Chiuse gli occhi e … più niente.
Gromo riuscì ad abbandonarsi, a farsi portare. Capì che bisognava fare un passo in più, un piccolo passo. Sul suo corpo pesava la luce rosea di un tramonto infinito, pesava la spiaggia, il mare, il respiro profondo, il peso leggero di un contatto impalpabile. Sentì anche un rumore di fondo, un ciarlare di mille e mille parole che scivolavano via come nuvole bianche, sentiva il timbro mutevole dei suoni di parole appena sconosciute eppure del tutto familiari. Parole presenti.
* * *
“Vuole che le racconti una storia, la mia storia?”
Era solo un grande sorriso, un sorriso davvero umano, più che umano. Un paio di occhi ammicanti, un volto ben disegnato, e come una luce di primavera un raggio, aiutatemi a dire … un raggio di … di giovinezza, uno schermo che annuncia la luce del sole di mezzogiorno: una splendida giornata di sole.
“Vuole che le racconti una storia, la mia storia?
Ma certo! Un paradosso immediato e palpabile. Sarebbe stato lui, Roberto Gromo, lui e solo lui a raccontarla una storia: l’esperienza così pienamente vissuta, il peso dell’esperienza, la sostanza del tempo divenuto materia duttile, plasmabile in ogni occasione, in ogni dialogo. Ma certo! Comprese che sarebbe stato un monologo, un cammino percorso infinite volte e tuttavia sempre nuovo, imprevisto, friabile, del tutto e sempre nuovo; perché la “tua” storia è sempre così.
Si immerse in quel sorriso e in quella annunciazione di primavera, di sole … e così, come sempre, una folla di immagini percorse il suo pensiero, un esercito di fantasmi in movimento senza ordine, sequenza, coerente armonia. Un fondale marino, quel viale percorso mille volte, il volto di Carlo, il treno che ti porta a Parigi, la copertina del libro che non trovi più, l’aula piena di studenti, i colori di quel piatto al ristorante, la biglietteria del museo, la passeggiata di ieri in corso Vercelli, l’immensità del Cervino, gli acquisti di domani mattina, il ricordo lasciato da Alceo, e ancora e ancora. Immagini e immagini nascoste in luoghi remoti, morte e resuscitate in un solo instante, come un big bang capace di creare tutto dal nulla, di svelare tutto: un caos senza ordine che si disperde alla velocità del pensiero. Impossibile resistere …
“Vuole che le racconti una storia?”
Ma sì! Ma quale? Il tempio di Efeso e di Afrodisia, Federico piccolo piccolo, il suo volto e il suo sorriso, il supermarket sotto casa, la casa di Via Tiziano, poi il lago,le veleggiate in Egeo? Traslochi, areoporti e viaggi. Parigi: rue Brancion, Elba Carrillo, Naria Rosa De Madariaga, altri volti senza nome, la camera buia degli appuntamento con Sandra. Un universo di fantasmi in piena dissoluzione. Relitti di stelle scoppiate e pianeti, asteroidi affollati in massa e mossi da un’incerta gravitazione. Collisioni e scomparse: luce e poi buio. Meteoriti in caduta libera destinati a scomparire per sempre oltre l’orizzonte del tempo vissuto. Immagini di un solo istante. Silenzio.
Questi inarrestabili fotogrammi non erano neppure ricordi e neppure frasi compiute, non parole ma colpi di luce e colore, comete sospinte da forze invisibili pronte per essere inghiottite da buchi neri che poi le vomitano in altre dimensioni dello spazio. La materia oscura … e poi?
I colori, sì, i colori dominanti di tutto quell’esercito di fantasmi in fuga venivano da quel sorriso invadente di dolcezza e amicizia: primavera, luce, intensità di luce. Silenzio. Un tessuto smagliato eppure … eppure una rete formidabile. Impossibile resistere, fare ordine, fermare.
Il prof Gromo, si abbandonò: che scivolassero via inghiottiti dalla notte di un universo in continua espamsione. Via, calma, adagio, nessun pensiero, nessun racconto possibile.
“Vuoi che ti racconti una storia?”
Il colore e la luce erano quelli che precedono il tramonto alla Martinica. La spiaggia è la Grand Anse di Sainte Anne. La sabbia è fine e sottile come la polvere dell’universo. E c’era l’odore del Caribe, quello di una atmosfera sospesa che assapori con gli occhi appena socchiusi e ti fa sorridere senza un perché.
Bisognava cominciare da lì o quest’immagine del tutto pesante era invece la fine di ogni possibile racconto?
Per esperienza e per mestiere, Gromo sapeva che ogni racconto prende forma proprio dalla sua fine, dall’esito di tutto il percorso narrativo. Tutto prende forma proprio quando l’evento è scomparso e diviene una data senza luce, né colori, né odore. Insomma un relitto fossile dal peso schiacciante.
Ma gli occhi erano aperti alla luce e le narici tiravano su l’odore del mare: una sostanza impalpabile e densa piena di sapori indicibili e … e ci fu ancora la minaccia di un’intollerabile invasione. Guatemala, Adriana, Usmal, e Palenque e il prof. Dellil, ancora Maria Rosa e Phelipe, e Ruffino e Lucien, la partenza per la Loira, la passeggiata lungo il campo da golf, ancora Federico, la cerimonia di laurea, buolevrd Jourdan, a Novara, il viale delle carrozze, e via così: istantanei fotogrammi che mescolavano ere diverse dell’esperienza, assorbivano tutto il tempo del mondo per rigenerarlo, e poi via. Ma ecco, adesso le immagini scivolavano lente, via e via senza peso come se tutto il tempo dell’uomo si stesse per sciogliere, per sempre. Poco, lento, adagio … via!
Lì, sulla sua spiaggia, oltre alla luce e a tutti i profumi del mondo, Gromo avvertì una presenza, un contatto. Sentiva su tutto il corpo la carezza di ciò che per tanti e tanti anni aveva chiamato “passato” e che adesso, e solo per un attimo, gli sembrava “risveglio”. Doveva davvero chiamarlo così? Nessuna fatica e senza pensiero. Colore, odore e … come dire? … ma sì: contatto del corpo con una estraneità, un altro corpo immenso e sfuggente: una carezza avvolgente e niente di più.
Ecco: il racconto poteva davvero cominciare da lì.
Gromo riuscì ad abbandonarsi, a farsi portare. Capì che bisognava fare un passo in più, un piccolo passo. Sul suo corpo pesava la luce rosea di un tramonto infinito, pesava la spiaggia, il mare, il respiro profondo, il peso leggero di un contatto impalpabile. Sentì anche un rumore di fondo, un ciarlare di mille e mille parole che scivolavano via come nuvole bianche, sentiva il timbro mutevole dei suoni di parole appena sconosciute eppure del tutto familiari. Parole presenti.
Dire che è l’udito a suscitare le più forti emozioni è un luogo comune, ma Gromo sentiva, “udiva”, le sue stesse parole pronunciata in mille occasioni e in mille luoghi dispersi e vaganti di storie non mai raccontate. Un brusio di tutte le voci del mondo che lo aveva e lo avrebbe accompagnato per sempre.
Quando tutti i sensi si mettono in moto e si danno scacco tra loro, allora accade che le emozioni prendono forma e, se non le puoi governare, le accogli e le sai nominare. Benessere, compiacimento, serenità diffusa, attenzione e attesa: che dire di più?
Per una sorta di moto involontario le mani di Gromo corsero ad accarezzare il suo stesso corpo: sentiva amicizia e un senso mai provato di ordine, armonia, ricongiungimento. Sentì il fremito della sua muscolatura, il peso delle ossa e il moto della articolazioni, sentì il respiro come se prima fosse sempre vissuto in totale apnea. Più giù e più giù. Per una magia inattesa le dita di Gromo pentravano oltre i tessuti: sentì un frusciare di cellule, sciami di molecole prone a danzare e più giù, più giù: atomi vorticosi nel vuoto di infinti universi. Poi senti il correre prorompente del sangue, un flusso formidabile che si trasformava in calore e desiderio, in presenza qui e ora. Qui e ora.
La luce era piena come un vento di primavera, Gromo chiuse gli occhi e … più niente.