Il rinvio
Quando sei lì, quando sei a quel punto tutti i ricordi vogliono uscire insieme e tu non sai più cosa ricordare. Dov’è la gerarchia? cosa vuoi ricordare davvero, cosa devi ricordare? Il terrore è una mancanza di gerarchia nei ricordi: qual è l’ultimo pensiero possibile? Che cosa devi ricordare, portarti via per sempre e qual è l’ultimo pensiero possibile, la chiave giusta della rednzione? alla fine, proprio adesso e adesso: ora cosa devi pensare? E’ così: tu pensi ai tuoi pensieri e li lasci andare e il loro libero fluire senza più governo produce una indicibile invasione interiore che ti rapisce, ti porta via per sempre. La paura, il terrore vero, vengono dopo.
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Ore 23 e cinquantasette minuti: ora giusta, ora esatta. Che l’esecuzione ancora volta era stata rinviata, Accis Cuosa lo seppe con la solita puntuale precisione, all’ora prevista, al momento giusto, con le procedure di sempre. Secondo la norma. Il cuore, come sempre, cessò di battere senza ritmo e in modo tumultuoso per riprendere la sua banale e rassicurante monotonia: uno, due , tre, quattro; avanti e indietro, indietro e avanti come il pendolo di un vecchio, sfinito orologio. Finì anche l’agitazione generale, il sudore freddo, il turbinare così rapido dei pensieri che non si controllano più, che neppure sono più tuoi, che fanno solo rumore, esplodono dall’interno, si incrociano, si incontrano, si perdono e poi si scontrano, si sovrappongono e si scacciano … agitazione, paura. E alla fine torna il silenzio. Ecco: calma, calma. Adagio. Aprire gli occhi adagio.
Per esperienza, e una ormai dolorosa esperienza, Cuosa sapeva (o meglio, era giunto alla conclusione) che in quegli ultimi fatali istanti, nelle ore che precedono la minaccia dell’esecuzione, sale qualcosa da dentro. Non esattamente la paura, no; quella che noi chiamiamo paura viene dopo. E’ una sorta di prodotto finale fatto di battiti sconvolti, di rumore nel vuoto; una caduta libera che ti scioglie da te stesso, un’estraniazione che non è neppure lo specchio remoto della tua immagine. Quando sei lì, quando sei a quel punto tutti i ricordi vogliono uscire insieme e tu non sai più cosa ricordare. Dov’è la gerarchia? cosa vuoi ricordare davvero, cosa devi ricordare? Il terrore è una mancanza di gerarchia nei ricordi: qual è l’ultimo pensiero possibile? Che cosa devi ricordare, portarti via per sempre e qual è l’ultimo pensiero possibile, la chiave giusta della redenzione? alla fine, proprio adesso e adesso: ora cosa devi pensare? E’ così: tu pensi ai tuoi pensieri e li lasci andare e il loro libero fluire senza più governo produce una indicibile invasione interiore che ti rapisce, ti porta via per sempre. La paura, il terrore vero, vengono dopo.
C’è come un tonfo precipitoso, la sensazione del vuoto. Cerchi di aggrapparti con disperazione, annaspi per non soffocare.. . e sei in caduta libera.
Cuosa attese il silenzio. Respirò a fondo mentre il cuore decelerava. In un certo senso, la morte era proprio lì: paradossalmente significava ritornare in vita, riprendere il controllo e mancare il tonfo finale, l’effetto estremo della caduta. Decelerava il cuore, decelerava il tempo; l’abisso si allontanava e ritornava il deserto della monotonia, una pianura liscia senza orizzonti e senza paesaggio. Così. Ora poteva ricordare e ricordare poche, piccole cose; una alla volta però. Pausa, calma, silenzio.
L’esecuzione era rinviata ancora una volta … e la procedura si ripeteva. Il rientro in cella, la notte, il sonno reso pesante dai farmaci, il risveglio e poi tutto come prima. La ruota estenuante di quella quotidianità angusta tanto da essere faticosa, esasperante tanto d essere nauseabonda. Tutto rinviato, tutto da rifare. Il risveglio, i medici, la visita dei familiari a ore fisse, diluite e lontane nel tempo di una vita che scorre come un fiume senza più corrente. Che ristagna. Il silenzio, la pausa, l’isolamento: il braccio della morte in fondo è una immutabile quotidianità senza attesa. Tutto qui.
Cuosa neppure si ricordava quando c’era entrato, non sapeva da quando stava lì. Gli altri glielo dicevano e addirittura gli facevano i complimenti. Banali, vuoti e stereotipi sino alla nausea della menzogna, ripetuti una, due, tre, infinite volte. Un campionario di luoghi comuni.
“Ma certo che devi resistere! Ormai sei un simbolo, una vera colonna portante”. “Sei più che una colonna, sei davvero un esempio! dopo tanti anni e con quale lucidità”. “Ma lo vedi che è un miracolo davvero? alla tua età e riesci sempre a rinviare!”.” Ma come fai a mollare? ormai dipende dalla tua volontà. Tu sei un gigante, sai reggere”. “Reggere? sai vincere, ecco quello che insegni. E lo insegni perché tu hai la testa davvero”. “Riuscirai a batterci tutti. Si, ci seppellirai tutti con il tuo coraggio e sarai un esempio”. “Ma certo che devi resistere! ce lo hai insegnato tu che bisogna battersi, non rassegnarsi mai …”.
Parole, parole, menzogne e parole, perché in fondo, oltre in cancello del Braccio le parole sono menzogne. Cuosa si era fatta l’idea, da contadino qual era, che le parole sono “le cose che si dicono”, e queste cose non hanno né forma, né materia; si dicono, ma non ci sono, sono bugie. In fondo proprio in quegli ultimi istanti che ogni volta annunciavano la sua impossibile morte, lui si rendeva conto di un fatto essenziale: di quanto gli fosse stato impossibile vivere, vivere davvero.
Silenzio. Rispetto al tumulto che precede l’esecuzione capitale annunciata, i rumori che vengono da fuori, quelli del mondo, sono come ovattati e non si percepiscono più. Lui li conosceva e non li ascoltava neppure. C’è il rumore dei passi nel corridoio, gli oggetti che si toccano e si spostano, c’è persino il lamento della sirena notturna, il battere delle ore del carcere, il chiedersi metallico della cella. Rumori che non si sentono più perché sono attutiti e poi tutti assorbiti dalla nebbia che precede il sonno.
Ecco: il braccio della morte, rispetto alle altre zone della prigione, ha questo solo vantaggio: assorbe i rumori, li rallenta e rallenta il tempo. Quanti anni! Ma da quanti anni veramente era lì? Cinque, dieci, tredici? O forse era lì da tutta la vita, o la vita era cominciata da quando era lì, o era un’altra vita, o era addirittura la vita di un altro? A questi problemi ormai Cuosa passava pigramente accanto senza che gli creassero più problemi di transito. Per un attimo li incontrava allo specchio al mattino, nel cielo di mezzogiorno, nella corrente d’aria inattesa che gli portava il profumo e l’odore di fuori. Incontri momentanei, casuali, senza problemi. Neppure più domande alle quale si debba porre attenzione.
Avvolti in questa densa nebbia di silenzio, i rumori lo avevano accompagnato nella sua cella. Come sempre l’esecuzione era rinviata. Come sempre la data era stata posticipata. A quando? forse lo avrebbe saputo al mattino successivo: un fatto di routine anche lì senza problemi, senza emozioni perché in fondo la fissazione della nuova data non avveniva sul suo calendario, ma su quelli del giudice, del medico, degli amici, degli avvocati, dell’ufficio amministrativo, dell’impresa di pompe funebri. Tutti calendari diversi e comunque in conflitto col suo. No: la determinazione della nuova data dell’esecuzione non avrebbe cambiato nulla, né le ore dei pasti, né le ore d’aria, né la visite dei familiari, né le fatiche del risveglio e del riassetto della cella per tutti i giorni di tutti i giorni del mondo. No, non avrebbe avuto nulla da fare e non poteva fare nulla per un giorno, un mese, sei mesi. Non c’era nulla da fare: il tempo concesso di lì alla data della nuova esecuzione non era una speranza di vita, era molto di meno e molto di più al tempo stesso, era semplicemente la vita di Accis Cuosa. Nulla di meno, nulla di più. E… ecco fatto!
Infine eccoti in cella. La porta se l’era chiusa dietro lui. Il letto bianco e rassicurante, il televisore spento, i pochi oggetti e la luce di rispetto, le palpebre pesanti … silenzio e pausa. Quella cella in fondo gli piaceva e in certo modo se l’era voluta lui, se l’era arredata nei sogni infantili quando voleva una cameretta tutta sua, poi ancor più avanti negli anni, quando, schiacciato dalla violenza del consumismo, aveva dovuto cedere a tutti, subire la violenza di tutti. La moglie, i figli, persino gli amici, le esigenze di “prestigio”, la tragicommedia dell’ “apparire” lo avevano spinto all’abbondanza, all’ingombro dei beni, di oggetti inutili, tanto inutili come le futili emozioni estetiche (si fa per dire) che sorreggevano questi stessi oggetti. Per un attimo, sempre prima di addormentarsi, Cuosa rivedeva nello spoglio biancore della sua prigione tutto un passato. Rivedeva e ricordava.
Ricordava non solo gli oggetti dai quali si era allontanato (si può anzi dire che vi avesse volontariamente rinunciato), ma anche le situazioni che questi stessi oggetti avevano determinato. La casa, gli arredi, i regali (che gli avevano fatto e si era fatto), i regali stessi che aveva fatto agli altri e le regole che aveva violato per farli, le violenze, le ipocrisie, lo squallore infinito di quel mondo che aveva lasciato e che stava ancor lì fuori dalla porta della sua cella, oltre il braccio della morte, nel mondo del rumore che lui, Alcis Cuosa, ora non sentiva fortunatamente più. Era per questo che lo avevano condannato? per questo scialo, per questa sua miseria interiore, che adesso si trovava lì? Ricordava.
E ricordava, ad esempio, non solo tutta la sua arroganza, ma quel che la sua arroganza celava: il suo fallimento, la sua infinita pochezza. La colpa era lì, tutta lì oltre i confini stessi della sua condanna. Era dentro di lui come il silenzio verso di lui, dei suoi tradimenti, l’ansia e l’angoscia (quella si) del silenzio degli amici che lui aveva tradito e che lo avevano abbandonato perché certo loro erano stati capaci di soffrire di più, senza clamore, senza violenza, senza arroganza. E se davvero fosse stato quel silenzio delle vittime a determinare la sua condanna? Ma davvero erano poi vittime, lo erano davvero o la vera vittima era lui costretto ora a vedersela con se stesso di fronte al continuo rinvio della sua esecuzione. Era stanco e le palpebre pesavano sempre di più. Stanco non del rinvio, ma stanco di dover riaprire ancora gli occhi domani, per affrontare non una nuova sentenza, ma un nuovo rinvio.
E così quella cella spoglia, modesta più che povera, fredda solo per essere dimessa, lo confortava: era simile a lui. Di libri lì non ce n’erano più: anche quella menzogna era finita. Di simboli del suo potere non ve ne erano più e neppure dei tormenti, che quello stesso potere così vuoto aveva sempre suscitato, in lui restava traccia. Ma sì! La sua casa, l’unica possibile, era davvero quella. Nel silenzio, nel vuoto e in attesa di superare l’ultima barriera di vuoto … poi l’impatto finale. Quale giorno, poi?
Ecco: l’assoluzione, se di questo si può parlare, arrivava puntuale tutte le sere. Gli occhi si chiudevano, si chiudevano sempre nella nebbia indistinta dei suoi ricordi. Cuosa si addormenta, Cuosa dorme: è l’unica cosa che ti riesce davvero mio povero cuore!
Dopo un sonno pesante arriva ancora il risveglio (che sia mattina o no poco importa, visto che ormai non vede più bene e finalmente lo sa). Il cuore ha retto anche questa notte (un altro rinvio), ma le ossa scricchiolano e ricominciano i dolori del giorno, la fatica della solitudine e del vuoto. Avere settantotto anni non significa nulla: potrebbero essere cento, mille, duemila. L’esecuzione è rinviata.
Routine, tutto è routine: prima la visita del medico (due ore di attesa), poi il giornale giù all’edicola sotto (il bastone, la coda affannosa), poi il supermercato a piccoli passi, a piccole dosi quelle di un vecchio solo che intorno a sé altro non ha che le minacce del movimento degli altri, le spinte, gli sguardi impazienti di chi sta dietro con il carrello rigurgitante; le minacce dei quattro scalini da farsi con estrema prudenza tra le onde tempestosi dei corpi degli altri in tensione perenne. Di un vecchio che i denti li ha persi da tempo nelle scazzottate agli angoli della vita che han fatto solo spicciola cronaca, mai storia. Poi su di nuovo: le scale sempre più lunghe, il corridoio ormai interminabile, la piccola stanza di un pensionato del quale nessuno mai si ricorderà più. Una stanza bianca, un televisore nero: l’ora d’aria è finita. Cuosa va avanti così da anni e non sa neppure quanti. Il giorno delle visite (quelle del figlio) in genere è mercoledì. Il figlio fa il suo stesso lavoro, ma è già come lui. A volte si ricorda, altre no. A volte gli impegni li mantiene, il più delle volte li delude; I ragazzi, si sa, sono fatti così (suo figlio ormai ha più di cinquant’anni).
Il professore tira avanti così, finché il cuore lo regge, e non sa neppure da quando, fino alla prossima data dell’esecuzione che per altro ignora. Ha deciso di non ricordare.