica, futuro sembra lasciare il posto a quella collaborazione, organizzazione, innovazione. Nulla di più.

È certo però che di fronte a questa nuova sequenza la storia perde la sua funzione rassicurante di garante della continuità del tempo e il suo ruolo strategico di controllo della velocità e direzione degli eventi passati in vista delle opportunità future. E allora, di fronte a queste novità del presente che è il nostro tempo, un tempo nuovo esso stesso, che ne è degli storici e della loro identità?   

Storia e storici.

“Probabilmente si verificherà assai presto nel modo di scrivere la storia ciò che si è verificato nel campo della fisica. Le nuove scoperte hanno portato a proscrivere i vecchi sistemi. Si vorrà conoscere il genere umano sotto quel particolare aspetto interessante che è oggi la base della filosofia della natura”, detto, scritto e firmato: François Marie Aruet Voltaire.

La storia non si ripete, le circostanze sono esclusive nel tempo e nello spazio, gli eventi unici e irripetibili. Tuttavia le nostre emozioni non hanno né luogo né tempo e la loro qualità rimane inalterata; il linguaggio che le suscita non si cura delle date, attraversa il tempo e lo spazio perché la comunicazione è la ragione e il significato dell’humanitas dall’homo sapiens in poi e forse anche prima di lui. I centocinquanta anni che ci separano da signore di Ferney, scompaiono nei pochi istanti nei quali il suo testo giunge a noi e nelle manciate di minuti che accompagnano la lettura delle pagine di un libro. È questa la magia del supporto tecnologico, l’arte della scrittura e della lettura, che, per convenzione generale, ha fondato la Civiltà e la Storia che è il suo continuo racconto. La contemporaneità del testo e del dialogo con l’autore, è il fondamento stesso di quel complesso processo di comunicazione che chiamiamo Storia.

Per questo le parole di Voltaire sono immediate, fresche e attuali, ci appartengono e parlano di noi, dei nostri stati d’animo e delle nostre circostanze del presente. E da questa citazione mi è parso opportuno partire (e poi concludere) per affrontare un tema di qualche interesse all’alba del XXI secolo, il secolo dei miei studenti e dei giovani ricercatori di storia: il mutato ruolo della storiografia e dell’insegnamento della storia nel tempo della postmodernità (o superamento della modernità, o modernità radicale, o era dell’accesso, della globalizzazione, dell’innovazione e così via). La rivoluzione scientifica in corso, sta oggi svelando un nuovo universo di conoscenze (che chiamiamo nuovi saperi) sull’origine e il significato della vita, sulla natura umana, sui rapporti tra natura e cultura. Le stesse dimensioni di tempo e spazio offerte della scienza e messe a profitto dalla ricerca scientifica paiono vieppiù inconciliabili con i canoni tradizionali del sapere umanistico della modernità. Cosicché la parole di Voltaire scritte in un clima di grande trasformazione del pensiero scientifico ci giungono dirette e immediate. Certo oggi, e sta qui la differenza, non siamo più alla ricerca di quella unità del sapere che la cultura europea ha inseguito nel corso dei secoli, oggi semmai ricerchiamo la collaborazione tra esperienze senza curarci delle discontinuità e delle gerarchie enciclopediche. Proprio per questo, però, avvertiamo che “probabilmente si verificherà assai presto nel modo di scrivere la storia ciò che si è verificato nel campo della fisica” perché “le nuove scoperte hanno portato a proscrivere i vecchi sistemi.    

Così le tre lezioni alle quali e dedicata la prima parte del libro (Identità e complessità; Tempo storico e percezione degli eventi; Storia, modernità e comunicazione) sono dedicate a ripercorrere il dibattito sul senso e il significato della storia, un dibattito in parte interrotto negli anni Settanta del secolo scorso e che può essere ripreso e attualizzato alla luce delle metamorfosi in atto e delle novità introdotta dai nuovi saperi.  Queste riflessioni sono state oggetto di alcuni interventi nel mio corso di Storia delle Dottrine politiche dell’anno accademico 2004/2005 e costituiscono un approfondimento delle riflessioni appena abbozzate in occasione del seminario di studi rivolto ai Dottorandi di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia della Società e delle Istituzioni (della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano). Il tema proposto, e certo non esaurito, era quello dell’identità dello storico nel clima mutato del XXI secolo, un tema imponente per dimensioni, profondità e coinvolgimento, ampiamente dibattuto sul versante della filosofia della storia, della metodologia storica, della storia della storiografia e dell’antropologia storica. Un argomento che pertanto può essere affrontato (e certo non risolto) da una pluralità di approcci disciplinari i quali, pur non consentendo un alto grado di sistematicità e una omogeneità di linguaggio, rinviano subito al significato di ciò che chiamiamo storia e al territorio che la ospita: il tempo storico. 

Sollecitato da qualche lettura e in virtù dell’esperienza professionale di ricercatore, per questa strada mi sono avventurato partendo da alcuni assunti che, per evidenza, fanno parte del comune sentire e che pertanto pongo in premessa. 

Per tempo storico intendo quella dimensione della temporalità (non cosmica, non biologica e non psicologica) del tutto colonizzata dal pensiero e dalla cultura, una dimensione che genera, ospita e ordina gli eventi relativi alle vicende umane. Una dimensione della temporalità che si può anche definire tempo-storia.

Per storia intendo quel sapere esclusivo del pensiero occidentale (da Erodoto a noi) in merito al tempo umano (una cronosofia) che ricerca la coerenza tra continuità e discontinuità del tempo lineare in relazione al succedersi degli eventi umani. Un sapere e un modo di pensare che, nel corso della modernità, ha assunto un ruolo privilegiato nello sviluppo della conoscenza e svolto una funzione di sintesi e organizzazione di tutti saperi. Storia dunque al singolare e non “storie”, perché l’uso del singolare collettivo è indicativo di un sapere che si vuole unico, autonomo e universale. 

Per storiografia intendo l’azione di scrittura della storia, con la precisazione doverosa che questo termine appare ormai povero e debole rispetto a ciò che vuole rappresentare, e cioè un formidabile utensile per il governo e il controllo dello sviluppo dell’uomo mediante la completa umanizzazione del tempo, degli eventi storici, del loro significato, della loro struttura comunicativa. Sarebbe forse più agevole, ormai, usare termini come cronosofia o storiologia. Presa alla lettera, infatti, storio-grafia designa la trincea comunicativa nella quale gli storici si sono rinchiusi estraniandosi dal dibattito sulla teoria della storiografia, sul senso e il fine del lavoro storico. 

Per modernità intendo infine, come ho qui posto in premessa, quel particolare modello di cultura, elaborato in Europa nel corso dei secoli XIV-XIX, caratterizzato dall’invenzione, costruzione ed emergenza del soggetto, dalla centralità dell’uomo al mondo e dalle responsabilità che gli competono nel dominio del mondo. Un modello culturale nel quale la storiografia ha svolto un ruolo di fondazione e di continua rifondazione. Un corso temporale e storico che può ormai dirsi concluso e che per ciò stesso suscita il problema di una ricollocazione o ridefinizione del sapere storico e conseguentemente quello dell’identità dello storico.

Assunti, questi, da tempo generalmente condivisi e che portavano Henri Marrou a dire ai suoi allievi, già nel 1939: “voi siete giovani, ma la storia che scrivete non lo è più. Marciate in retroguardia: la storia è una concezione stanca. Ci fu un tempo non tanto lontano, in cui noi storici occupavamo i primi posti: tutta la cultura era sospesa ai nostri decreti, ai nostri oracoli. Stava a noi dire se si doveva credere in Dio, se l’Iliade era bella, se la Boemia era una nazione, se il papa era infallibile, se Marx aveva ragione…”. Così nel 1939. E noi? E ora?

La risposta a questo interrogativo, è ovvio, non è e non può essere definitiva. Innanzitutto la Storia è plurale e le storie che gli storici costruiscono e raccontano sono fatte di quella materia instabile e in continuo movimento della quale son fatti gli esseri umani: il tempo. E il tempo è, per ora, indefinibile nel suo essere e nella sua intima, invisibile materia; per contro il tempo umano, del quale la storia si compone, è una sostanza instabile e fragile.