Il pensiero liberale, idealista, fascista, socialista, revisionista hanno offerto rappresentazioni della storia unitaria che trova ora nuova linfa nel federalismo padano e una alluvione editoriale è già in corso in vista dell’anniversario e delle sue celebrazioni. Ma la vulgata del Bel Paese è sempre la stessa: il primato dell’Italia e i caratteri dell’italianità, l’eccellenza culturale e storica della civiltà, il patrimonio culturale che il mondo ci invidia e l’intelligenza flessibile, creativa, intrisa di libertà di un popolo di risparmiatori, imprenditori, emigranti e stilisti che affronta la globalizzazione all’insegna dello “speriamo che io me la cavo”. Sarcasmo e ironia? Contestazione distruttiva? No: analisi della vicenda storica. Ecco un tentativo di ripercorrere il ciclo unitario alla ricerca delle strutture profonde del Bel paese, dei suoi caratteri originari, quelli che vincono sulla lunga durata e rischiano di vincerla anche sulla globalizzazione che è la rivoluzione del nostro presente.***
“È così. Il secolo della velocità! Dicono loro, dove mai? Grandi cambiamenti! Ti raccontano loro. Che roba è? Niente è cambiato in verità. Continuano a stupirsi e basta. E nemmeno questo e nuovo per niente” – Céline
Un territorio dissodato fino alla desertificazione – 150 anni, 129 governi – Le strutture originarie del sistema Italia – 1861-1922. Instabilità e continuità: i soliti ignoti – 1922-1943. Immobilismo, cristallizzazione e replica – 1943-1946 l’anomalia italiana: un provvidenziale vuoto storico – 1946-2008. Stabilità nelle ingovernabilità. I soliti noti – Un sistema di occupazione – Il paese testardamente replicante – Una nuova cristallizzazione? – Una storia senza discontinuità e senza racconto.
Un territorio dissodato fino alla desertificazione
Al pari del paesaggio e dell’ambiente, anche la storia del Bel Paese è un territorio dissodato, scavato, carotato, edificato, demolito, riedificato, inquinato fino ai limiti della desertificazione. La storia dell’Italia unita di cui ricorre il 150° anniversario, in un clima culturale e politico di emergenza e degno della Protezione civile, è nota fin nei minimi particolari, nelle pieghe e sottopieghe, a livello macro e microstorico. La foresta delle discipline storiografiche, nelle specializzazioni di comparti e sottocomparti, ha ribaltato da cima a fondo tutto il ciclo storico in un oceano cronologico di eventi e metodologie analitiche. I percorsi e gli approcci interpretativi si sono sprecati sino a cristallizzarsi in canoni rigorosi e rigidi. Il pensiero liberale, idealista, fascista, socialista, revisionista hanno offerto rappresentazioni della storia unitaria che trova ora nuova linfa nel federalismo padano e una alluvione editoriale è già in corso in vista dell’anniversario e delle sue celebrazioni. Anche se la storiografia nazionale non ha ancora prodotto un Mommsen, o un Michelet, un Gibbon o un Braudel, e se il dibattito stenta a materializzarsi, la vulgata del Bel Paese è sempre la stessa: il primato dell’Italia e i caratteri dell’italianità, l’eccellenza culturale e storica della civiltà, il patrimonio culturale che il mondo ci invidia e l’intelligenza flessibile, creativa, intrisa di libertà di un popolo di risparmiatori, imprenditori, emigranti e stilisti che affronta la globalizzazione all’insegna dello “speriamo che io me la cavo”. Sarcasmo e ironia? Contestazione distruttiva? No: analisi della vicenda storica.
Ecco dunque un tentativo di ripercorrere il ciclo unitario alla ricerca delle strutture profonde del Bel paese, dei suoi caratteri originari, quelli che vincono sulla lunga durata e rischiano di vincerla anche sulla globalizzazione. La rivoluzione del nostro presente.
È un esercizio al quantitativo della cronologia della vita istituzionale e politica dell’Italia unitaria a partire da alcune serie di dati che sono lì da vedere, non celati negli archivi, ma alla portata di tutti. Quasi tutti sono disponibili in rete.
Il trattamento dei dati è artigianale, come si addice alla profonda natura/struttura del Bel paese, in cifre grosse, e certo non immune da errori, semplificazioni, ma l’esercizio, a mia scienza, è in qualche modo nuovo. Un primo spunto sul quale riflettere.
150 anni, 129 governi
I dati sono lì da vedere e basta fare i conti. Nel corso dei 150 anni della storia unitaria il Bel Paese ha prodotto 129 governi con una durata media di vita, in cifre grosse, di 1 anno e due mesi ciascuno. Se si contano e si escludono i 20 anni, 8 mesi 25 giorni dei governi Mussolini, e i 25 anni di privazione del diritto di voto, la media scende quasi a un anno tondo.
Nella storia del Regno sabaudo, nel corso di 23 legislature (1861-1944) e in un ciclo temporale di 82 anni, se ne contano 65 (di cui 5 a regime fascista); il biennio della Luogotenenza in due anni (1944-1946) ne conta 4. Totale: 69 governi. Il biennio dell’Assemblea costituente (1947-1948) ne ha sfornati 3. Le 16 legislature della vita politica repubblicana (1948-2011) hanno conosciuto una intensa cronologia di 57 ministeri. Il computo finale è di 129 governi sull’arco dei 150 anni della storia unitaria.
A prima vista si tratta di una continua instabilità o, se si preferisce, di una instabilità come dinamica di sistema.
Nessuna legge elettorale, nessuna alternanza di coalizioni, nessuna crisi economica o guerra, nessuna vittoria o sconfitta o contestazione e protesta sociale, nessun innalzamento demografico e culturale, nessuna rivoluzione di regime (monarchia, luogotenenza, Costituente, repubblica) ha inciso su questa apparente fragilità istituzionale. Neppure l’esperienza totalitaria del Ventennio ha potuto contenere questa impressionante serie storica a cadenza annuale.
Anzi, se si tiene conto dell’immobilismo/stabilità dei dicasteri mussoliniani (che sono 5, dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943, sull’arco di III legislature per un totale di 7572 giorni filati) dominati dal monopolio del partito unico, allora il ciclo storico 1861/1922 (61 anni) offre una cronologia più intensa di 58 governi la cui durata media è di 1 anno, 1 mese e 7 giorni e del tutto simmetrica rispetto al regime della storia repubblicana (1946-2008).
Dal punto di vista contabile, ne emerge un modello dotato di un suo equilibrio e di una sorprendente simmetria/ripetitività.
Questa storia quantitativa della vita politico-istituzionale dell’Italia unita registra, infatti, tre distinte fasi:
1. una prima fase di continuità nella instabilità 1861-1922 (61 anni: 18 legislature e altrettante tornate elettorali, 58 governi con la durata media di 1 anno 1 mese e 7 giorni),
2. una fase di immobilismo e cristallizzazione, il “regime”, 1922/1943 (20 anni e 5 governi che si susseguono per effetto del ciclo normale di legislature 5 legislature),
3. una terza fase di ingovernabilità nella continuità 1946-2011 (65 anni: 16 legislature e altrettante tornate elettorali 60 governi con la durata media di poco più di un anno).
Qualora poi si volesse conferire all’esperienza berlusconiana il carattere di “regime” (una forma di governo populista consolidato e identificabile con un leader sorretto dal consenso popolare) per effetto della sua inusitata persistenza che gli attribuisce un ciclo continuato di governo di più di 8 anni si dovrebbe allora registrare una quarta fase:
4. una cristallizzazione nella instabilità, 2001/2011.
Letto all’insegna di questi dati seriali, questo calendario della vicenda istituzionale del Bel Paese assumerebbe quindi i tratti di un vero e proprio sistema dotato di un equilibrio interno e in grado di replicarsi in base a leggi costanti. Due cicli di vorticosa e affannata vita istituzionale segnata da un vera propria strategia delle crisi ricorrenti: 1861-1922 (58 governi) e 1946-2001 (55 governi) intervallate da due “regimi” di stabilità-cristallizzazione (1922-1943 e 2008-2011)
Le strutture originarie del sistema Italia
Le domande spontanee che queste cifre grosse suscitano automaticamente sono ovvie:
come è mai possibile la continuità storica in presenza di questa frantumazione cronologica che dovrebbe segnare una serie di fratture? Quale azione politica, quale programma operativo, quale alternanza o cambio della classe politica e di governo è mai possibile? Come si spiega la stabilità del sistema a fronte di indicatori tento evidenti di discontinuità? Dove è il mutamento e come è possibile lo sviluppo del Paese in presenza di questa fragilità strutturale dell’azione di governo sulla lunga durata di 150 anni?
E la prima risposta, anch’essa automatica e immediata, è in via di prima approssimazione la seguente:
questa è la struttura profonda di un sistema solido e autosufficiente, in grado di autoregolarsi e replicarsi sulla lunga durata. Un sistema privo di devianze e anomalie che corregge la sua instabilità-continuità con forti momenti di cristallizzazione i quali consentono, a loro volta, di generare e controllare nuova continuità nella instabilità. Queste sono le strutture originarie del sistema politico Italia. Una instabilità come ragione di continuità, un mascheramento dell’immobilismo attraverso il ricorso all’apparenza del mutamento stesso.
Certo la storiografia ufficiale e la politologia troveranno vizi di semplificazione e superficialità in questo approccio quantitativo fatto in cifre grosse e di prima approssimazione; mille variabili e mille dati mancano per un giudizio men che approfondito e rigoroso, ma i dati della vita istituzionale sono questi e forse di qui si può anche partire.
1861-1922. Continuità nella instabilità. I soliti ignoti
Facciamo qualche passo più in là o semplicemente qualche considerazione con altri dati che dai primi derivano. L’apparente frammentarietà/ingovernabilità del sistema nel ciclo regnicolo è confermata da una osservazione più approfondita: la reale durata dei singoli governi. E anche qui la simmetria e la struttura del sistema, se confrontati con il ciclo della storia repubblicana, come vedremo, sorprendono.
Nel ciclo 1861-1922 (58 governi) la durata media dei dicasteri (1 anno, un mese e 7 giorni) è parzialmente corretta dal calcolo cronologico. Nei fatti 39 governi durano meno di un anno, 15 non raggiungono i due anni di vita, due governi superano la prova dei due anni e altrettanti quella dei tre. I giorni di crisi (un calcolo difficile e certo impreciso) dovrebbero essere 310, meno di un anno. Il che denuncia che tutti i passaggi e gli avvicendamenti, come oggi si usa dire, sono “pilotati” ovvero incubati e risolti all’interno delle stesse compagini di governo.
Il battito del sistema è ad alta pressione e apparentemente a rischio di infarto, le contrazioni, non sono del tutto ritmiche: ai governi di brevissima durata si avvicendano governi di media (due anni) e “lunga” durata: oltre i tre!
Altro correttivo al regime di apparente instabilità è il ricorso all’indicatore del personale politico. A ricoprire l’incarico di presidente del consiglio dei 58 governi sono chiamati 26 primi ministri. Di questi solo 10, vere e proprie comparse, non hanno replicato l’incarico, e si perdono definitivamente nella memoria della storia patria. 10 hanno invece replicato 2 volte l’incarico e potremmo definirli i protagonisti ricorrenti della storia unitaria nei primi 61 anni del Regno (un ciclo di 2/3 generazioni). Le comparse e i protagonisti lasciano poi il posto ai primi attori, coloro che hanno replicato più di due volte l’incarico che sono sei. Ma se si fa il conto delle durate in carica complessive e cioè del tempo speso a governare, allora si deve registrare che a cinque primi ministri va il premio di aver governato il Bel paese per 34 anni su un ciclo storico di 61.
Vale la pena di ricordarli solo perché, alla luce della storia del presente e con buona pace degli storici, questi primi attori e padri fondatori del sistema, risultano ormai del tutto ignoti alla memoria collettiva.
Minghetti (due incarichi, 3 anni 3 mesi); Depretis (nove incarichi,10 anni 9 mesi); Crispi (tre incarichi, 4 anni 9 mesi); Rudinì (cinque incarichi, 3 anni 7 mesi); Giolitti (cinque incarichi, 10 anni 5 giorni). Morale: in 61 anni cinque presidenti del consiglio hanno governato (sull’arco di 26 legislature) per complessivi 34 anni e 6 mesi.
Ancora un piccolo calcolo sempre relativo al personale politico. Nel ciclo 1861-1922 sono stati conferiti incarichi ministeriali a 301 soggetti. Se da questo conteggio si escludono le comparse (i poveracci che hanno avuto un solo incarico per poi scomparire nel nulla), che sono 122, 179 “professionisti”, di continuo replicanti, hanno occupato la scena politica sul corso di tre generazioni. […]
Tra il 1861 e il 1922 il corpo elettorale sale da 418.000 aventi diritto a 11 milioni e 550 mila elettori (dal 2% della popolazione al 23%) per effetto di quattro leggi elettorali. Ma stabile rimane, nell’arco delle 18 tornate elettorali, la partecipazione al voto che si assesta su una media del 57% con punte massime del 62% (1904) e 65% (1909).
Nello stesso ciclo temporale, è bene ricordarlo, 22 milioni di cittadini emigrano verso paesi più ospitali. A fronte delle comparse, dei protagonisti e dei primi attori, l’esercito degli scomparsi è soverchiante.
Quanto basta per tirare una prima conclusione, per quanto sommaria. Sull’arco di 61 anni (tre generazioni) il Bel Paese è stato governato da una classe politica sostanzialmente stabile che si avvicenda e si replica senza grandi mutamenti, poche nuove leve, nessuna frattura.
È il rovesciamento delle forme proprie al sistema di Antico Regime. Mentre la società di ordini realizza una procedura di mutamento storico in forza della quale “nulla deve in apparenza mutare purché tutto cambi” e sia promossa e governata la mobilità sociale, la storia corporativa delle élites nostrane sembra dotarsi di una procedura in controtendenza ormai codificata dal luogo comune: “è necessario che qualcosa in apparenza muti, perché tutto rimanga immobile”. Insomma un costituirsi di anticorpi per una battaglia campale contro la modernità della quale ancora oggi conosciamo gli esiti positivi.
1922-1943. Immobilismo, cristallizzazione e replica
A fronte di questo primo ciclo di instabilità/continuità, il celebrato Ventennio offre un quadro “contabile” radicalmente diverso e facile da quantificare.
Come si è detto il periodo considerato copre 5 legislature e registra la permanenza al governo di Benito Mussolini e del PNF per 20 anni e otto mesi. I governi che si susseguono sono fotocopie gli uni degli altri, gli incarichi ministeriali conferiti 102 e li ricoprono 71 soggetti. In questa compagine si contano 7 ministri “indipendenti”, tutti gli altri sono espressi dal PNF.
Fu certo una inversione di tendenza radicale, una stabilità che si tradusse in immobilismo della classe politica e di governo e registra una correzione della tendenza “storica” della sua narrazione seriale, ma la domanda è: questo ciclo di stabilità/monopolio del potere produsse innovazione sociale e istituzionale? Un balzo qualitativo nella classe politica e di governo? Una rivoluzione istituzionale e culturale tale da modificare in profondità le strutture originarie del sistema Italia?
La risposta è del tutto scontata e la hanno data il 25 luglio e l’8 settembre del ‘43. Al di là della violenza squadrista, dell’arroganza e del disprezzo di una classe politica cialtrona e incompetente, oltre l’oppressione di una retorica quasi infantile che fu un festival continuato di censure e menzogne, di rivoluzionario il fascismo non ebbe nulla. E fu questa la base vera del suo consenso: l’immobilismo, il freno rassicurante verso ogni possibile mutamento e la consolante rassicurazione che nulla sarebbe cambiato. Nient’altro. […]
Vent’anni di battaglia campale contro la modernità e la cultura moderna e, di conseguenza, vent’anni di processi di modernizzazione abortiti.
Sotto questa fragile crosta, mascheramento della realtà storica, il fascismo fu il punto arrivo grottesco (preparato e incubato con cura) del percorso compiuto in tutto il ciclo della tortuosa esperienza risorgimentale in salsa sabauda. Fu, come è stato detto da Piero Gobetti, “l’autobiografia della nazione”, della sua storia unitaria e del ceto politico che l’aveva governata nell’immobilismo. Fu lo strumento a cui venne affidata la sopravvivenza dei caratteri originari del sistema di un Antico regime dissimulato, che divenne società corporativa perché egoista, egoista perché incompetente e incompetente perché repulsiva ad ogni processo di innovazione. E così instabilità e continuità, come procedura di resistenza al mutamento di una classe dirigente fragile e blindata, si rigenerarono nell’immobilismo di un sistema in grado respingere con adeguata violenza, l’emergenza del nuovo che, oltre i nostro ristretti confini, ha segnato tutto il corso del XX secolo. E fu, paradossalmente, il futurismo, per un istante, a offrire tutte le icone necessarie alla dissimulazione.
Una intelaiatura, quella del fascismo, fragile, incerta e di breve durata per effetto della sua strutturale cristallizzazione. Vent’anni lunghi da vivere, ma dei quali, in pochi mesi, non rimase più nulla.
1946-2011. Ingovernabilità nella stabilità. I soliti noti
Facciamo i conti. In 65 anni (16 legislature e altrettante tornate elettorali) la Repubblica conosce il susseguirsi di 60 governi. Se si deducono 1750 giorni di crisi che accompagnano gli avvicendamenti (4 anni e 8 mesi), la durata media dei governi repubblicani è di meno di un anno. A leggere i manuali dell’esperienza repubblicana si fa fatica e si capisce poco forse proprio perché non vi nulla da capire: è già tutto noto, una replica depressiva.
Instabilità e ingovernabilità. Anche qui quell’endemica instabilità che si trasformerà in una vera e propria denuncia di “ingovernabilità” trova conferma in una analisi più attenta della cronologia di vita dei singoli governi. Nei fatti 33 governi durano meno di un anno, 22 non raggiungono i due anni di vita, e solo 5 governi superano la prova dei due anni. I giorni di crisi che intervallano i 60 governi (un calcolo difficile e certo impreciso) offrono la media di 29 giorni, meno di un mese. Il che denuncia che tutti i passaggi e gli avvicendamenti, come oggi si usa dire, sono, anche in questa fase, generalmente “pilotati” ovvero incubati e risolti all’interno delle stesse compagini di governo. E anche qui possiamo applicare il correttivo al regime di apparente instabilità è il ricorso all’indicatore del personale politico.
Comparse, protagonisti, primi attori. A ricoprire l’incarico di presidente del consiglio dei 60 governi sono chiamati 24 soggetti. Di questi solo 10, vere e proprie comparse, non hanno replicato l’incarico e di essi si è già perso il ricordo e la fisionomia. Sono 8 i protagonisti ricorrenti della storia unitaria dei primi 62 anni dell’Italia repubblicana, ma solo 6 hanno superato la soglia dei due incarichi: i primi attori.
Come sempre le comparse e i protagonisti lasciano il posto ai primi attori, coloro che hanno governato per più di 3 anni. E questi sono 7: Andreotti (2231 giorni: 6 anni, 1 mese 11 giorni); Berlusconi (3111 alla data del febbraio 2011: 8 anni, 6 mesi, 11 giorni ); Craxi (1207 giorni: 3 anni, 3 mesi, 22giorni); De Gasperi (2496: 6 anni, 10 mesi, 3 giorni); Fanfani (1389: 3 anni, 9 mesi, 24 giorni); Moro (2100 giorni: 5 anni, 9 mesi, 5 giorni); Prodi (1492 giorni: 4 anni, 1 mese, 2 giorni)
Conclusione: nel clima di instabilità e ingovernabilità permanente 7 primi attori hanno governato il Bel paese per 38 anni sull’arco di 65.