I mesi di luglio, agosto e settembre hanno segnato la messa a riposo del leader che ha scritto la storia del nostro paese (lo ha rappresentato tutto in sé stesso) per almeno un ventennio, forse anche di più. Responsabile della sconfitta in una guerra dichiarata ai fantasmi del comunismo. del ruolo sociale delle imprese e dello sviluppo democratico, Berlusconi è ormai quasi ininfluente all’interno del suo stesso partito e ancora incerto sulle vie di fuga. Ma gli effetti di questo 25 luglio 2011, ora come nel ‘43 sono un vuoto di potere, all’apparenza incolmabile, . Esposto ai continui attacchi del mondo di fuori e costretto ai continui ripiegamenti di un esercito in via di dissoluzione il Belpaese è ormai privo di guida e di una classe dirigente e di governo in grado di reggere l’impatto del continuo ripiegamento del fronte: una ritirata strategica che diviene rotta.***

Navigare al buio – 25 luglio (2011) – Una Repubblica di Salò?- L’8 settembre – La guerra di liberazione

Navigare al buio

La storia si ripete? Le vicende umane si replicano e ritornano su loro stesse? Sicuramente no: il tempo non è ciclico, non è assoluto, neppure lineare; ma la narrazione delle azioni umane rispetta canoni rigidi e le strutture del racconto definiscono attori e comparse, personaggi e ruoli che di volta in volta, e discrezione del narratore, offrono il significato delle azioni stesse e le rendono comunicabili, partecipate.
Così la metafora diffusa di una sequenza 25 luglio – 8 settembre – 25 aprile che circola da qualche tempo nei media per raccontare il presente attraverso il passato del nostro paese, restituisce alla storia patria il genere che le appartiene e con il quale siamo abituati a viverla e raccontarcela. E il genere non è quello epico, ma il tragicomico.
Piaccia o non piaccia, siamo alla svolta, al capolinea di tutto un sistema politico/sociale ( ma anche culturale) e navighiamo al buio: lo sbarco in Sicilia c’è stato ed è sotto gli occhi di tutti, il 25 luglio si è consumato, l’8 settembre è il presente di un Paese sconfitto nelle sue ambizioni e nella sua retorica, stremato nel suo quotidiano di bollettini di guerra che non riescono più a dissimulare la disgregazione della classe dirigente, abbandonato a sé stesso da una classe di governo pronta alla fuga.
Sto precorrendo i tempi con facili profezie e luoghi comuni che semplificano o nascondono la realtà? Per nulla, scrivo la storia del presente.

25 luglio (2011)
I mesi di luglio, agosto e settembre hanno segnato la messa a riposo del leader che ha scritto la storia del nostro paese (e lo ha rappresentato tutto in sé stesso) per almeno un ventennio, forse anche di più. Responsabile della sconfitta in una guerra dichiarata ai fantasmi del comunismo, al ruolo sociale delle imprese e allo sviluppo democratico, Berlusconi è fuori gioco, ormai quasi ininfluente all’interno del suo stesso partito e ancora incerto sulle vie di fuga. In questi mesi la sentenza è stata data senza più appello e seguirà l’esecuzione: fuori dal paese e fuori dalla sua storia.
Con i rantoli dell’autoritarismo berlusconiano si conclude anche il ciclo dei manutengoli: Bossi e Tremonti. Pari a lui non sono mai stati e ora ne seguono ansimanti il destino per vie tortuose e rischiose. Se il 25 luglio del 2011 non ha offerto una replica scenica di quello del ’43 (dimissioni coatte, arresto, istantanea dissoluzione di tutto il suo sistema di potere) è solo perché il genere del racconto non è quello tragico, ma tragicomico. Ma questo è un 25 luglio nel senso che ogni azione nella sfera del politico, ogni atto di governo, ogni grido di opposizione , altro non è che la frantumazione dell’intero sistema, un preludio alla fuga e una strategia del “si salvi chi può”; può durare mesi, ma l’azione scenica è ormai definita.
Ma gli effetti del 25 luglio (che appunto ne certificano il reale accadimento) ci sono: quel che si avverte e si vive è il vuoto di potere che “una simil orma di pié mortale” lascia dietro di sé. Esposto ai continui attacchi del mondo di fuori (agenzie di rating, banche internazionali, bande di speculatori, discredito internazionale, ecc.) e ai continui ripiegamenti di un esercito in via di dissoluzione (conflitti istituzionali, sfondamento del debito, mancata crescita, impoverimento di ampie fasce della cittadinanza), il Belpaese è ormai privo di guida e di una classe dirigente e di governo in grado di reggere l’impatto della retrocessione continua del fronte: una ritirata strategica che diviene rotta.
Inutile chiedersi come e quando finirà il film. I sistemi hanno una loro tenuta e, giunti ai confini del caos, tendono sempre lasciare un’impronta, uno strascico e manifestano sussulti di sopravvivenza.

Una Repubblica di Salò?

Il paragone, nella metafora, è facile. Sfruttando l’attuale legge elettorale Berlusconi può fare ricorso alle elezioni che, per effetto delle legge stessa, divengono un referendum sulla sua persona e su tutto un immaginario del Paese duro a morire nella sua inveterata retorica: l’anticomunismo, la libertà senza regole, il paradiso della corruzione e dell’impunità, il denaro come indicatore di successo e il successo come ragione dell’arricchimento. Le rete di potere del premier è ancora possente, i soldi non mancano, la corte dei bunga-bunga (e non solo quelli “conviviali”) è fatta di fedelissimi, gli irriducibili (e i disperati) ci sono sempre e la “guardia” si può ancora arroccare a difesa del leader. È così prevedibile che l’accoppiata Berlusconi/Bossi (nessuna forza al mondo sembra dividere questi destini incrociati) potrebbe “perdere” questo confronto e attestarsi a un 20% dell’elettorato. Quanto basta per un’ultima resistenza nella “ridotta alpina”. La sopravvivenza dei leader e dei “neoberlusconiani” si prolungherebbe nella confusione generale, nel progressivo degrado e in un trasformismo esasperato: la scena è già passata ai voltagabbana. Questione di tempo, di lacrime e sangue. Perché, appunto, comunque vadano le cose, il Paese risulta anche ora in frantumi e occupato così come il popolo appare “calpesto e diviso”.

8 settembre

È questo vuoto di potere, ormai reale e anche da tutti percepito, che ci può riportare all’idea di un 8 settembre. Nei fatti mai come ora, nel corso della storia repubblicana, Nord e Sud vengono proclamati divisi (e in qualche modo davvero lo sono): si parla a vanvera di secessione e si celebra quotidianamente la microcriminalità di matrice extracomunitaria come ragione universale di insicurezza. Mai come ora nel corso della vita repubblicana si è assistito all’emergenza della criminalità organizzata e alla sua penetrazione nella vita economica e sociale. Si è parlato addirittura di “un patto” tra criminalità e potere, criminalità e Stato. E, mai come ora nella storia unitaria, la “casta” dirigente e di governo ha raggiunto gradi di occupazione e privatizzazione del potere pubblico e privato.
Ma c’è di più, nella similitudine con la fatale data del ’43, si deve tenere in conto che un quinto, forse un quarto della popolazione è al limite delle tessere annonarie e della pubblica assistenza. Gli indicatori si sprecano e se Atene piange, Roma certo non ride Il sistema economico è in rotta e non offre più occasione di crescita individuale e collettiva, il debito pesa su tutti ma ne rispondono solo i malcapitati contribuenti, l’occupazione è al nero, il sommerso avvantaggia solo chi è fuori dal sistema e dalla collettività. Il Paese è diviso anche e soprattutto tra ricchi e poveri. Insomma l’Italia ha dichiarato guerra a sé stessa: un guerra incivile.
Certo i mesi di luglio, agosto e settembre di questo 2011, e quelli brevi che ancora verranno, saranno oggetto di una adeguata storiografia. Ma la svolta “storica” ormai c’è stata lo sentiamo, lo viviamo ogni giorno. Il vuoto di potere e l’impotenza di tutta la classe dirigente e di governo è la notizia del giorno, di tutti i giorni.

La guerra di liberazione

E la guerra di liberazione? Cerchiamo di ricordarlo: tra luglio, settembre, dicembre del ’43, nessuno sapeva come uscirne, come sarebbe andata a finire. Si navigava al buio. Le testimonianze sono univoche e la documentazione abbonda. Il Paese abbandonato dalla casta in fuga, privo di regime e di risorse, scelse una strada obbligata: quella di sempre. E fu l’impegno, il senso dell’onore, la fiducia nella collaborazione qui capisaldi dell’agire individuale (le risorse interiori) che conferiscono la legittimità morale a chi deve ripartire da zero, ricostruire. Si avvertì confusamente, in allora, che il fallimento ancor prima di essere militare, economico e sociale, era morale. Che il vero default era nella cultura diffusa e che ben poco o nulla ci si poteva aspettare dal passato. E chi era in montagna, o nei campi di concentramento, voleva infine, tornare a casa nel pieno rispetto delle sue scelte.
Le cose, più o meno, vanno sempre così anche se la strada è tortuosa, a rischio e gli ostacoli paiono insormontabili.
Anche l’esito finale è sempre lo stesso: occorre immaginare un mondo nuovo e fare un patto per realizzarlo, scrivere le regole per poterlo costruire davvero e, a queste regole, essere fedeli. E fu questo, null’altro, il senso del 25 aprile: fu un tacito giuramento e un reciproco scambio di fede e fiducia.
In questo senso la storia si ripete anche ora e la metafora del passato diviene la giuda del presente. O si prende atto che la storia (la storia dell’età repubblicana e dei 150 anni) è finita, si accetta il default e si riparte da zero, oppure si deve tenere fede al giuramento che in allora la nostra collettività nazionale si è scambiata e ha iscritto nel patto sociale come atto sostanziale nell’esercizio delle funzioni pubbliche e di governo.
Recita l’art. 93 della Costituzione della Repubblica: “il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”. E questa la formula del giuramento: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Il giuramento costituisce l’atto sostanziale attraverso il quale il Presidente del Consiglio ed i Ministri, che svolgono funzioni pubbliche fondamentali, esprimono fedeltà alla Repubblica, e giurano di osservare lealmente la Costituzione e le leggi fondamentali dello Stato e di esercitare le proprie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione. Non è così, Signor Presidente?
E allora, che altro?