l’inevitabile fine di Berto Romero

Romero, per gli amici di un tempo Rom, ha una storia, ma non ha fatto storia, la sua biografia è improponibile all’interesse di chiunque salvo per le vicende che ne hanno caratterizzato la scomparsa e che solo oro possono essere rivelate senza che ciò susciti disagio alla famiglia e agli amici i quali hanno voluto cancellare la memoria per l’insieme dei motivi che mi appresto a raccontare. 

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Della scomparsa del Professor Berto Romero, non resta traccia né memoria, così come poche e inutili testimonianze restano della sua esistenza. Una sorta di censura impedirebbe anche di parlarne per la eccezionalità e l’anomalia che ne ha caratterizzato la fine. La vicenda, rapida e clandestina, ha infatti un tratto a tal punto fantastico da sconsigliare la ricostruzione degli eventi che hanno segnato la sua scomparsa e ogni sorta di interpretazione dei medesimi.

La coincidenza che essa avvenne in occasione della festività dei defunti tra fine ottobre e inizio novembre del 2001, si aggiunge però al particolare senso di colpa di chi scrive e proprio queste circostanze determinano l’opportunità di una riesumazione. Per circostanze del tutto banali (il senso di colpa nasce qui) quest’anno non mi è stato possibile compiere l’atto dovuto di visita al cimitero che raccoglie le spoglie dei miei morti; sospinta dal disagio e dalla cattiva coscenza la mia memoria è approdata ai ricordi, e così ho pensato di resuscitare il ricordo dell’inevitabile scomparsa di un vecchio amico che di tomba non ne ha, che certo è stato da tutti dimenticato e che solo per un attimo (il tempo delle lettura di questo resoconto) ritornerà alla luce del giorno e del tempo. 

Questo il mio omaggio, la mia doverosa celebrazione di una pubblica cerimonia.

Romero, per gli amici di un tempo Rom, ha una storia, ma non ha fatto storia, la sua biografia è improponibile all’interesse di chiunque salvo per le vicende che ne hanno caratterizzato la scomparsa e che solo oro possono essere rivelate senza che ciò susciti disagio alla famiglia e agli amici i quali hanno voluto cancellare l’evento per l’insieme dei motivi che mi appresto a raccontare.

Per quel che ne so, la catena di avvenimenti che hanno fatalmente reso inevitabile la sua fine ha preso il via in una giornata umida e scolorita di tardo ottobre; una di quelle giornate nelle quali la fatica del giorno (pioggia, trasferimenti affannosi, incontri inconcludenti, e così via) si aggiunge all’inquietante attesa della notte che non promette nulla di meglio. Stanco perché impigrito, impigrito perché deluso dall’andamento della sua quotidianità, il professor Romero aveva deciso, dopo una mattinata di pioggia passata tra la macchina, i mezzi pubblici e la sporcizia complessiva della città stravolta da tre giorni di nebbie e temporali, di fare pausa, aspettare il buio della sera ormai precoce nella sua piccola casa e ammazzare la malinconia dell’inverno imminente con qualche buona lettura strappata alla sua polverosa biblioteca.

     Capita, come capita quando nel tuo studio, un po’ trascurato per disaffezione, passi lo sguardo sui libri accatastati e ormai privi di un vero ordine morale e intelletuale. Hai lì un tesoro che quasi non ti appartiene più, una collezione preziosa senza catalogo, un magazzino senza scaffali. Che fare? 

     Tutto: fare ordine, rigenerare e spolverare, progettare e riorganizzare in vista di future espansioni; e nulla: abbandonarti al vuoto di un’impresa impossibile, arretrare di fronte al compito immane, piegarti all’evidenza dell’inutilità degli sforzi. Tutto e nulla dunque, se non, disarmato e disperato, guardare questa sorta di caos primordiale che ti avvolge e rischia di annientarti. Ansia, frustrazione, inquietudine, senso di colpa, poi disperazione istantanea, vaga vertigine, ancora senso di colpa e ansia.  Che altro? 

     Capita, come capita quando ti viene una illuminazione, quando trovi un appiglio mentre stai cadendo nel vuoto o quando, nel mare in tempesta, la tragedia del naufragio viene istantaneamente cancellata dall’affiorare di un relitto che promette salvezza. Dal caos primordiale del professor Romero affiorarono le “Metamorfosi”: eccole lì, e proprio vicine fino a essere incollate insieme sotto una pila di libri sconnessi. Le Metamorfosi, quelle di Ovidio e quelle di Kafka, erano lì pronte a offrirsi come una fiaccola capace di vincere ogni sorta di tenebre, salvare la serata, accompagnarlo nel mistero della notte.

Berto Romero, chi lo ha conosciuto lo sa,  non è mai stato un lettore metodico. Bibliomane e non bibliofago, come ogni letterato ossessivo, aveva cumulato tesori per i tempi futuri, acquistato libri di ogni genere solo aperti, slegguicchiati e poi riposti in attesa di tempi sereni e migliori, di una dedizione e di un sacerdozio alla lettura che in genere nella vita non viene mai. Certo Kafka lo aveva letto in gioventù quanto basta per ricordarselo (e chi mai se lo può dimenticare!) e Ovidio lo aveva scoperto a scuola come un testo iniziatico che gli sarebbe stato a fianco tutta la vita, ma, a tanti anni di distanza, la lettura vera, il contatto profondo non c’era mai stato, mai.

     Di questo almeno siamo certi: Berto Romero scelse i due libri, si pacificò, si apprestò a passare in loro compagnia il resto della serata. Di più: sappiamo anche che non consumò la cena, fece una doccia e si mise a suo agio in poltrona. Lesse per almeno due ore, poi si sdraiò nel suo letto e ancora si diede completamente alla lettura. Tutto quanto accadde da quel momento, saranno state la nove di sera, e per tutto il resto del tempo che a Rom sarebbe rimasto, parte di qui, ne porta il segno e forse ne offre anche la spiegazione.

     Vi erano i libri, la lettura, il sonno incipiente e il vago fruscio di una strada bagnata e stirata dai pneumatici delle auto, vi era il rumore dei motori attutito, il vuoto di esseri umani ormai tutti rientrati nei loro gusci domestici. Era un particolare stato di sospensione e di quiete, di distanziamento direi, che tutti ben conosciamo e che di rado riusciamo a mettere a profitto. 

     Proprio in questa particolare atmosfera deve aver preso il via, da parte di Berto Romero, il distanziamento dal tempo (ore, giorni, minuti, data, stagione) di quella giornata di fine ottobre. Nello scambio tra la pagina stampata e gli occhi che la percorrono accadde che, a un certo puto, i libri presero il sopravvento su una mente indebolita dal sonno e pronta ad ospitare le immagini sempre più coinvolgenti che il testo produce da sé. E che testo!

Vagamente, questione di interminabili istanti, Romero intuì che quei testi prendevano il sopravvento su di lui e sulla sua volontà, non perché catturavano la sua attenzione, no; non perché erano una riscoperta o un desiderio finalmente appagato e neppure perché suscitavano il ricordo che di essi aveva portato con sé nel corso di tanti anni. Al contrario l’azione onnivora, attrattiva e, potremmo dire, di aspirazione che essi esercitavano su tutto il suo essere, risiedeva in una forza del tutto inattesa e in nulla prevista, inconciliabile con il ricordo. Erano dimensioni nuove e inattese, dimensioni altre; profondità insondabili. Affioravano, sì, ma non dal passato, non erano in nulla riconducibili a un’esperienza anteriore e non dicevano cose che ci si potesse aspettare da loro; erano davvero lì, presenti e concreti come un’esperienza tuta nuove e tutta vera. Non erano parole o frasi, ma immagini conturbanti e queste a loro volto non si materializzavano nella stanza e non erano né incubi, né allucinazioni; scivolavano dal testo e senza attraversare alcuna atmosfera penetravano all’interno di Rom e in zone nascoste che neppure lui sapeva indicare o riconoscere. Penetravano, si trasferivano secondo un ritmo che le trasformava, ne mutava la sostanza. Insomma quei testi si imponevano con forza materiale, erano formule alchemiche processi di trasmutazione insieme. Metamorfosi vere.

     Gli ultimi pensieri lenti e scoscesi di Berto Romero andarono all’idea di “trasfigurazione”, di “corrente forte” o corrente “mutevole e palpabile” insieme, di … come dire? Ecco: gli fu allora chiaro e limpidissimo come una giornata di pieno sole nel più uggioso degli inverni, gli fu chiaro quello che mai avrebbe potuto chiarire ad alcuno, quello che gli veniva donato in esclusiva e che mai e poi mai avrebbe potuto rivelare a nessuno e cioè che il significato vero della metamorfosi non è … cioè che metamorfosi è … è un tutt’uno col trasferirsi istantaneo del tempo, la sua assoluta compressione, il suo essere energia fremente, e ancora che questo trasformarsi, questo radicale mutare non è un passaggio dal prima al dopo, dal punto di arrivo al punto di partenza, non è un susseguirsi di forme, un comporsi o scomporsi di segmenti della materia che muta … è il concreto del mutamento che non ha tempo, è tutta lì … insomma è davvero solo ed esclusivamente “metamorfosi” vera. 

     Ecco, lo vedete che è impossibile da spiegare e neppure io so se davvero lo ho capito; certo il vecchio Rom non me lo ha mai detto, non avrebbe potuto; e solo quel che accadde dopo può dirci qualcosa di più di questo misterioso processo. Andiamo avanti, poi ognuno la pensi come la vuole.

Ci fu sicuramente un momento, un granello di tempo non misurabile, nel quale accadde qualcosa. La luce nella stanza si affievolì e non saprei dire se fu perché Rom la spense ormai pronto ad affrontare la notte. Ci fu un momento in cui gli occhiali scivolarono giù e il libro (quale dei due non si sa) andò a schiacciarsi tra le coperte. Ci fu soprattutto (deve pur esserci stato) un attimo preciso nel quale avvenne il trasferimento di tutta quell’essenza di umori sprigionata dal testo e questa porzione del tempo non era più tempo, ma tutta la temporalità solida e concreta, vibrante come energia. Tutta l’energia del cosmo, tutta insieme messa lì a fare da grembo, contenitore, forziere, tutta insieme e in unica volta. Rom certo la percepì senza dolore e senza violenza, senza porsi il problema se dovesse accettarla perché quell’energia era lui così come mai si era pensato e mai si era conosciuto. Ma era proprio lui.

     Poi si lasciò andare. Scomparve e ricomparve. Per un attimo scivolò nella banalità del sonno e nella snervata ovvietà dei sogni. I sogni di quella notte furono più o meno quelli di sempre, sempre identici nei loro simboli, identici nella loro incoerente azione scenica e nella loro naturale razionalità inconscia: nulla più che ruotine. Solo che Rom, e la novità stava proprio qui, sapeva perfettamente che erano sogni, e anzi, con infastidita esperienza, li prevedeva, li organizzava e li produceva: sogni di serie. Vi entrò, ne uscì. Senza stupore, senza domande e senza perché se ne liberò definitivamente: via! Li archiviò al passato. Sapeva che non avrebbe sognato più. Poi archiviò con assoluta naturalezza altre cose: il suo corpo come peso, il suo ansimare, i piccoli dolori che vibravano nel suo organismo, il senso steso che fosse la notte, una notte qualunque da passare per arrivare al mattino. Archiviò, cancellò, prese le distanze dal buio e dai rumori del buio, dal silenzio e dall’attesa del silenzio. Via! E la notte, ormai non più misurabile in termini di ore e minuti, passò. Poi venne il risveglio.

Quel che è accaduto poi (ore, anni, millenni, poco conta per la scala temporale in cui ci troviamo) e ciò che separa quel risveglio dalla inevitabile fine di Berto Romero è un genere di eventi più o meno noto. Non sta qui la rivelazione del resoconto che sto offrendovi. Quel che accadde è un evento naturale ben noto ripetutosi chissà quante volte: una metamorfosi. Esso è stato rivelato dalle poche testimonianze che sono sfuggite alla censura del sapere scientifico e ufficiale: in primis quelle tanto preziose quanto celebri di Ovidio e di Kafka. In particolare quella di Kafka ha illuminato una situazione in tutto analoga a quella occorsa al vecchio Rom: la metamorfosi in coleottero (che sembra, con buona pace di Ovidio, essere anche la più frequente per gli esseri umani). Le varianti sono quelle che posso personalmente aggiungere in virtù dell’esperienza diretta e dei miei personali, ultimi contatti con Berto Romero prima della sua inevitabile fine.

     Quando si risvegliò, quel mattino di fine ottobre del 2001, Rom si trovò immerso in una giornata di sole pieno, una giornata e un sole che non aveva mai visti. Via il buio e via la pioggia, via la nebbia, via la sporcizia incommensurabile della città. Era un cielo limpido, enorme come il paradiso dove c’è posto per tutti. C’era anche un tenue vento, delicato e cortese che spazzava via la pianura e sfondava ogni orizzonte. Così, ecco, in questo lucido risveglio della natura, Rom avrebbe potuto ritrovarsi così come era stato prima del sonno oppure, per effetto del processo di metamorfosi causato probabilmente dell’energia sprigionata dai testi, come un toro immacolato dalle ampie corna falcate, come un regale cervo nero, come un albero tanto possente da essere la sentinella di tutta quella sterminata pianura inondata di luce, oppure come un’aquila fulva e dominatrice delle altitudini, come un divino delfino… o come o come … ; fate un po’ voi. E invece si risvegliò come piccolo, oscuro, inaspettato e in fondo indesiderato coleottero, più precisamente come scarafaggio. Al vecchio Rom è andata così, ma comunque fosse andata, credetemi, sarebbe stato lo stesso.

     Nelle metamorfosi le cose vanno così che, senza accorgerti, nell’ordine dell’universo ti tocca un posto non tanto diverso rispetto a quello che ti sembrava di praticare nella forma corporea precedente, quanto nuovo. Le molte testimonianze orali ce lo certificano e quelle poche scritte che sono sfuggite alla censura della scienza ufficiale non lasciano dubbi. Kafka in particolare ha messo nero su bianco un caso emblematico non diverso da quello occorso al mio amico Berto. Anche qui un dejà vue. Stessa metamorfosi, stessa storia, stessi comportamenti, più o meno identico l’epilogo. 

     Abbiate dunque pazienza: gli elementi di novità vengono dopo.

Punto primo. Rom si trovò trafitto dal sole di quella stupenda giornata di fine ottobre, minuscolo, scuro e legnoso nell’oceano bianco delle lenzuola. Come ebbe a dirmi, che fosse uno scarafaggio non lo agitava: il problema vero era, essendosi addormentato supino, quello di rivoltarsi nel letto per assumere una posizione corretta. Dondola, dondola aiutandosi con le zampette e le antenne che facevano mulinello, alla fine con sforzi estremi ci riuscì. Poi scivolò una decina di volte sulla liquida superficie delle lenti degli occhiali che erano rimasti lì dalla sera prima in mezzo alla sconfinata solitudine delle lenzuola e poi andò a sbattere con tutte sue forze contro l’oasi rocciosa dei libri abbandonati sulle coperte all’arrivo del sonno.

     “Ero sfinito, distrutto; come se avessi fatto il giro del mondo; suonava la porta, suonava il telefono… un casino!”. Mi disse ricordando quei drammatici istanti. E allora?

     “E allora, e allora! Cosa volevi che facessi? A scendere giù dal letto non me la sentivo e poi non mi avrebbero più ritrovato … Chi mai sarebbe accorto che ero io davvero. Chi mai avrebbe potuto anche solo pensarlo? Son rimasto lì ad aspettare e non saprei neppure dirti quanto tempo. Aspettavo, aspettavo”. Poi ci fu un gran movimento.

     Vennero i familiari, qualche amico, il medico (una presenza inutile), persino lo psicologo lacaniano (una realtà superflua), fu chiamato un prete, poi un esorcista. Stupore incredulità, costernazione e rammarico, ma anche fastidio (diciamo pure ribrezzo). E subito scattò la censura. Su questo punto il parere fu unanime: “di questo non se ne parla a nessuno: silenzio” sentenziò la suocera corsa in aiuto alla figlia attonita e già provata dalla recente separazione con lo stesso Berto. Vi fu una riunione di parenti, amici e nemici e la stretta consegna fu il silenzio; silenzio con tutti. Basta, finito: il vecchio Rom si trovò tagliato fuori da tutto. 

     Per un attimo Berto cercò di negoziare, spiegare, avanzare proposte; ma capì che era tempo sprecato. “Poi sai, mi sentivo depresso, rovesciato dentro, avevo la nausea… Bene non capivo, non riuscivo a spiegare. Sentivo che i miei problemi incombevano, ma quali fossero non lo capivo … Sapevo che oltre ai miei adesso ne causavo a tutti, problemi a non finire”.

     Inutile dirlo! provateci voi a convivere con uno scarafaggio. Provateci solo a pensarlo. Più o meno ci siamo passati tutti e cosa abbiamo risolto? Nulla. Basti pensare alla logistica, all’assurdo dei problemi burocratici, alla follia del sistema di convivenza, di organizzazione alimentare, persino ai normali problemi cerimoniali del ‘buongiorno’ e buonasera’.

     Insomma i problemi ovviamente c’erano ed erano tanti. Nel resoconto fornito da Kafka sul caso da lui riscontrato sono ben segnalati e valgono anche per il caso del mio vecchio amico Rom. Innanzitutto il disagio generale, anzi il fastidio: inutile dire che la sua presenza a tavola era a stento tollerata; poi le infinite prudenze negli spostamenti di tutti per evitare di calpestarlo divennero fonte di nervosismo: “Berto! Ma dove cazzo sei”, “Dico, ma insomma, vuoi rispondere si o no?”, “Ehi Rom, guarda che devo attraversare la sala: mi senti? mi vedi?”, “Hai visto Berto? ma che schifo! ma dove diavolo è?”, “Fermi tutti! Berto potrebbe essere lì sotto…”, “Ma come? vuoi usare l’aspirapolvere? e Berto!”. 

     Al fine di evitare drammatici incidenti con la scopa, la lucidatrice e l’aspirapolvere, si rinunciò a fare le pulizie e la madre di Berto divenne intrattabile. Gli voleva bene, sì (“Quanto si’ bello scarraffone mio!” andava dicendo nei momenti di buona), ma la situazione diveniva vieppiù insostenibile. Degenerava in fretta. E, inutile dirlo, con la sua amica del cuore (la sua fidanzata di tutta una nuova stagione della vita) le cose andavano peggio. Passi l’età, passi il suo carattere, passi anche il suo aspetto fisico al limite della pinguedine, ma l’attuale situazione di scarafaggio suscitava ovvia ripugnanza. Ci si avviò verso la rottura. 

     “Scusami”, le dissi nel tentativo di aiutarla ad accettare la situazione, “ti lamentavi del peso, non accettavi i suoi ottanta chili; adesso almeno non pesa più di sei o sette grammi, Poi non fuma neanche più … non mi dirai che ha dei vizi, poveraccio!”

     “Ma dico: sei mica matto? dico: ma ti rendi conto che è uno scarafaggio, lo capisci?”.

I pochi amici, vincolati al silenzio su tutta la vicenda in forza di giuramenti e ricatti, si dileguarono e vollero dimenticare. Un cerchio di solitudine quale Rom non aveva mai conosciuto, avvolse il coleottero e lo condannò alla clandestinità. Solitudine, ma anche negazione, cancellazione affettiva. 

     “Insomma, scusatemi”, dicevano alcuni con un lampo omicida negli occhi, “è uno scarafaggio si o no? e allora prendiamone atto”. “No, non è più lui”, si consolò l’ex moglie in spasmodica attesa di percepire la pensione in caso di una precoce morte dell’ex marito, “per me è come se fosse morto. E’ doloroso, soprattutto doloroso per me, ma è giusto che sia così”.

     “Ma quanto può durare questa situazione?”, si informò la suocera.

     “E’ del tutto evidente che questa situazione è al di fuori di ogni controllo”, sentenziò infine il medico di famiglia, “è un caso meno eccezionale di quanto vi possa apparire. Succede, succede anche sovente, ma la scienza non si pronuncia; non sa e non si sa. La reversione del fenomeno appare improbabile ormai: scarafaggio è e scarafaggio resta.  Quanto poi possa campare in queste circostanze: ummh … ma … non saprei davvero. Quel che è certo è che tutto dipende da lui, solo lui può fare qualcosa per sé stesso. Noi … Mah … ecco tutto; altro dirvi non so se non: silenzio, fate silenzio non parlatene più”.  

     Tacquero i fratelli, tacquero gli amici. La donna di servizio fu licenziata. La porta della stanza fu chiusa, la persiana abbassata, la luce spenta. Un deserto di plumbeo silenzio

     “E tuo figlio?”, ho chiesto al vecchio Rom in uno dei nostri ultimi, fugaci colloqui. 

     “Silenzio, per carità”, ha tirato fuori come un gorgoglio sofferto dalla scatola delle sue cornee nere, “silenzio e non farti nemmeno sentire”. Me lo ricordo bene, ansimava un po’, agitava le antenne e la sua voce si andava spegnendo. “Silenzio, lui non sa nulla ed è bene che sia così; me lo dicono tutti e io ne sono convinto. Lui sta bene, sta tranquillo e la sua è un’altra storia, un altro tempo. Una cosa tutta diversa. Non capirebbe, oppure capirebbe … sì anzi capirebbe, ne sono anzi sicuro, capirebbe e allora sarebbe peggio. Lascia che io pensi a lui e lui a me come se nulla fosse accaduto, per il resto silenzio”. Non se ne parlò più.

Non saprei dire come passasse il tempo e quanto ne fosse passato da quel suo fatale risveglio che cambiò e decise in un solo istante tutta la sua vita. No, proprio non saprei dirlo, non ricordo. Ma una volta, forse la penultima volta che lo vidi, mi aprì il suo cuore e fu toccante. Ormai trottava lungo le pareti di casa (in pratica solo della sua stanza), erano distanze enormi ed era sempre affannato, sfinito.

     “Come va, vecchio mio?” gli chiesi.

     “Ma come vuoi che vada? Una vita di merda”, mi disse senza grande emozione, “corro dal mattino alla sera, sono distanze enormi per me, sono stanco e sempre sfinito. Poi io ancora non ho ben capito qual è la mia vera età e se ne ho una. Leggere non posso più e nemmeno mi interessa. Figurati scrivere! A parlare ci si capisce sempre meno, ma poi cosa c’è da dire, anzi qui bisogna tacere. Non lo deve sapere nessuno, ci mancherebbe. Come mi sento? Non mi sento ecco tutto. E’ tutto cambiato, non so se dormo e quando dormo; non so bene se mangio e quando mangio, e poi il tempo … ma lo sai che non è più come prima. Il rumore degli orologi mi frastorna, mi fa impazzire e devo stare alla larga dal pendolo che va su e giù come un’ossessione: poi non ci vedo bene e non leggo le ore, il suono dei rintocchi non lo sento più. Mi verrebbe da chiederti che ora è e che giorno è, ma non ha proprio senso. Mah! Non mi sento ecco tutto; e neppure mi sento un altro … Direi che non sento affatto, o meglio: ecco … sento altre cose, molte altre cose … ma … Ma ancora bene non le capisco, non so”.

     “Ma allora il processo non si è concluso”, buttai fuori con un misto di paura e speranza, “allora vuol dire che sta succedendo qualcosa, che magari…”.

     “No, no amico mio; non nel senso che pensi tu. E’ tutta una cosa diversa, non capisco e non so spiegare, è vero … Ma … ecco, come dire … non è che si deve spiegare, qui le cose sono diverse. Noi, noi siamo …”, ma la conversazione si perse nel vuoto. Mutava il tono, diveniva sibilo frusciante, ritmo, trasmissione di onde emotive; era un’esperienza struggente e suscitava ansia.

     Devo dirlo per onestà. Provavo pena per lui, ma anche mi inquietava, mi infastidiva direi. Lo sentivo come una sorta di frantume dell’universo che andava via via allontanandosi dopo un’immensa esplosione. Forse non lo avrei rivisto più, ma nell’intimo proprio non lo volevo rivedere.

Le cose però andarono in modo diverso: lo rividi e proprio per questo sono in grado di offrirvi qualche interessante rivelazione che va oltre le poche notizie sfuggite alla millenaria ferrea censura che copre di piombo il mistero cosi comune delle metamorfosi. Rividi Rom, o quel che restava di lui o quel che lui era diventato per un’ultima volta. Fu davvero l’ultima e non ha più senso collocarla nel tempo. In simili situazioni (e quando anche voi ci passerete lo capirete benissimo) il prima e il dopo non hanno ragione, sono segni vaghi, confini incerti. E’ certo che il mio tempo e il suo non collimavano più, non erano neppure più specie diverse dello stesso genere. Non saprei dire quale davvero fosse la sua età e quale la mia in rapporto alla sua, né quanto tempo fosse trascorso e se fosse davvero trascorso. Ricordo solo le circostanze, quelle sì.

     Ricordo che penai a trovarlo nella penombra della sua stanza ormai abbandonata e in rovina. (“Berto Berto! dove sei? fatti vedere, ecco qui vieni sulla mia amno che parliamo un po’”). Ricordo che dovetti sdraiarmi per terra e schiacciare la faccia sul pavimento ormai lercio e unto come se fosse in via di decomposizione. Ricordo che dovetti tendere l’orecchio e tutto me stesso per sentire quel che ora vi dico. Lui non aveva più la forza di salire sulla mano: le zampette gli dolevano, diceva. Ma io penso che fosse ormai stanco di avvertire il ribrezzo che provavano i suoi interlocutori ad offrirgli una mano.

    Muoveva le antenne a fatica: era stanco, diceva. Diceva? no: la sua voce, se cosi la si poteva chiamare, era atona, era come l’ultimo risuono di un’eco; anzi era una eco di messaggi trasmessi attraverso profondità sconosciute, densità impensate. Non parlava, no: trasmetteva direi. Trasmetteva lentamente, ma con un ritmo possente che non avresti potuto ignorare, che personalmente non ho più dimenticato e che non ho mai sentito più. Non era più lui e neppure era qualcos’altro; era strano; strano, punto e basta. Non chiedetemi nient’altro e, se lo volete, ascoltate.

     “Qui succedono cose strane, lo sai? Strane, molto strane e ormai per me chiare, ovvie come i miei sogni di un tempo. Ovvie, ma certo: sono vere. Sai com’è, e lo capisci anche tu, lo capiscono tutti, lo fanno tutti quando sono soli: cercano, girano e cercano senza sapere cosa. Solo com’ero sono andato in giro a cercare gli altri. Quelli come me intendo. Mi capisci, sì? Poi alla fine li ho trovati giù nell’impiantito, nei buchi del muro, nelle gallerie che ci sono dappertutto, ovunque. Un popolo credimi, una moltitudine e tutti soli, soli per definizioni, per istinto, perché noi siamo fatti così. Noi siamo diversi, diversi davvero. Ma lo sapevi che noi siamo vecchi come tutto il mondo e molto di più? Che siamo qui fin dall’alba della creazione quando neppure c’erano i topi, i rettili, i pesci e noi invece ci siamo sempre stati? Milioni e milioni di anni … e senza fatica, senza fatica. Siamo così vecchi che non abbiamo nessuna età, siamo il tempo del mondo. E siamo soli, milioni, miliardi di anni di solitudine … e non è neppure così. Non è che siamo soli, semplicemente non stiamo insieme, ognuno è come se fosse tutti gli altri anche se è lì solo ….. siamo unanimi, sì … proprio così. Ecco qui ci troviamo a passare gli uni vicino agli altri, ma nessuno si ferma; corrono, corrono tutti. Non sempre funziona e talvolta ho l’impressione che ci sia un certo disordine, che non ci sia unanimità. Ecco c’è qualcuno che ragiona così: <<ma insomma! bobbiamo pur evolvere, aggregarci, fare massa critica. Non possiamo restare così per sempre>> ecco dicono così e portano l’esempio dei ratti: <<ecco, dicono, quelli si che hanno fatto strada e, proprio per la loro aggregazione sopravvivono a mille tempeste, nessuno potrà sterminarli mai>>. Ma poi altri dicono che no, che non è così e che il problema non è lì. Dicono che così come tanti infiniti altri i ratti se ne andranno via, se ne andranno via anche gli esseri umani. Dicono: <<Noi abbiamo visto ciò che vi era prima del mare, delle terre e del cielo, prima della luce e del buio. Abbiamo visto l’essenza ignea del convesso etere balzare verso l’alto e abbiamo visto scendere il flusso del tempo nelle acque del primo oceano. Noi abbiamo vissuto con gli angeli e con le magiche sfere; noi abbiamo camminato sotto le possenti zampe dei dinosauri, noi abbiamo lasciato il seme del mondo nel fango e nel ghiaccio quando gli esseri umani comparivano e scomparivano>>. Dicono così e questa è la verità. Noi siamo soli perché siamo oltre il tempo e dunque non conosciamo la solitudine. Qui non vi è la solitudine del tempo, non il cammino verso un ordine mutevole, non la ricerca di una luce che può tramontare … Perché noi siamo il frutto della metamorfosi non dell’evoluzione, non della storia, non della creazione. Noi siamo … Solo quando accade lo capisci, solo quando sei dentro nel flusso che scivola via senza un corso … perché allora capisci che la fine è inevitabile solo perché la fine non c’è. Ma tu queste cose non le devi dire, silenzio …  ecco solo il silenzio per poter comunicare… silenzio …”.

Mi parve che la trasmissione si fosse interrotta per sempre. Forse. Non saprei davvero dire, e questa fu l’esperienza più profonda e sconvolgente, se già fossi io a parlare per lui, se quelle parole e le immagini che ne derivavano, ormai divenute solo emozioni purissime, fossero sue o mie e di un me stesso mutato e che andava verso … Ma non saprei dire di più. La coda infinitamente tenue di quell’ultimo messaggio … di quello che temevo ormai essere il mio messaggio mi scivolò fuori come un soffio più o meno così: “Silenzio…. e poi perché no. Parlane pure: nessuno potrà mai capire”. Però ormai non erano più parole, ma solo un moto del cuore. Non ci fu più nulla. Finito.

Tutto il resto è spicciola cronaca del ricordo, testimonianza storica di una storia che non sarà mai scritta. Pettegolezzo, se vogliamo chiamarlo così. Proprio il 2 novembre di quell’anno, lo ricorderete benissimo, vi fu una piccola e insignificante scossa sismica. Nulla di catastrofico nei suoi effetti, ma sufficiente a scatenare qualche istante di panico e di angosce isteriche. 

    In casa di Rom vi fu un trapestio generale. Tutti aprirono le porte e si buttaron fuori di casa chiamandosi l’un l’altro a gran voce. Nel momento culminante tutti, chi sa mai perché, si ricordarono di Berto chiuso nella sua stanza. L’aprirono di schianto, la invasero subitaneamente e senz’ordine. “Dai Berto, fuori!”, “Vieni via, vieni via!”, “Fuori, fuori; dove sei?”. Ma non c’era tempo, sul pavimento si scivolava e si rischiava di cadere. Dai, corri, scappa, scivola e scappa, Berto finì sotto una suola ignota. Splasch! Era “inevitabile”, almeno così mi hanno detto.

     “Povero, vecchio Rom”, mi venne fatto di dire.

     “Ma sì, poveraccio”, deve avermi detto qualcuno, “Però, in fondo, lui è quello che sta meglio di tutti”.

Nulla di più ovvio, nulla di più vero.