Dialogo con Cronos

divagazioni su tempo, memoria, ricordi e racconto

“Diciamo che il Tempo esiste perché noi viviamo nel tempo. Ma dire che esiste non significa nulla perché non ne definisce le proprietà e non lo rende conoscibile. Anche dire che noi viviamo nel tempo non significa nulla perché è la vita, evento incerto e momentaneo, a prevalere sul tempo e definirne in qualche modo la sostanza e la funzione attraverso i ricordi e la loro narrazione che li trasforma in eventi. Forse dovremmo rinunciare all’idea stessa di tempo come oggetto di indagine perché, così pronunciato, perde di dimensione e si confonde con un continuo e una presenza, l’eternità, che è assenza di tempo. E se accettiamo l’assunto che l’Essere è il Tempo, dovremmo rinunciare all’Essere e limitarci semplicemente a vivere nel mondo, esserci davvero. Forse per vivere davvero e comunicare con tutte le circostanze del mondo e tutti i tempi che esse generano e praticano, dovremmo anche rinunciare all’idea di passato, presente e futuro come un canone necessario e coerente per spiegare il cammino dell’umanità e ricondurre gli eventi alla nostra strategia di scambio con tutte le cose del mondo”

Per cominciare … – … che cosa è il tempo? – Natura, cultura, orologi. – Orologi, ritmi, programmi. – Vivere e ricordare. – Ricordare e spiegare –   Memoria e tempo umanizzato. – Ricordare e comunicare. – I segni e del tempo. – Robinson e Venerdì. – Mettere in ordine e raccontare. – Il paradosso delle origini.Il tempo incatenato. – Il tempo che finisce …. – e per concludere … –  il tempo liberato.

Poiché nella natura del tempo “essere” e “passare” sono sinonimi, una cosa non cessa di essere per il solo fatto di essere passata. 

Il tempo “passa” e, in qualche modo, “conoscere è ricordare”, ma ricordare altro non è che “avere presente”

Ecco, ora il tempo è “volato”, ma prima non “passava mai”. 

Il tempo non “passa”, semplicemente “finisce”.

Per cominciare …

La scienza promette miracoli, e molte volte davvero lì fa. È opinione universalmente diffusa nel mondo scientifico che i prossimi dieci anni saranno “gli anni del cervello”. Psicologi, neuro e tecno scienziati, promettono definitive scoperte e questo nuovo corso della conoscenza sarà il terreno privilegiato per un rinnovato dialogo tra scienziati e umanisti. Sapremo forse in via definitiva che cosa è davvero l’intelligenza e ciò che chiamiamo razionalità, quali meccanismi e circuiti cerebrali presiedono alla reale formazione del linguaggio, cosa è la coscienza, il libero arbitrio, la psiche e ciò che da millenni chiamiamo anima, quali basi biochimiche generano in noi quelle profonde, incontrollabili mutazioni che sono le emozioni e le passioni, e forse scopriremo il segreto del tempo che è il prodotto esclusivo di quella facoltà, particolarmente sviluppata nella nostra specie, che è la memoria. Allora sarà possibile attribuire un nuovo posto all’uomo nel mondo e fondare una nuova antropologia. Tempo e memoria sono, infatti, consustanziali alla dimensione della temporalità e perciò stesso in qualche modo spiegano il segreto della vita e dell’esistenza. La nostra corporeità e fisicità sarà probabilmente del tutto svelata dalla genetica e dalla biologia molecolare il che, a sua volta, consentirà di rimodellare tutto il nostro sapere sull’uomo, fonderà una rinascita delle radici umanistiche della nostra cultura. Oltre questi confini, che addirittura possono apparire ristretti, la moderna cosmologia ha, da almeno un secolo, posto sul tappeto l’insieme di relazioni che concorrono a definire ciò che chiamiamo “realtà” e che, proprio nella dimensione dello spazio e del tempo (lo “spaziotempo”, appunto), si costituisce ai nostri occhi per effetto dell’esperienza. La “realtà” classica, poi quella relativista e infine quella quantistica, come teorie generali dell’universo, si sono succedute nel corso di pochi lustri, hanno proposto e sperimentato dimensioni nuove dello spazio e del tempo e promettono ora, forse a breve, una teoria unificata in grado di ridurre a unità la spiegazione complessiva dell’universo. Un altro possibile miracolo della conoscenza e dell’intelligenza umana. 

Nell’attesa di questi possibili e forse probabili miracoli, fin da ora un timido dialogo si è aperto tra scienziati e umanisti proprio sul tema del tempo: un campo di indagine e di battaglia che sembra essere divenuto un’ossessione di fine e inizio millennio. Per effetto di quella che chiamiamo “accelerazione temporale”, “sfondamento del muro del tempo”, “proliferazione degli eventi”, “pluralità dei tempi tecnologici”, e si potrebbe continuare, una letteratura e un dibatto si affolla nei vari settori disciplinari e campi di ricerca. È un dibattito antico che dura da qualche migliaio di anni, trova le sue radici nei miti delle origini di ogni cultura, ma si accende nella cultura Greca e nell’esperienza giudaico cristiana per fondare la modernità, attraversala tutta e giungere sino a noi. Oggi però questa antica deriva si insedia in un nuovo clima culturale e metta profitto inattesi cicli di innovazione nel metodo e nell’approccio del pensiero tradizionale; inoltre la comparsa del concetto di complessità come fondamento della ricerca sai in campo umanistico che scientifico offre nuovi orizzonti di riflessione e qualche opportunità  di valicare antichi confini.

Le pagine che seguono ripropongono il tema della temporalità, sono il saldo di un conto in sospeso con le mie curiosità di storico, mettono a profitto un scambio con colleghi informatici, biologi, filosofi e principiano dall’approfondimento di alcune pagine di Ricoeur e da una rilettura di Agostino.

È, infatti, opinione generalmente condivisa che la data forte della riflessione sul tempo, l’avvio del nostro schema di dibattito e per certi aspetti anche il suo punto di arrivo, sia costituito dall’esperienza filosofica culturale che Agostino ha codificato nella sue Confessioni. Un dialogo con questo testo offre a tutt’oggi opportunità di approfondimento, apre piste di ricerca e, in qualche modo, proprio a partire dall’essenzialità provocatoria dell’interrogativo posto dall’autore, “che cosa è il tempo?”, consente un contatto e forse un dialogo diretto con Cronos. 

Un dialogo e un’esperienza che, come dicevo, si impone nel nostro presente e diviene impegno professionale per quei manipolatori del tempo, gli storici, ai quali, nel corso degli ultimi secoli, è stata confidata la costruzione e organizzazione del tempo umano, la certificazione dell’identità del soggetto e la fondazione della moderna antropologia.  Tempo, memoria e storia sono, infatti, gli elementi costitutivi della coscienza del nostro essere in quel modello di cultura, antropocentrico ed eurocentrico, che chiamiamo modernità e che altro non è se non che la percezione di una nuova dimensione del tempo (il “qui e ora”). Per una esplorazione dei misteri di Cronos si può dunque partire da qui.

… che cosa è il tempo?

Vi è ormai qualcosa di cui dobbiamo, nostro malgrado, prendere atto. Il tempo come valore assoluto non esiste e, secondo i fisici, forse neppure esiste a livello fondamentale. Forse oggi, per meglio comprendere il mondo, occorre rinunciare sia all’idea dello spazio come “contenitore del mondo”, sia all’idea del tempo come “luogo” nel quale avvengono in successione tutti i fenomeni a noi percepibili. E forse oggi si può anche affermare che lo stesso correre del tempo altro non è che una apparenza frutto della nostra grossolana capacità di percezione della realtà, dovuta, a sua volta, ai sensi che di continuo ci ingannano. Forse per comprendere meglio noi stessi, ora che le tecnoscienze ci consentono di spingere le nostre esperienze oltre i confini del visibile e del percepibile, dovremmo rinunciare a considerare verità il passato e dargli un peso (un tempo, una misura e una qualità) diverso dall’incerto futuro, e dovremmo accettare l’idea che il tempo altro non è che un campo magnetico, o un tessuto (una trama) di probabilità, una estensione a n dimensioni che si muove e sviluppa in molteplici direzioni. Il che costituisce una sfida revisionista nei confronti di opinioni e scuole interpretative consolidate e sedimentate nella storia del pensiero occidentale e che in estrema sintesi si possono così richiamare.  

In base al sapere filosofico e cioè in base al metodo “tradizionale” della nostra esperienza conoscitiva (la filosofia, appunto, come prodotto esclusivo dell’Occidente), l’interpretazione e la teorizzazione del tempo si è sviluppata nel corso dei secoli su due fondamentali modelli interpretativi. Il tempo è stato innanzitutto definito come un ordine oggettivo con cui si misura il movimento e cioè come il “numero del movimento” (Pitagora, Platone, Aristotile, Newton). In secondo luogo il tempo è stato interpretato come un ordine soggettivo e cioè come intuizione della successioni di stati di coscienza connessi tra loro dalle facoltà della memoria e dell’immaginazione, un’esperienza del tutto soggettiva indagata appunto da Agostino che ha segnato il pensiero medievale e che è stata poi ripersa con forza nel corso del Novecento. Più di recente però questa rigida contrapposizione tra tempo oggettivo (quello della natura indagato dalla scienza) e soggettivo (quello percepito dal soggetto) sembra scomporsi e, dopo ventisei secoli dall’enunciazione della regola fondamentale della fisica di studiare come si manifestano e mutano i fenomeni “secondo l’ordine del tempo”, oggi sembra imporsi il programma di ricercare le leggi fondamentali dell’universo oltre i confini misurabili dal moto del tempo per chiedersi, più semplicemente, come cambiano le cose le une rispetto e relativamente alle altre.

Si tratta di un orientamento e una prospettiva di ricerca che, al di là della sua apparente ovvietà e banalità, apre nuove e misteriose possibilità alla conoscenza, richiama l’idea di sistema e fa emergere il pensiero della complessità e cioè  della consapevolezza di una reciproca connessione, scambio e comunicazione tra gli eventi oltre le rigide contrapposizioni tra soggetto e oggetto, individuo e specie, ordine e mutamento, infine spazio e tempo della realtà. E così nel pensiero filosofico dualismo, monismo e olismo sono solo parole indicative di possibili realtà; passato, presente e futuro sono tempi sempre simultanei dell’immaginazione e segnano un moto di estensione della coscienza destinato a intercettare altre dimensioni di ciò che chiamiamo tempo. E dunque come non esiste più un tempo assoluto, neppure  sembra esistere più un tempo oggettivo estraneo al moto della coscienza. La misura del tempo, la sua velocità ed estensione, più che un dato oggettivo definibile una volta per tutte nella sue leggi, appare ormai più un gioco e un’astuzia della ragione che non una piattaforma rigida della conoscenza. Oggi la rivoluzione informatica di fine millennio e gli investimenti sull’intelligenza artificiale che aprono un nuovo corso, hanno infranto i criteri di misura tradizionali, moltiplicato i moti del tempo e le sue dimensioni nella percezione individuale e collettiva dei viventi. Per altro verso le scienza della vita hanno rivelato la compresenza di innumerevoli eventi oltre i confini dei nostri sensi: forme di vita, scambi, azioni e reazioni si sviluppano su trame temporali e velocità dotate ciascuna di una propria struttura. E ancora vi è chi sostiene che forse troviamo più verità nelle personificazioni mitiche del tempo di quanta non ve ne sia nell’esperienza del pensiero scientifico tradizionale che ha fatto il tono delle certezze cumulate nel corso del pensiero occidentale.

Per queste vie si fa strada l’idea che abitare il mondo è possibile solo se si rinuncia a possederlo nella sua totalità oggettiva come vuole la scienza, o risolverlo nell’eterno assoluto e immobile come vuole la religione. Abitare il mondo significa forse accettarne il mistero e coesistere con la mutevole complessità dei suoi eventi di cui noi siamo il momentaneo specchio.

Natura, cultura, orologi.

In via di prima approssimazione ciò che chiamiamo tempo ci appare come una dimensione (temporalità) della realtà fisica che si materializza (viene percepito e gestito) in modo inconsapevole (automatico, naturale, necessario) per effetto delle circostanze ambientali e naturali dell’essere vivente. Certo, al pari di qualsiasi organismo, la percezione del “tempo naturale” è innanzitutto collegata al nostro inserimento psico-biologico nel sistema sole-terra: tutti gli esseri viventi coordiniamo inconsapevolmente i tempi della natura in un unico presente “universale” (in realtà locale: il sistema solare per quello che è) che è loro proprio, procede dal moto celeste e dai processi biochimici definiti da Gaia.

Come lo spazio, il tempo è una grandezza e una categoria del mondo fisico; il tempo tuttavia differisce dallo spazio non solo a causa della sua unidimensionalità (in contrasto con la tridimensionalità dello spazio) ma anche e principalmente a causa di quella che viene chiamata la sua “direzionalità”, il suo muoversi, “passare”, e cioè la “freccia del tempo” sempre presente nella riflessione filosofica e che è risultata ormai evidente per effetto dell’entropia dell’universo (Eddington). Il tempo è dunque abitualmente percepito e definito come una dimensione “in continuo”, un costante movimento, cioè sempre divisibile all’infinito in frazioni e punti di durata impercettibile e infinitesimale. Per questo lo rappresentiamo come una linea che, divisa in un punto qualsiasi, produrrebbe ciò che chiamiamo «istante di tempo», espressione che ne denuncia la non misurabilità. Insomma un continuo succederai di frazioni inafferrabili. Il tempo “passa”. Tale “moto” è l’orologio naturale della vita terrestre e, a essa, è necessariamente relativo (il tempo non è assoluto). I cosiddetti «orologi biologici» sono collegati ai ritmi esterni della  natura (giorno e notte, cicli climatici, ambientali, alimentari, ecosistemi, strutture biologiche) e segnano il moto di ciò che chiamiamo vita, un’interazione infinita di innumerevoli cellule e particelle nel tempo, un ciclo di esperienza, un insieme complesso di eventi.

Tuttavia, oltre agli orologi biologici dei viventi e alle loro necessarie interazioni che siamo ancora ben lontani dal conoscere nei loro meccanismi di funzionamento e rendono il tempo del tutto plurale in estensione, direzione, durata, altre modalità di misurazione e materializzazione del tempo sono scattate nel recente passato ad opera della specie umana. Questi orologi hanno dilatato e rimodellato la trama della temporalità svelandola come sempre più complessa. 

L’orologio biologico, quello della vita, prende il via in un tempo remoto con lo sviluppo delle prime cellule; poi, 500/300 mila anni fa, compare la nostra specie, annunciata dall’erectus. L’Homo, nelle sue molteplici varianti, è ormai poco diverso biologicamente dal suo risultato finale. Si forma il linguaggio umano (si ipotizza che Homo erectus avesse acquisito una sintassi condizionale) e scatta l’orologio culturale: la percezione, misurazione del tempo diviene processo condiviso e un fattore di organizzazione (collaborazione) dell’esistenza umana. Infine, poco più poco meno di 100 mila anni fa, arriviamo noi, i Sapiens sapiens: il prodotto finale  dell’evoluzione che in un lampo (70/90 mila anni) occupa l’intero pianeta senza incontrare ostacoli e ne avvia la colonizzazione. Con le prime forme di organizzazione sociale scatta l’orologio tecnologico. Cultura e tecnologia, psiche e tecne, moltiplicano e accelerano la percezione degli eventi, rimodellano il tempo in un sistema sempre più sofisticato di misurazioni.

Il tempo “passa”, è un moto continuo e per ciò stesso si materializza perché il moto è percepito e condiviso solo a condizione di essere misurato. In questo senso il tempo altro non è che una “oggettivazione culturale” tale da consentire la localizzare di eventi a cominciare da quello più immediato e significativo: la vita.

Orologi, ritmi, programmi.

Non vi è dubbio, infatti, che all’origine di ogni criterio di misurazione del tempo vi è la percezione della vita come fenomeno di continua replicazione e trasmissione genetica e cioè come visibile manifestazione, evidenza, di un evento momentaneo che ha un principio e una fine. E, infatti, il primo calendario, il primo criterio di misurazione del tempo è, in tutte le culture del mondo, quello del susseguirsi temporale delle generazioni. In tutte le cosmogonie a fondazione naturalistica, l’origine stessa dell’universo è narrata come un procedere continuo di generazione, accoppiamento e morte di entità che certificano in qualche modo il tempo del mondo. Oltre l’atto della creazione, anche il monoteismo giudaico cristiano, proprio per essere a fondazione antropocentrica, affida al cadere delle generazioni, di padre in figlio, la materializzazione e misurazione del corso provvidenziale.

Oggi dell’orologio biologico degli organismi viventi sappiamo qualcosa di più. Attualmente le scienze della vita definiscono questo evento momentaneo, che chiamiamo vita, in forza di due criteri: la capacità dell’organismo vivente di riprodurre una entità simile a se stessa (replicazione, appunto), e la sua capacità di contrastare il principio di entropia, di resistere cioè al disordine e alla dispersione, così come viene descritta dalle leggi della termodinamica, al fine di garantirsi una sorta di autoconservazione. In altri termini: di durare come tale e di trasmettere il proprio codice genetico oltre i confini di questa durata; il che comporta automaticamente l’emergere dei concetti di nascita e morte, principio e fine, tempo e spazio finito come proprietà dell’individuo. La vita è così generalmente percepita dalla nostra esperienza conoscitiva come una frazione del tempo (un evento), un corso temporale definito, una misura. Tutte le forme di vita hanno il loro tempo, il loro ciclo di inizio e fine e la percezione del tempo come un flusso che si riproduce di continuo (un moto) o meglio una trama di possibilità operative. Organismi che vivono infinitesime frazioni di tempo e specie che hanno radici milionarie di anni, coesistono e comunicano in forza di innumerevoli orologi biologici nel quadro complessivo dei moti dettati dalla natura.

Per ora non ci è dato sapere quale coerenza governi la pluralità di tutti i tempi degli organismi viventi e quali complessi scambi e interazioni ne derivino sul piano dell’esperienza di ciascun essere vivente. Da sempre noi percepiamo il tempo come una corrente, un flusso, un movimento dotato di un suo ritmo e di sue direzioni (linee, cerchi, sinusoidi), ma forse questo è più il riflesso dei modelli di cultura che abbiamo costruito con i nostri sensi (limitati e ingannevoli) che non adeguato approccio alla realtà. A fronte della complessità di funzionamento degli infiniti orologi del mondo, questo flusso di energia sembra essere un sorta di campo magnetico delle possibilità, probabilità, strategie di vita.  In questa prospettiva le scienze della vita offrono altre fonti di riflessione e piste da percorrere. Dopo anni di studi e interrogativi, si è giunti alla stesura di sei indicatori che definiscono, in modo più circostanziato, l’evento di vita. Le caratteristiche che fanno di un agglomerato di composti chimici un essere vivente vengono declinate nel modo seguente: un programma (cioè un piano organizzativo che descrive gli elementi e le loro interazioni); un’attitudine all’improvvisazione (la capacità di cambiare il programma quando cambiano le condizioni esterne al programma); la compartimentalizzazione (cioè la presenza di membrane o di altre strutture che dividano il vivente dal mondo esterno); la presenza di energia comunicativa (che deve essere acquisita e scambiata con il mondo esterno); un processo automatico di rigenerazione (il ricambio di strutture usurate o mancanti); infine adattabilità (l’efficacia nelle risposte immediate ai pericoli o agli stimoli esterni). 

A partire da questi assunti sembra del tutto ragionevole affermare che, nel caso della nostra specie e in virtù della specificità che le è data di produrre cultura, la percezione del tempo altro non sarebbe che un’interfaccia del programma e della sua adattabilità e dunque una oggettivazione culturale costruita dalle nostre facoltà biopsichiche e questa oggettivazione culturale, questa personificazione di Cronos a sua volta, altro non sarebbe che una estensione della capacità ci improvvisazione e adattabilità del nostro programma biologico; in definitiva un prodotto, una risorsa e una flessibile strategia della nostra coscienza, un principio di energia e un sorta di corrente generata dalla specificità del nostro essere nel mondo. Insomma il tempo da noi percepito è un prodotto umano e non vi è misura del tempo che non sia il risultato del comporsi degli orologi (biologici, culturali, tecnologici) in cui siamo immersi. Il tempo non esiste se non è pensato, vissuto (agito), misurato, manipolato (umanizzato) dall’uomo. Il tempo è consustanziale al processo biologico (vita e morte), culturale (creazione di ambienti artificiali) e all’ambiente tecnologico che la cultura umana ha realizzato; prima e dopo non esiste. 

Si può anche andare più in là. Innanzi tutto il nostro essere fisico è energia in espansione, sostanza temporale: il corpo è il primo orologio che segna i termini di principio e fine del moto ed è il calendario sempre presente del ciclo di replicazione. Poi la specificità genetica che fa del nostro essere un produttore di cultura consente all’uomo di rimodellare la sua stessa fisicità, di aggiungere e coordinare altri calendari e altri criteri di misura di quel “passare” che è proprio del nostro stesso evento. E forse ciò che chiamiamo “cultura materiale” e “modello di cultura” altro non è che una procedura di comunicazione, condivisione e organizzazione dei molteplici calendari che presiedono alla vita stessa. Cosicché ogni processo conoscitivo che realizza i modelli della cultura è, in qualche modo, una umanizzazione del tempo e cioè una procedura di costruzione e organizzazione della realtà percepita come un susseguirsi di eventi (frazioni temporali). Insomma, sembra possibile affermare che, per effetto delle specificità della “natura” umana, l’orologio biologico, quello culturale e quello tecnologico lavorano insieme in una costante programmazione, improvvisazione, rigenerazione e adattabilità del moto che confonde ogni confine tra soggetto e oggetto e segna l’evento momentaneo che chiamiamo vita.

Vivere e ricordare.

Sui caratteri distintivi della nostra specie e sulla specifica identità della condizione umana, il pensiero filosofico lavora da sempre. Fin dalle sue origini la cultura occidentale ha posto al centro della sua riflessione l’uomo e, da questo punto di vista, tutta la nostra tradizione culturale si risolve nell’antropologia. Una antropologia, per atro, in continua rifondazione proprio perché, nella cultura giudaico cristiana, l’uomo è a “fondazione storica”, è un prodotto della creazione e del programma temporale che definisce non già la funzione dell’uomo nel mondo, ma il suo destino nel tempo. Per questo, e non per altro, l’antropologia occidentale è ossessionata dal tempo come contenitore dell’esperienza umana. Per questo, e non per altro, la storia, e cioè la narrazione di un tempo condiviso e universale, è un terreno di scontro sulla “vera” natura dell’uomo. Per questo infine la storiografia della modernità è un gigantesco processo di umanizzazione del tempo e di produzione di un calendario condiviso che segna il destino della specie: il dominio del tempo e del mondo.

Il trionfo della storiografia nel corso del XIX secolo, segna il culmine di questa deriva antropologica: la storia, prodotto esclusivo della specie e “maestra di vita”, codifica in via definitiva il susseguirsi degli eventi umani, si insedia nel cuore del sapere occidentale e ne definisce il senso in un racconto lineare, ne fissa il ritmo di sviluppo. Tempo e storia si confondono in una radicale e totalizzante storicità dell’uomo al passato e al futuro. Qui la realtà è apparsa come una sostanza infinita (fatta da un composto di ragione, assoluto, spirito, idea, progresso, umanità, ecc.) trascinata dall’ordine del tempo in una direzione obbligata: l’innalzamento qualitativo della storia e cioè la progressiva emancipazione intesa come “destino” dell’uomo e sua coerenza con il programma della creazione.

Il pensiero filosofico e l’esperienza scientifica del XX secolo hanno tuttavia superato, in qualche modo, questo rigido orizzonte antropologico. I nuovi orientamenti di ricerca si sono diretti verso una profonda revisione del modo di essere dell’uomo nel mondo (e non sul mondo) e, come dicevo all’inizio, dopo ventisei secoli dall’enunciazione della direttiva fondamentale di studiare come si manifestano e mutano i fenomeni “secondo l’ordine del tempo”, oggi sembra imporsi il programma di ricercare le reali dimensioni della condizione umana oltre i confini misurabili dal moto del tempo nel suo rapporto, non già con un destino codificato una volta per tutte, ma con le innumerevoli circostanze che gli impogono, di volta in volta, continui adattamenti e revisioni del programma di esistenza. Ci si chiede insomma, più semplicemente, come cambiano le cose le une rispetto e relativamente alle altre. In questa prospettiva di continua interazione con le cose mondo, l’uomo, più che un prodotto della storia che ne fissa e realizza il destino, viene definito come un campo di possibilità, un probabile, momentaneo evento di vita. 

La vita diviene allora “esistenza” (modo di essere dell’uomo nel mondo “qui e ora”) e l’esistenza un campo di continua progettazione e programmazione della vita stessa intesa come libero fluire dell’esperienza, produzione e consumo continuato di temporalità. Si è insomma giunti alla conclusione che, proprio perché esiste nel mondo, l’uomo non è un prodotto del tempo e neppure è nel tempo, ma è il tempo in sé e la sua misura insieme.

È questo il punto di svolta della tradizionale riflessione sul tempo che tiene ormai banco nel dibattito filosofico e scientifico. Lungo questa traiettoria, infatti, nel corso della seconda metà del secolo scorso e soprattutto negli ultimi decenni, l’approccio esistenzialista si è intrecciato con il rapido susseguirsi di rivoluzioni scientifiche e cicli di innovazione del pensiero che promettono una inedita libertà creativa e nuove avventure

Si tratta di approcci e rivelazioni che, proprio negli ultimi decenni, hanno tratto profitto dalle neuroscienze il cui grado di avanzamento ha del prodigioso. Lo studio dei rapporti tra il cervello e la mente ha dato luogo a scoperte imprevedibili. Lo studio dell’intelligenza artificiale ha messo in moto tutto un convoglio di discipline e metodi di ricerca (psicologia e psicolinguistica, scienze cognitive ed epistemologia, ermeneutica e antropologia e tutte e le ormai indeclinabili “scienze” neonate della comunicazione) che offrono continue illuminazioni sui meccanismi misteriosi di percezione e fondazione della temporalità: la memoria, i ricordi, gli eventi, i processi di rappresentazione e comunicazione della realtà nel suo incessante quanto mutevole moto.

 Una letteratura sterminata affolla questa genesi di “nuovi saperi” e si è aperto un labirinto di piste destinato a scoraggiare qualsiasi viaggiatore. Inutile cercare di orientarsi se non a rischio di perdersi in vie senza uscita o in comparti e laboratori tanto specialistici da divenire orti chiusi o più verosimilmente prigioni.

Per procedere nel labirinto, rivolgiamoci dunque al nostro lume interiore e a quella diretta esperienza che ha forse il merito dell’autenticità. Il contatto diretto con Cronos, l’approccio immediato alla dimensione della temporalità, il primo laboratorio per una indagine sperimentale tra memoria e ricordi, eventi ed esistenza, espansione e direzione del tempo, infine storia, è nell’esperienza diretta. E cioè nella modalità personale di costruzione, invenzione e immaginazione della dimensione e percezione individuale del tempo: il nostro tempo vissuto.

Ricordare e spiegare 

Sono nato nel 1939, pochi mesi dopo il lieto evento è scoppiata la seconda guerre mondiale, i miei primi ricordi più o meno precisi e coerenti nel loro sviluppo risalgono al primo anno di scuola probabilmente il 1944. Le suore, l’aula, i grembiulini, la cartella, il pezzo di strada da casa a scuola, i primi compiti, le prime ansie, le prime lacrime vere.  Il buio che precede questa incerta data di inizio è illuminato da pochi lampi. Ricordo il frastuono di boati notturni, la discesa affannata giù dalle scale ritmato da un indistinto vociare e appena illuminate da cosa non so; ricordo una stanza lunga e grigia e un universo indistinto di voci e di volti spenti in un continuo borbottio. Era, così in qualche modo mi è stato poi detto, un bombardamento e il rifugio vissuti nella casa della mia prima infanzia. C’è il volto gioioso di mio nonno, giù nella strada che spinge una carriola seguito da un manipolo in festa (amici, parenti?), nella carriola c’è un maiale stecchito, in casa c’è confusione e tutti aspettano che la comitiva festosa salga le scale. È una celebrazione gastronomica di approvvigionamento di guerra, così mi è stato poi spiegato, che avrebbe consentito di passare l’inverno. La dispensa, ultima porta in fondo al corridoio, forse ricordo la dispensa e la damigiana del riso. Ricordo la sbarra della porta di accesso al negozio del tabaccaio di Piazza Cavour che sovrastava di poco la mia statura ed ancora lì, e ricordo mia madre fuori dal negozio immersa in una grigia umanità che piangeva: era, mi è stato poi detto, la penosa processione per invocare la restituzione del cadavere di mio cugino fucilato forse nei primi mesi del 1944. Tutto era grigio, era freddo.

Non è chiaro come questa immagini si siano strutturate in “ricordi”, né tanto meno se siano autonome, se siano di per sé vere o frutto di successive sedimentazioni, di combinazioni con altri ricordi e ricordi di altri; se siano il frutto di un tempo vero e di un tempo lavorato da successive codificazioni, ricerche di senso sino a divenire prodotti e patrimoni del pensiero. Neppure è chiaro attraverso quali segni, simboli, immagini questi reperti di esperienze si compongano in quel linguaggio della mente che me ne comunica e restituisce il senso. Ma questi lampi, divenuti istantanei cortometraggi della mia esperienza remota, sono nitide rappresentazioni di azioni (sequenze, sistemi, insiemi) e creano una evidente sincronicità tra gli eventi (ora ricordo ciò che è accaduto in altre misure e dimensioni del tempo), danno un contenuto qualitativo e selettivo alla mia percezione del tempo, sono divenuti stabili punti di riferimento, “presenze” e richiami continui, racconti che faccio a me stesso e talvolta partecipo agli altri.

Altri ricordi si sono aggiunti nella mia biografia quotidiana. Altri colori, suoni, immagini, emozioni rivestono brandelli del tempo “passato”. Come per ognuno di noi questi ricordi compaiono, si solidificano e si insediano con forza in quella storia personale che chiamiamo identità; li richiamiamo, e poi a volte scompaiono e si sostituiscono ad altri che appaiono nuovi e inediti, un tempo dimenticati.

Una teoria complessiva che presiede a questo congegno, a questo gioco della memoria, non c’è, ma è certo che questo incessante richiamo, questa messa in scena di esperienze vissute, un obiettivo almeno ce l’ha: spiegare (nel significato letterale di estendere, distendere e togliere le pieghe che celano la trama) a noi stessi il nostro rapporto col mondo e col tempo, nel tempo della nostra azione quotidiana: il vivere, appunto. 

Questi prodotti della memoria sono storie vere e fanno ormai parte della nostra storia, della nostra personale ed esclusiva percezione del nostro tempo. Il tempo è passato, ma tutte gli eventi passati possono essere “qui e ora”, reali, autentici e veri perché nella nostra memoria c’è tutto il tempo del mondo e solo per questo una cosa non cessa di essere per il solo fatto di essere passata. Sono richiami simultanei e sincronici dei tracciati dell’esperienza che l’immaginazione, intesa come capacità cognitiva della mente umana, raccoglie e mette in ordine in infinitesime frazioni di azione. 

L’immaginazione infatti, in quanto facoltà di costruire da noi stessi le nostre conoscenze, è indisgiungibile dalla estensione temporale, è la capacità di agire in un continuo per decifrare, manipolare e organizzare i frantumi dell’esperienza che la memoria conserva e ci fornisce e proprio con questi frantumi realizza continui processi interattivi di ricostruzione e aggiornamento in relazione ai mutevoli stati dell’esperienza e del livello di conoscenze acquisito nel tempo. Un cerchio virtuoso e di per sé instabile perchè in grado di rigenerarsi e in continua manutenzione. Per questo nessun ricordo è definitivo, nessuna testimonianza certa, nessun modello di interpretazione del passato stabile, nessuna cronologia davvero attendibile, e nessun racconto, nessuna storia, è principio di verità. E il passato non offre maggiori certezze di quante ne garantisca il futuro.

Per questo la nostra identità è un palinsesto in continua costruzione e la nostra autobiografia poco più che un cantiere dei ricordi che si solidificano, si selezionano, muoiono e sopravvivono nel loro e nel nostro tempo; mutano di segno e significato per rappresentare ai nostri occhi non già quel che siamo stati o eravamo, ma ciò che riteniamo di essere nel modo del tempo “qui e ora”. Al pari dei curricola che si adattano ai nostri interlocutori in virtù di procedure artificiose di ricodificazione e adattamento dei dati che li compongono, la nostra identità si adatta di continuo alla nostra esigenza di essere nel mondo. Per questo ne siamo sempre alla ricerca e sempre a rischio di perderla.

Nella prima autobiografia della modernità, Agostino seleziona con cura i ricordi che segnano il suo tempo ed è attraverso la loro organizzazione che invoca la sua identità, si confessa e si ri-consce per quello che è, ”non per quello che ero”. Ma questa procedura di costruzione istantanea, e per ciò stesso momentanea, di sé  è tale, e come tale si giustifica, solo perché l’autore ha un interlocutore al quale rappresentarsi e comunicarsi: la propria coscienza. È un artificio del linguaggio, nulla di più. Le Confessioni sono un dialogo, una ricerca di contatto e un processo comunicativo dell’anima con Dio sul terreno impervio del tempo. Allo stesso modo la costruzione della nostra identità altro non è che un artificio momentaneo, un evento sempre incatenato ad un altro evento. Perché la nostra storia ha sempre un interlocutore.  

Per una riflessione su Cronos o, se volete, un tentativo di dialogo con lui, possiamo cominciare da qui.

Memoria e tempo umanizzato.

La prima evidenza, basta riflettere, è che, contrariamente ad ogni abusato luogo comune, non è vero che “il tempo passa”, siamo noi ad attraversarlo, a passare, siamo noi che ci consumiamo nel tempo. In alternativa non invecchieremmo, sarebbe il tempo a invecchiare, consumarsi e infine morire e noi saremmo obbligati a vivere in un tempo che non esiste. In realtà ogni essere vivente ha il suo tempo e ciascuno di noi il suo in una dimensione che è relativa, malleabile e infinitamente plurale nella quale si iscrivono le esperienze, e sono proprio queste testimonianze di vita che danno origine ai paradigmi identità di continuo rimodellati e rigenerati in virtù dagli scambi con il mondo della cose. Il tempo da me dedicato a queste riflessioni e alla loro scrittura è altro rispetto a quello di chi legge, altro ancora rispetto a quello di chi, una volta letto, vi riflette e lo rimodella con la sua immaginazione, tutt’altro ancora rispetto alla comunicazione che se ne fa e al dialogo che può innestare: sono sostanze, dimensioni ed eventi diversi nel tempo.  Siamo noi (a nostra volta eventi) a percepire, costruire e produrre eventi mediante processi cerebrali continui che si fondano sull’interazione memoria-immaginazione-ricordi e generano il tempo nel quale gli eventi vengono iscritti. E così, da questo punto di vista, non vi è tempo che non sia umano e umanizzato e la cui struttura non sia, a sua volta, un evento iscritto nel nostro tempo.

Un’altra evidenza dunque: il tempo, al pari dello spazio, è una dimensione nella quale si iscrivono i dati della nostra esperienza che ne consentono la misurazione e per ciò stesso lo rendono governabile e cioè ne spiegano il senso e la funzione. Questi eventi possono essere umani o naturali ma, in ogni caso, la loro costruzione, che di volta in volta consente la misurazione (cronologia) e la spiegazione (cronosofia) del tempo, è un prodotto del linguaggio, della mente e delle culture umane.

Ma queste immediate evidenze, che richiamano l’esperienza individuale e soggettiva del tempo, non ci portano di per sé molto oltre le verità già rivelate da Agostino poco meno di quindici secoli fa e cioè che il tempo sappiamo bene cosa sia, lo percepiamo dentro di noi, quando lo vediamo scorrere lo riconosciamo, ma non lo sappiamo spiegare. E si sarebbe tentati di fermarsi qui se, all’alba del terzo millennio, come dicevo all’inizio, una quantità di esperienze, dati, programmi di ricerca e paradigmi interpretativi non avessero aggiunto nuovi interrogativi e qualche risposta agli stessi. Se, insomma, non vi fosse la speranza di compiere un passo più in là rispetto alla riflessione agostiniana che, per la sua immediatezza, rischia di chiudere ogni ulteriore percorso.

Della memoria come magazzino e, secondo Agostino, “nascondiglio” del tempo sappiamo qualcosa di più dell’autore delle Confessioni.

Oggi il cervello umano è il cantiere di ricerca avanzato di fisiologi, biochimici, psicolinguisti e più in generale di quei nuovi saperi che prendono il nome di neuroscienze. Quanto alla mente, tradizionale campo di indagine del sapere filosofico e che comunemente si definisce come l’utilizzo delle più elevate facoltà del cervello, le indagini e i dibattiti non hanno mai cessato di essere al centro della vocazione antropologica della nostra cultura. L’intelligenza artificiale offre oggi cantieri di ricerca comune a umanisti e scienziati; e certo un cantiere tra i più attivi è quello dei rapporti tra il cervello e la mente. Nei prossimi dieci anni, così si dice e promette, sapremo molto di più su quelle funzioni superiori e propriamente umane che sono la personalità, il pensiero, la ragione, l’intelligenza, la volontà, l’emozione e la memoria.

In particolare della memoria come funzione fisiologica sappiamo che è la capacità del cervello di conservare informazioni e la psicologia ci avverte che questa funzione (funzione mestica) non risulta necessariamente stabile. Si tratta di una sorta di azione della coscienza influenzata da elementi affettivi (come emozione e motivazione), oltre che da elementi riguardanti il tipo di informazione da ricordare. Questa funzione psichica si delinea come un processo legato a molti fattori, sia cognitivi che emotivi, è un processo eminentemente attivo e interattivo e non automatico o incidentale. La memoria si configura insomma come un percorso di ricostruzione, interpretazione e concatenamento di tracce piuttosto che come un semplice immagazzinamento di dati in uno statico spazio mentale.

La funzione e il funzionamento della memoria viene poi univocamente descritta in una sequenza di tre aree operative. Acquisizione e codificazione dell’informazione intesa come stimolo esterno e traduzione in rappresentazione interna stabile e registrata. Immagazzinamento e stabilizzazione dell’informazione e ritenzione dell’informazione stessa per un determinato lasso di tempo. Recupero, riemersione a livello di consapevolezza dell’informazione prima archiviata, mediante richiamo o ri-conoscimento e contestuale ricodificazione, rielaborazione

Così la memoria può essere oggi definita in grosso come una “piattaforma mediatica” in virtù della quale parti della nostra esperienza di vita, fornite dai sensi, vengono ritenute, immagazzinate e rievocate in un continuo scambio con gli stimoli della realtà, la circostanza, che ci circonda.

In forza di questa definizione e del ruolo che essa le attribuisce, la memoria è certo la funzione che ci caratterizza di più come individui. Non esiste alcun tipo d’azione o condotta e non è possibile nessun riconoscimento di sé senza memoria  Questo patrimonio di sedimentazione materializza infatti ciò che chiamiamo “presenza” nel mondo ed è alla base di tutte le attività della vita quotidiana. E per effetto di continui richiami realizza la continua costruzione/ricostruzione della nostra identità la quale, in qualche modo, rende operativa (non saprei come dire altrimenti) la nostra relazione col mondo. Sono, infatti, i disturbi e le anomalie di questa facoltà che deformano o causano la perdita della nostra identità e ci escludono sia dalla percezione della realtà, sia dal contatto con tutto quanto ci circonda. Non pare possibile definire l’umanità dell’uomo (cioè fondare una antropologia) senza fare ricorso a questa esclusiva facoltà che  permette di coniugare il nostro essere alla dimensione del tempo che gli appartiene e lo giustifica. 

Nella cultura occidentale l’emergenza di questo problema conoscitivo è presente dai primordi della riflessione filosofica e la sua complessità è stata risolta con il ricorso esemplificativo, ma sempre efficace, alla metafora. La memoria è stata, di volta in volta, definita come una tavoletta di cera sulle quali incidere i ricordi, un teatro sulla cui scena si dispongono e recitano le esperienze individuali cumulate, una casa nella quale i ricordi sono disposti come arredi, una borsa, un tavolo da lavoro, una libreria, tutti spazi nei quali vengono collocati gli oggetti che le appartengono e cioè i ricordi. Più di recente è divenuta dominante la metafora del computer per effetto dell’evidente analogia tra memoria cerebrale e memoria artificiale, della complessità dei processi computazionali e soprattutto in ragione della possibilità di codifica e distinzione che si può istituire tra memoria e ricordi. In questo caso  la memoria sarebbe un hardware (un media, un mezzo, un insieme di circuiti materiali), i ricordi invece sarebbero un software ( un programma, un sistema attivo e dinamico di banca dati, di contenuti immateriali) in grado organizzare e gestire informazioni in virtù dell’immaginazione.

Si tratta di una metafora che, se non altro, ha il merito di consentire una netta separazione tra la procedura del richiamo che appartiene alla memoria e i prodotti di questi richiami che, appunto, sono i ricordi. Questa metafora consente inoltre di definire i rispettivi ruoli di memoria e immaginazione che, in molti modelli interpretativi filosofici si intrecciano dando luogo a ridondanti complessità e anche a sorprendenti confusioni. L’immaginazione è, infatti, la capacità dell’intelligenza di produrre immagini mentali e idee e, in quanto attività cognitiva, la facoltà di organizzare i dati offerti della memoria per costruire nuove rappresentazioni dinamiche: i ricordi.

Ricordare e comunicare.

I ricordi sono il prodotto della memoria e cioè il richiamo di frantumi dell’esperienza individuale passata, assicurata dai sensi (codificata e depositata nella memoria), che l’immaginazione manipola e riorganizza in tracciati dotati di senso. Per abusare della metafora, i ricordi sono dei film (istantanei cortometraggi) realizzati da macchinari cerebrali e proiettati in sale (messe a disposizione dalla memoria) che un regista (l’immaginazione del soggetto) mette in scena in relazione alle circostanze della domanda di conoscenza operativa, di identità e di storia personale. I ricordi insomma sono ambienti virtuali nei quali si compongono segni e simboli e si compongono azioni (fatti, eventi) che memoria e immaginazione costruiscono e il cui obbiettivo strategico è quello di certificare il nostro rapporto (relazione) con le cose del mondo e la nostra mutevole posizione rispetto ad esse.  E quando, per effetto delle circostanze proprie della nostra esistenza nel mondo, i ricordi riaffiorano e prendono forma, si solidificano e replicano, con ogni probabilità assistiamo a una sorta di “riedizione” di circostanze già vissute nel nostro spazio e nel nostro tempo.

Le informazioni cumulate e raccolte dalla memoria sono elaborate (manipolate e codificate) e archiviate (immagazzinate e memorizzate) ed è certo lì il “nascondiglio” di tutto il tempo del mondo; tutto quanto è accaduto e ci è accaduto è lì. Poi, in virtù di altri accadimenti che sono le mutevoli circostanze delle nostre relazioni col mondo, le informazioni vengono selezionate e richiamate in forza di qualche sollecitazione esterna. E, da questo punto di vista, noi siamo la “nostra circostanza”, il nostro passare nel tempo e la nostra stessa possibilità. 

Quali siano i codici di questo processo di archiviazione e quali gli oggetti del loro richiamo (immagini, suoni, impulsi emotivi, o  altro) aspettiamo che siano i prossimi dieci anni, “gli anni del cervello”, a dircelo, ma è altamente probabile che proprio in questi codici si nasconde la sostanza del tempo; e che questa sostanza sia materiale o immateriale ce lo diranno i fisici delle particelle. Attendiamo miracoli. Ma, per quanto ci è dato intuire, questo “richiamo” è sicuramente un processo comunicativo e comporta l’organizzazione delle esperienze in un coerente sistema. Si tratta di un processo razionale il quale consente l’uso e il funzionamento della memoria e la coerenza razionale nella composizione delle informazioni rimodella il tempo, lo rende simultaneo e sincrono all’azione del richiamo e crea molteplici strutture e dimensioni temporali. 

??Noi non abbiamo consapevolezza di tutto il tempo passato (non richiamiamo tutto in ogni istante della nostra vita cosciente) e neppure esso esiste senza le tracce che la memoria ci fornisce, ma il tempo ci appare insito nei ricordi; ciascuno di essi ha un suo peso e una sua sostanza e sono proprio i ricordi a estendere la dimensione della temporalità e a fissarne la direzione. I ricordi ci “comunicano” brandelli di circostanze che ci appaiono vere solo perché risiedono dentro di noi e siamo noi a coglierne il significato e comunicare con loro. Così si può affermare chela produzione dei ricordi crea e genera il tempo perché lo misura, lo organizza, lo utilizza in funzione dei fini che le circostanze esigono, ne decide i diversi moti e ritmi, ne amministra le scadenze e ne fissa la direzione. I ricordi ci appaiono così gli autentici signori e padroni del tempo. ??

Ma i ricordi sono precisamente dei ri-conoscimenti (rielaborazioni, ricodificazioni, interpretazioni) delle nostre esperienze nel tempo e questo ri-conoscere è un processo comunicativo: i ricordi comunicano con noi e ci comunicano esperienze rigenerandole. Questo modello di interpretazione riconduce automaticamente il complesso intreccio dei rapporti tra memoria, ricordi, tempo a quell’insieme di segni, significati e simboli che chiamiamo linguaggio e che è il tema centrale della riflessione antropologica dell’ultimo scorcio del pensiero filosofico e scientifico della modernità. Esiste certo un linguaggio della mente ancor tutto da decifrare, esiste un processo di genesi e di pre-disposizione delle nostre facoltà cerebrali alla comunicazione diretta tra i soggetti che da sempre definisce è fonda l’idea stessa di uomo. Esiste infine nei rapporti tra mente e cervello un insieme di luoghi che fondano e costruiscono il linguaggio: probabilmente i richiami, i ricordi risiedono e si muovono in queste incerte terre di confine e, per ora, terre di nessuno. Per ricorrere ancora alla metafora, memoria e ricordi sarebbero così una sorta di piattaforma mediatica in grado di selezionare le informazioni e coordinarle in un discorso dotato di senso.  

Non molto ancora sappiamo del linguaggio della mente inteso come incubatore dell’azione comunicativa, ma percepiamo come evidente che il richiamo delle informazioni immagazzinate dalla memoria è un processo istantaneo e avviene in frazioni di tempo (pico, nano e microsecondi) non misurabili dall’esperienza grossolana e ingannevole dei nostri sensi. 

È, in altri termini, un processo capace di creare  automaticamente la simultaneità dei ricordi (i ricordi sono sempre “al  presente”) e organizzarli in un ordine razionale che da loro significato. E questo ordine è logos (discorso o ragionamento) verbo, esposizione (e rappresentazione), insomma linguaggio dotato di sue regole e sintassi, modi e tempi verbali che lo localizzano rispetto al soggetto. Probabilmente il tempo come espressione verbale nasce qui, in questo processo comunicativo interno ai rapporti tra mente e cervello per poi distendersi nel discorso come mezzo esclusivo della comunicazione umana. I modi e i tempi dei verbi che materializzano il corso temporale e gli danno una direzione probabilmente nascono qui. Un linguaggio che non ha verbi e tempo dei verbi non può rappresentare azioni e altro non è che intuizione istantanea impercettibile al pensiero umano.

 L’organizzazione in sequenza dei ricordi e il ritmo della loro successione è una procedura artificiale e razionale che dipende dalle modalità di codifica (elaborazione) delle informazioni raccolte dalla memoria e dalle sollecitazioni esterne che ne determinano il richiamo. In questo senso la simultaneità, che percepiamo e pratichiamo come “presente” e tempo “unico” dell’io crea, a sua volta, la necessità di misurare il tempo in un prima e in un dopo (nell’arco inizio/fine) dando origine a una infinita pluralità di canoni e di misure. In altri termini il presente istantaneo del ricordo genera il passato e il futuro “relativi” dell’ordine di successione di quell’insieme di segni, significati e simboli che sono i ricordi (ogni successione ha il suo ritmo, i suoi limiti temporali, il suo inizio e la sua fine, un prima e un dopo). Ed è la successione ordinata e razionale dei ricordi a realizzare ciò che chiamiamo evento. L’atto stesso del ricordo è la creazione di un evento.

I segni e del tempo.

Mai come oggi la parola “evento” è merce comune. Siamo immersi negli eventi, assistiamo a una proliferazione degli eventi, partecipiamo di continuo a eventi e tutte la professione del saper fare e della comunicazione hanno stabilmente inserito il ricorso a questa parola per descrive ampi settori dell’azione sociale. La realtà stessa ci appare null’altro che un insieme confuso e caotico di eventi. 

La necessaria premessa, per fare un passo avanti, è la constatazione che non vi è tempo senza eventi e, alla rovescia, non vi sono eventi senza tempo; e lo stesso vale per quella particolare dimensione del tempo che chiamiamo storia. Gli eventi (avvenimenti, accadimenti, fatti, oggetti, presenze) sono i segni del tempo, lo occupano, ne consentono la percezione e certificano il movimento di tutto quanto ci circonda. In qualche modo sono la struttura stessa del tempo, lo materializzano, ne possono forse svelare il segreto perché partecipano della sua sostanza, si formano, esistono e vivono per effetto delle sue misteriose proprietà. Gli eventi consentono la misura del tempo che tale non sarebbe se non svelasse la sua mobilità, il suo correre a velocità e in direzione molteplici. 

In prima approssimazione, anche se i confini tra questa due grandi generalizzazioni appaiono sempre più incerti, labili e interconnessi, possiamo dire che gli eventi o sono naturali o sono il prodotto di azioni umane. In entrambi questi ordini,  gli eventi misurano il moto del tempo e ne consentono paradigmi conoscitivi. E, in ogni caso, questa misurazione appartiene ai modelli di cultura che noi pratichiamo e gli eventi sono tali solo perché noi li percepiamo come manifestazioni di una particolare struttura temporale.

Anche sul concetto e definizione di evento, che sta la cuore della più recente riflessione dei saperi scientifici e filosofici, il rischio di perdersi in un labirinto è istantaneo nel solo fatto di richiamarli e introdurli nel discorso. Nella fisica contemporanea l’evento è una porzione del (e una presenza nel) continuo spazio-temporale. E l’evento è propriamente l’oggetto di studio specifico della fisica. Sul fronte del pensiero filosofico, l’evento invece e generalmente indicato con tutto ciò che accade in un certo luogo e in un determinato tempo. Si tratta di un approccio che proprio per effetto della sua genericità ha dato il via a complessi interventi di analisi e costruzione di paradigmi interpretativi che intrecciano l’evento con il concetto di fatto, dato, fenomeno. Quanto poi alla natura degli eventi (cosa essi siano e di quali proprietà godano) sono stati descritti sia come parti temporali degli oggetti, sia come sistemi di funzionamento del principio di causalità operanti in regioni spazio temporali.

Volendo seguire il percorso tracciato sin qui alla ricerca di una particolare dimensione della temporalità e fondato sul rapporto possibile tra memoria e ricordi potremmo definire l’evento come la rappresentazione e comunicazione di azioni in una frazione del tempo offerto della memoria e gestito dai ricordi nella sequenza prima e dopo, inizio e fine, sequenza che dà un significato e spiega l’evento in sé. Credo che questa proposta di definizione possa ricondurre a coerenza l’analisi e gli spunti interpretativi offerti in queste riflessioni.

questa successione è una struttura comunicativa, un discorso, il che implica automaticamente la misura o quanto meno un ritmo temporale. 

L’evento è una codificazione e interpretazione del ricordo

Ogni evento ha una sua struttura del tempo e ne certifica l’esistenza alla nostra coscienza. Per questa sua caratteristica ogni evento è il frutto esclusivo, irripetibile e momentaneo di una particolare elaborazione, rappresentazione, localizzazione dei dati dell’esperienza nel ricordo. La coerenza razionale tra il prima e il dopo, l’inizio e la fine, dà significato all’evento (lo costruisce come un sistema logico e razionale di segni) e lo rende comunicabile sia al soggetto che all’interlocutore per effetto del linguaggio della mente prima e del linguaggio umano poi.

La conoscenza e la comunicazione umana si fondano, per necessità biologiche e psichiche (e cioè linguistiche), sulla produzione, narrazione, trasmissione degli eventi come sequenze logiche e narrative sorrette dalla struttura del tempo (dal suo disvelamento); la creazione/narrazione degli eventi crea la temporalità e conferisce identità ai singoli e ai gruppi (svela e conferma l’essere nel suo persistere e mutarsi nel tempo).

Frutto di una particolare manipolazione del tempo, ogni evento (ogni ordine in successione dei ricordi) è il prodotto esclusivo della rielaborazione delle informazioni raccolte e delle circostanze che ne determinano il richiamo alla mente, ha un suo tempo, offre un significato e svolge una precisa funzione comunicativa. Ogni evento nasce dalla simultaneità del presente e genera una misura del tempo che organizza il prima e il dopo in una sequenza compiuta che ha un suo ordine razionale, un inizio e una fine.

 E così il tempo umanamente vissuto e consapevolmente percepito, è l’ordine nel quale si sviluppano gli eventi e quest’ordine è, in apparenza, una successione  di azioni che consentono la stabilità dell’io nel rapporto con le cose del mondo. Perché mettere o dare ordine, occorre ribadirlo, è una procedura e un imperativo di vita: significa in qualche modo resistere al disordine a al caos, all’entropia e alla dispersione della consumazione con le cose del mondo che minaccia la vita stessa. Senza un ordine degli eventi gli eventi non esistono neppure nella loro struttura che appunto altro non è che la temporalità nella quale noi li percepiamo. Senza eventi a noi rivelati dai sensi, custoditi dalla memoria e rieditati dai ricordi per poi essere comunicati non esiste identità e riconoscimento dell’altro e del mondo.

E poiché mettere in ordine gli eventi significa farne un discorso, comunicarli e raccontarli, rivolgiamoci dunque a un flusso ininterrotto di eventi a un formidabile laboratorio dei ricordi: un romanzo.

Robinson e Venerdì

Bisogna leggerlo, o rileggerlo (chi della mia aerazione non lo ha letto?). Questo romanzo, questo racconto senza trama, senza personaggi e intrighi, senza dialoghi, è un fiume inarrestabile dell’immaginazione, un soliloquio dell’Autore. Defoe non ha misura e non è chiaro quanto tempo abbia speso a inseguire  la corrente dei suoi pensieri, oggi però dobbiamo prendere atto che al lettore risulta difficile trovare il tempo che la lettura di un migliaio di pagine gli sottrae. Ma La vita e le strane avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio che visse completamente solo in un’isola… (il titolo per esteso è improponibile) fa sicuramente al caso nostro: è un testo che porta acqua a questa riflessione sul tempo e un laboratorio di misure che ci può avviare alla conclusione.

Una profezia, che definisce il campo temporale del racconto, un naufragio, un’isola deserta, un inizio. “Quel ragazzo potrebbe essere felice se restasse a casa” e questa è la profezia “ma se andrà in giro sarà l’uomo più infelice che sia venuto al mondo”. Segue puntualmente una tempesta e il naufragio su un’isola deserta che dispiega il tempo della profezia e mette in moto un inizio. Siamo al punto zero del tempo: gli orologi che lo estendono e gli danno forma scattano in rapida successione. Due giorni per la rimessa in moto dell’orologio biologico: Robinson riprende coscienza, è vivo e percepisce il regolare flusso dei suoi ritmi biologici. Tre giorni per valutare il suo personale rapporto col mondo che lo circonda e immaginarne la trasformazione: scatta l’orologio culturale. Tredici giorni per appropriarsi degli utensili contenuti nel relitto della nave naufragata e l’orologio tecnologico interviene a occupare e sospingere il tempo di Robinson. Prende il via il processo di colonizzazione dello spazio e del tempo dell’isola che non c’è: gli eventi si producono e susseguono, trovano ragione di concatenazione, interferiscono tra loro con anelli di azione e retroazione, divengono misure del tempo. Si sedimentano nella memoria e riemergono come ricordi. “E ora, dovendo incominciare la malinconica storia di una vita di silenzio, tale quale forse non fu mai udita al mondo, comincerò da principio e proseguirò per ordine”.

L’io narrante di questa prolissa epopea è lo stesso Robinson che, attraverso i ricordi, organizza la sua autopoiesi, l’autocostruzione e generazione di sé, in una confessione autobiografica. Robinson, nel cuore della solitudine e del silenzio, parla ad alta voce e si racconta; e l’ordine, appunto, è il suo racconto. In questo esemplare laboratorio dell’esistenza, tutto prende via via forma; l’azione si materializza in eventi, tutto accade e tutto viene immagazzinato, tutto è presente nella memoria che genera i ricordi e la comunicazione, la narrazione li iscrive in una successione che chiamiamo tempo.

Innanzitutto vi è un principio, una fondazione, un mito delle origini: l’affermazione di sé nella circostanza del mondo. “Cominciai seriamente a esaminare la mia situazione, e misi per iscritto la mia posizione, non tanto per lasciarla a chi fosse venuto dopo di me, il che non era probabile, quanto per liberare il mio pensiero. E poiché la ragione cominciava ad essere padrona del mio scoraggiamento, cercai di consolarmi al meglio”. A questa genesi seguono le “tavole della legge” che non sono comandamenti, ma una struttura sistemica binaria tra rischi e opportunità (definiti, da Robinson come opposizione tra bene e male) nel rapporto con le cose del mondo. “Cercai di consolarmi al meglio, opponendo il bene al male, per poter distinguere il mio caso da altri peggiori; e trascrissi con molta imparzialità, come il dare e avere in un libro mastro, le condizioni di cui godevo a fronte delle miserie che soffrivo in quel luogo e in quelle circostanze”. Detto e fatto. Mi trovo gettato su una orribile isola deserta, ma sono vivo  invece di essere morto. Sono stato diviso dal mondo, ma sono stato prescelto per essere salvato dalla morte. Sono separato dall’umanità, ma non mi trovo in un luogo sterile che non offra possibilità di nutrimento. Non ho vestiti, ma vivo in un clima caldo. Sono indifeso, ma non vedo bestie feroci. Non c’è anima con cui possa parlare, ma dalla nave ho potuto ricavare tutto il necessario per i miei bisogni.

A partire da questo codice, che non verrà mai abbandonato, prende il via il sistema di relazioni del soggetto con la sua circostanza e Robinson costruisce il programma di conoscenza-colonizzazione del mondo. Così, fin da subito, la sua apparente solitudine scompare in un insieme sempre più complesso di comunicazioni con il mondo che lo circonda. Il paesaggio gli parla, la vegetazione dell’isola diviene uno stabile interlocutore, il cielo gli svela i segreti del luogo e la meteorologia, la domesticazione degli animali crea ragioni ed emozioni e di socialità. E questo insieme di scambi confonde progressivamente il processo della conoscenza con quello della vita stesso: programmazione, improvvisazione, comunicazione, adattabilità. In questo laboratorio di azioni e interazioni dell’esperienza e dell’immaginazione, gli orologi biologico, culturale e tecnologico danno il via a una coevoluzione uomo-ambiente-mondo sorretta dalla costruzione di linguaggi. L’Autore insegue il tempo di Robinson. Tutto il tempo del mondo di Defoe e del suo protagonista è lì come una massa di energia in espansione: i ricordi creano gli eventi, gli eventi si cristallizzano in ricordi e questi interagiscono tra loro, si cumulano, si disperdono e si susseguono con il ritmo e la casualità propria di qualunque dialogo. Ma Robinson mette ordine. La sua prima ossessione è la data del naufragio, il punto zero della creazione: “fu, secondo i miei calcoli, il 30 settembre che misi piede su quell’isola tremenda”. È il tempo della cultura, il tempo condiviso che garantisce la sua identità. Robinson scrive un diario quotidiano dove tutti gli eventi passati, nel rapido fluire del giorno, vengono narrati al presente; poi con il fluire incontrollato dei ricordi codificati dalla memoria, a poco a poco, il diario si cancella in una narrazione che descrive tutti gli eventi presenti al passato.

Essi prevalgono sul tempo condiviso di cui il naufrago sembra perdere la cifra e il codice. Ma quando, dopo anni di solitudine, incontrerà un altro essere umano gli darà il nome di un giorno della settimana, Venerdì, “il giorno in cui gli avevo salvato la vita”. L’interfaccia di Robinson, il suo unico interlocutore è il tempo da ricordare e non dimenticare mai. Il tempo “passa”, passeranno ventotto anni sull’isola (almeno due ne passerà Defoe a raccontarli), ma il tempo di Robinson e il nostro è tutto qui che invade e si insedia in queste riflessioni. … codificazione scambio e comunicazione ………..

E allora, questa è la domanda, esiste davvero l’isola della disperazione, e il marinaio di York e Venerdì il suo compagno di vita? 

Ma certo che sì: siamo qui a parlarne. Per un fenomeno di autopoiesi i ricordi di Crusoe  e l’immaginazione di Defoe hanno generato gli eventi e questi il discorso con noi; nel nostro tempo, “qui e ora”, questo processo comunicativo ha, a sua volta, reso percepibile il mondo solitario e appartato dell’isola che non c’è. Ci siamo stati, l’abbiamo abitata fino a conoscerla nel suo paesaggio e nella leggi che ne definiscono e reggono la natura. Ora la ricordiamo e possiamo a nostra volta raccontarla.

La memoria delle esperienze di Robinson ha generato i ricordi e questi ricordi hanno codificato gli eventi e gli eventi sono stati  narrati in continuo nella sequenza del discorso. Il tempo che ci è pervenuto e ci ha messo in contatto con quel mondo è nel racconto e raccontare significa mettere in ordine le azioni nel tempo e nei tempi per poterlo scambiare, farlo interagire con latri tempi. 

La nuova pista che ci porta a Cronos può partire da qui: tempo, memoria, ricordi, racconto.

Mettere ordine e raccontare.

Che cosa è un racconto? Aristotile ne ha offerto una definizione che è fresca, immediata, evidente e regge anche ora: il racconto è una imitazione dell’azione. “L’imitazione dell’azione è il racconto, poiché chiamo racconto proprio questo: la composizione delle azioni”. Per una ricognizione non potrei che partire da qui, e poiché il terreno di indagine di Aristotele è la tragedia: il racconto è la rappresentazione di azioni sceniche e poiché “azione” nel significato comune indica il movimento, l’agire o le sue conseguenze, la loro imitazione atti, fatti, accadimenti, eventi. Per il costituirsi dell’evento scenico “la parte più importante di tutte è la composizione delle azioni”. E la tragedia “è imitazione non di uomini ma di azioni e di un’esistenza”. Ora si può andare un passa più in là.

La rappresentazione delle azioni (la plurale) è, infatti, un che di complesso, una trama, un sistema di relazioni e connessioni o, se si preferisce, un discorso e questo discorso genera l’evento, lo cristallizza, gli offre un significato. Per effetto di questa deriva interpretativa, ogni racconto è un’insieme di eventi la cui connessione costruisce una coerenza, ha un punto di inizio e una fine ciò che Aristotile chiamerebbe “un tutto”. “Ma il tutto è ciò che ha principio, mezzo e fine. Principio è quel che non deve di necessità essere dopo altro, mentre dopo di esso per sua natura qualche altra cosa c’è o nasce; fine al contrario è quel che per sua natura è dopo altro, mentre dopo di esso non c’è niente; mezzo poi è quel che è esso stesso dopo altro e dopo di esso c’è altro”. 

Il racconto però è una finzione, una rappresentazione, e traduce il termine latino re-ad-presentare: letteralmente ripresentare, rendere di nuovo presente. Insomma richiamare, ricordare.

Il racconto è un coerente insieme di eventi o rappresentazione di azioni che assumono significato per effetto della loro successione logica e temporale e della loro narrazione. Non vi è tempo senza eventi ma gli eventi si costituiscono nell’atto stesso della loro narrazione e comunicazione; è in questo istante che il nostro linguaggio crea un ordine e mette in ordine tracce, immagini, segni e simboli nascosti nella memoria. I ricordi allora compongono e dispongono le azioni e lo scambio che ne facciano genera la trama che stende la nostra esperienza che richiama a sé  richiama passato, presente, e tutti itempi del verbo.

L’insieme degli eventi crea ambienti virtuali nei quali si concilia la simultaneità con il moto delle azioni. Può apparire tortuoso, ma nel nostro linguaggio come nei modi di dire si percepiamo che “il tempo passa” e che, in qualche modo conoscere è ricordare, siamo anche convinti che “ricordare è avere presente”.

Ma quale è allora il tempo del racconto? Si può rispondere con Aristotele: è quello della tragedia, una dimensione dell’esperienza umana che non siamo più abituati a praticare o che pratichiamo senza consapevolezza.

Il tempo dell’azione tragedia è quello della comunicazione istantanea, della rappresentazione scenica degli eventi che genera scambi con tutti i tempi possibili e tutti li assorbe in un ordine momentaneo. Si può dire che è un presente assoluto perché appunto non è tempo misurabile, e tempo forse non è. È il “qui e ora” di una realtà alternativa, una finzione che è racconto, ma che è altrettanto vero per effetto della sua forza comunicativa. L’unità di tempo, di luogo e di spazio della rappresentazione fa della scena una sorta di campo magnetico dove tutto accade e crea una esperienza condivisa delle azioni e una compresenza tra attore e spettatore. Lo spettatore che assiste all’azione vive una realtà diversa da quella che sperimenta quotidianamente, ma che è altrettanto reale proprio perché la vive. L’atto teatrale, contemporaneo a quello di chi assiste, rende, infatti, possibile e reale qualsiasi evento imprevisto, come si percepisce nell’esperienza quotidiana. Il mito (il racconto), già noto nel suo sviluppo, crea il tempo della memoria all’atto della sua rappresentazione e per suo tramite (per effetto dello scambio comunicativo) si rigenera attraverso l’immaginazione e le emozioni dello spettatore in un tempo condiviso.

È questo il senso orfico e dionisiaco della tragedia. Nell’azione tragica tutti i tempi vengono richiamati, si confondono e si conciliano: la profezia annuncia l’evento che accadrà, il ricordo quello che è accaduto, ma tutto accade davvero in un simultaneo intreccio. È un campo magnetico della temporalità: la trama del racconto, dotata di ritmo e cadenza, che estende e da un senso all’esperienza. 

Torniamo ora sull’isola della disperazione che ci hanno raccontato l’immaginazione di Defoe e l’esperienza di Crusoe.

Oggi siamo nelle condizioni, a partire dai ricordi di Robinson-Defoe,  di realizzare davvero l’ambiente dell’isola, animarlo con la flora e la fauna, il clima, introdurvi gli eventi e interferire con loro. Siamo in grado di progettare e costruire una second-island  virtuale nella quale il nostro avatar può condurre una vita artificiale, realizzare oggetti e comunicare con loro e attraverso di loro. È un gioco, si sa, un prodotto dell’intelligenza artificiale, ma questo gioco suscita esperienze, emozioni, memoria e immaginazione per costruire altri ricordi, nuovi eventi. In questo mondo interattivo, che fa del romanzo di Defoe un’esperienza ancor più diretta in un tempo condiviso, potremmo introdurre misure e direzioni del tempo diverse, potremmo sovvertire l’ordine degli eventi, replicarli, ritornare la passato, rovesciare il futuro in infinite inversioni di marcia, il prima e il dopo, l’inizio e la fine. Un semplice esercizio di programmazione delle regole del gioco. In ogni caso noi siamo entrati nel mondo di Robinson, ne definiamo le leggi, facciamo esperienza, ricordiamo la nostre azioni e ci raccontiamo attraverso di loro. 

La funzione del racconto è quindi la conciliazione della azioni in una frazione di tempo virtuale nella quale si possono comprimere o dilatare e mettere in ordine

di tempi virtuali che consentono la misurazione del tempo e ne fissano il corso. La misurazione e il corso del tempo definita dalla sequenza successiva degli eventi lo rende percepibile e umanizza il tempo. 

Il significato del racconto è  il risultato della capacità di collegare gli eventi in un rapporto razionale di causa/effetto.

La narrazione è un processo di comunicazione degli eventi e dell’esistenza che essi certificano nella dimensione del tempo. In altri termini la narrazione è, anche e soprattutto a livello individuale, la più significativa percezione/costruzione della temporalità. La narrazione degli eventi che sono generati dalla simultaneità del ricordo è la nostra storia personale, il nostro tempo vissuto e spiegato, e questo tempo/esistenza/identità si connette automaticamente a quello degli altri nel processo comunicativo e di scambio realizzato dal linguaggio.

Lo scambio comunicativo dei racconti e dell’insieme di eventi, tra loro connessi dal rapporto di cause/effetto e dunque dotati di un significato, crea il sistema dinamico delle comunicazioni umane e procedure di scambio, assimilazione, replicazione, anelli di retroazione e feedback. La socialità, intesa come continuata scoperta e confronto con l’altro e, in qualche modo “ostaggio dei racconti” che materializzano il tempo e ne consentono la misurazione.

Nel sistema complessivo delle comunicazioni umane, fondato sulla (e ostaggio della) narrazione degli eventi, si crea così un cerchio virtuoso tra racconti individuali e percezione collettiva del tempo, tra storia personale e grande storia, tra racconti e metaracconti, che definisce i molteplici modelli delle culture umane e li fonda nelle pluralità dei tempi, nelle loro specifiche dimensioni e sostanze temporali. Per effetto di anelli di retroazione e di feedback  Il tempo umanizzato che chiamiamo storia è il racconto delle origini, del significato e delle spiegazioni dell’essere nel tempo. 

A questo punto la domanda è la seguente: l’uso dei tempi e dei modi dei verbi è una struttura consustanziale al linguaggio umano che genera artificialmente il moto del tempo e ne fissa la direzione? oppure è davvero il riflesso di una esperienza del mondo nel quale passato, presente e futuro si allineano per definizione in una necessaria successione? o ancora l’uso dei tempi verbali che limitano la produzione del tempo alla successione di un passato, di un presente e di un futuro non può essere interpretata come un mandato esclusivo di un certo modello di cultura?

E ancora. perché

Il paradosso delle origini.

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 (Il paradosso delle origini). Ma infine proprio questa plasticità del linguaggio e delle rappresentazioni che esso costruisce attraverso l’uso dei tempi, svelano un paradosso del racconto di ogni evento. Il paradosso è che in ogni racconto l’evento viene costruito a partire dalla sua fine in relazione al significato che deve comunicare. È lo scopo comunicativo, il fine e la fine di un evento che ne determina l’origine, il punto di partenza. In relazione alle circostanze, casuali e mutevoli, del nostro scambio con gli altri noi ci raccontiamo e raccontiamo storie che mettono in ordine i ricordi e li trasformano in eventi. L’inizio è sempre predeterminato, fissato in qualche modo a priori. È la fine che fonda l’inizio, il dopo che determina il prima. Ogni racconto è dunque una fondazione e un mito delle origini dell’evento stesso che si intende narrare. Nell’atto del raccontare noi usiamo le forme verbali come utensile del significato. Che poi ciò crei una concatenazione tra passato, presente e futuro questo è un problema che afferisce al linguaggio come prodotto della cultura umana e dei modelli di cultura che ha generato.

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Nella cultura umana il tempo vissuto (che interpretiamo come il moto della realtà) si manifesta come un insieme di eventi narrati/comunicati che danno significato e spiegano l’essere nella sua origine e nel suo mutarsi, trasformarsi, evolvere. Questi insiemi di rappresentazione temporali o sono elaborazioni individuali o collettive.

L’elaborazione individuale dei ricordi consente all’uomo la coscienza di sé come soggetto (consapevolezza del vivere e dell’esistere) in quanto ente fisico esito del processo biologico evolutivo connesso ai ritmi della riproduzione (vita e morte, inizio e fine); lo realizzano nel tempo degli eventi e costruiscono quella narrazione che gli conferisce identità (la storia personale o autobiografia, che è il racconto di sé). L’insieme degli eventi richiamati dal soggetto vengono di continuo manipolati e riorganizzati in successive narrazioni che modellano l’identità del soggetto in relazione (relativamente) alle circostanze esterne. Ogni narrazione di sé è, nel tempo, necessariamente diversa e giustifica il soggetto in funzione del suo presente. Da questo punto di vista noi siamo eventi e la nostra identità si costituisce a partire dalla narrazione che ci facciamo dell’insieme di eventi che di volta in volta costruiamo nel nostro presente. Un racconto.

La comunicazione degli eventi individuali e la loro socializzazione (scambio, selezione, organizzazione) creano poi insiemi collettivi e condivisi che conferiscono identità ai gruppi e alle organizzazioni definendo misure convenzionali del tempo. Ciò che chiamiamo storia o memoria sociale collettiva, sulla quale si reggono i modelli della cultura umana, altro non sono che  rappresentazioni condivise di frazioni di tempo organizzate nella successione di un prima e di un dopo, di un inizio e di una fine. Metaracconti.

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Il tempo incatenato.

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La cultura giudaico cristiana, monologica e monoteista ha espropriato il soggetto di ogni possibile racconto e lo ha confidato, una volte per tutte al Verbo, alle scritture sacre. La creazione ha definito il programma dell’esistenza, ne ha fissato un corso lineare, messo in ordine gli eventi nella sequenza passato, presente futuro e incatenato il tempo. (Il tempo incatenato), Un racconto imponente e coinvolgente nella sua forza proprio per il rassicurante succedersi degli eventi in una razionale coerenza senza discontinuità. Poi la cultura della modernità ha umanizzato il paradigma narrativo di questo mito facendo della Storia il racconto di tutti i racconti possibili e ingigantito a dismisura il fantasma di Cronos come un alterità e una presenza ingombrante. Figlio della Storia e anche della sua storia, l’uomo moderno è morto insieme al tempo del suo racconto. Oggi, oltre i confini della modernità, nuovi orizzonti del pensiero  e della conoscenza ci consentono di ascoltare innumerevoli orologi che estendono il tempo in una trama complessa e in molteplici direzioni.

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Metaracconti 

il mito racconta e genera gli eventi, la storia li incatena.

Il mito rispetta il tempo simultaneo della tragedia, il racconto storico e la storia lo deformano

Gli eventi fondanti della cultura umana sono i racconti delle origini dell’universo (cosmogonie). Ogni modello o paradigma di cultura ha un suo racconto condiviso, un suo mito (in greco mythos è l’atto stesso della narrazione) delle origini dell’universo e della sua dimensione temporale. Questo racconto spiega innanzitutto l’origine del tempo e dello spazio e si articola in una serie successiva di  insiemi di avvenimenti che generalmente spiegano la nascita dell’universo, l’apparizione della vita e poi quella dell’uomo mediante il ricorso ad azioni e simboli che costituiscono il primo principio (l’essere e il nulla, il caos primordiale, la lotta e il sacrificio, l’uovo cosmico, l’acqua, la terra, l’albero, ecc.). Il tempo vi si configura di volta in volta come un continuo moto, un ciclo di replicazioni, un moto sinusoidale, un susseguirsi di grandi frazioni temporali (ere, regni, mondi, universi, ecc.) dotate di ritmo e a volta di misure precise.

Di norma le religioni naturali consentono un basso grado di umanizzazione del tempo. Qui il “tempo naturale”, infatti, prevale su quello umano (individuale), lo assorbe e lo fa coincidere con i ritmi della natura e i miti fondativi certificano il sistema di equilibrio tra la specie e il complessivo dei viventi e dei fenomeni che ne dettano il tempo senza imporgli né il fine né una fine.

Il monoteismo giudaico cristiano ha imposto una visione radicale del tempo attribuendo all’origine dell’universo., l’origine stessa del tempo come tempo umano costruito su un principio, uno sviluppo determinato e misurabile, una fine. Qui la creazione è ordinata all’opera della Redenzione: in altre parole, lo scorrere del tempo trova il suo senso ultimo nella “storia” della salvezza dell’uomo inteso come oggetto privilegiato ed esclusivo della creazione stessa. L’ “evento” della creazione e dei suoi fini certi e programmati in virtù di un insieme di eventi successivi garantisce una struttura del racconto come ordine nel quale si susseguono gli eventi stessi. La temporalità diviene così  automaticamente “storia” dell’uomo creato e del suo “destino” cosmico. Per questo la sacra Scrittura, in quanto percezione del tempo collettivo, annuncia, insieme al principio (creazione), anche una «fine dei tempi», cioè la fine della “storia” umana in corrispondenza della quale avrà luogo la resurrezione dei morti e l’avvento definitivo del Regno di Dio (la gloria del Cielo e la beatitudine dei santi) in una dimensione estranea (alternativa) alla temporalità (l’eternità).

Fondata sulla narrazione esclusiva degli eventi umani (l’evento creazione di Adamo e poi l’evento/avvento di Cristo) storicamente misurabili, la cultura giudaico cristiana: 1) umanizza globalmente il tempo attribuendogli un inizio e una fine, 2) lo separa definitivamente dal non-tempo dell’eternità, 3) gli conferisce un programma (il disegno provvidenziale) di sviluppo lineare che garantisce l’ordine continuo nella successone degli eventi e la coerenza della narrazione. Come ogni struttura narrativa il metaracconti della cosmogonia giudaico cristiana principia dal suo esito finale (la fine dei tempi e della storia) che ne giustifica l’origine (la nascita del tempo e della storia). Il senso e il significato del racconto (il susseguirsi di insiemi di eventi tra loro connessi dal rapporto di causa/effetto) e l’estinzione setta del tempo come prodotto e manufatto della volontà creativa.  

Nel metaracconto giudaico il tempo umano creato coesiste con il non-tempo dell’eternità ed è, nei fatti, solo tempo storico, succedersi di eventi, tempo narrato dalle Sacre scritture. Il succedersi degli eventi è predefinito sia nel suo inizio (che è inizio del tempo e della storia) sia nella sua fine (che è fine della storia e del tempo e della storia). Nell’Antico Testamento Dio stipula un patto con un popolo scelto e tale evento fondamentale coinvolge tutta l’umanità in un disegno di conquista e fruizione del tempo che trova il suo principio nella creazione e la sua fine nello stabile dominio di una terra promessa (che è la causale del patto)  e ulteriormente, nella liberazione messianica definitiva e nell’avvento del Regno di Dio che è oltre i confini del tempo.

Il Nuovo Testamento certifica invece che «il tempo si è compiuto» e la liberazione messianica si è realizzata. Il patto del popolo con Dio per la conquista e il dominio del tempo diviene così un patto individuale che consente da un lato la conclusione del racconto nell’evento stesso della naturale vicenda umana (il ciclo vita e morte) e dall’atro l’infinita pluralità dei racconti e delle storie individuali nell’ambito della storia universale fissata dal disegno provvidenziale.

E così nel modello della cultura occidentale che affonda le sue radici nel racconto universalmente condiviso fino ai nostri giorni, la struttura del tempo si definisce sulla scorta di diverse percezioni e dimensioni della temporalità: 1) il non-tempo dell’eternità estraneo alla vicenda e alla percezione umana, 2) il grande tempo della storia umana intesa come programma e disegno provvidenziale predefinito nel ciclo dei suoi eventi, 3) infine il tempo del soggetto disponibile sull’arco dell’esistenza individuale in relazione al cilo biologico della specie. 

Il tempo che finisce …. 

Il tempo di queste riflessioni finisce qui. Il campo magnetico che ha generato e assorbito la sostanza temporale di questa narrazione si è esaurito: tanti caratteri, un certo numero di pagine e paragrafi, una struttura comunicativa predefinita, i limiti di ascolto del lettore, la stanchezza e il insorgere della noia dell’autore. Sono le regole del gioco della comunicazione, regole sempre mutevoli per effetto delle circostanze esclusive dalle quali il processo comunicativo ha preso il via. Ancora pochi minuti: un paio di cartelle per tirare il filo rosso di tutto il discorso, rimodellare il tempo, concentrarlo in un racconto del racconto. 

A rileggere queste pagine, mi rendo conto che la ricognizione è stata complessa e forse il risultato è disperso, tortuoso. A rileggere riemergono i ricordi da poco celati nella memoria, cerco di ricostruire, rielaborare, mettere in ordine. Ricordando il corso dei miei pensieri, automaticamente li rigenero in nuove dimensioni e in un ordine nuovo. La tentazione è quella di ricominciare da capo, ripercorrere tutto il cammino frase dopo frase, concetto dopo concetto. Ricostruire il dialogo con me stesso e con un improbabile lettore; comunicare meglio con me stesso e con lui. In realtà, comunicare qualcos’altro. Ma la rilettura è finita e basta così.

Se mi chiedo quanto tempo ho speso nella rilettura, non saprei cosa rispondere: non ho avuto tempo di pensare al tempo. Ma possiamo ripercorrere il battito degli orologi biologico, culturale e tecnologico, dai quali siamo partiti, alla rovescia. 

Il cronometro del computer mi dice che sono passati poco più di quaranta minuti. È l’orologio tecnologico: una misura che non mi appartiene. Un tempo imposto dalle circostanze “storiche” nella quali mi trovo a vivere il mio programma di vita. Se mi chiedo quanto tempo è passato per la scrittura di questo testo e generare questo evento; allora mi perdo in una pluralità di azioni del pensiero, di rappresentazioni e ricordi scomposti in infinite particelle. Non torvo un tempo, ma una ragione e un significato, un insieme di eventi e un evento in sé; e questo evento e quello della cultura e cioè un processo di conoscenza che ha imposto l’oggetto stesso della mia riflessione. È l’orologio culturale di una antropologia che ha radicato l’uomo nel tempo e ne ha fatto un prodotto e un oggetto della Storia. Un prigioniero condannato a inseguire una innaturale lacerazione tra passato, presente e futuro per collocare in successione i ricordi che fanno la sua identità. Se penso infine al mio orologio biologico, a quell’azione complessa che, per effetto di un sistema scambio tra un numero infinto di cellule, produce immaginazione, memoria, ricordi e definisce in ogni istante tutto l’insieme della mie relazioni col mondo, mi rendo conto che il tempo cambia di continuo tutte le sue proprietà e ogni possibile definizione per il solo fatto di essere osservato, evocato e misurato.

Il dialogo con Cronos è partito da qui e qui si conclude. Ricognizioni, divagazioni, nulla di più.

Ecco allora il estrema sintesi e a rischio di confondere in luogo di fare chiarezza, il filo rosso di questo percorso.

e per concludere …

Sono partito dalla indicazioni che oggi sembrano offrire le scienze dalla vita e le neuroscienze come piattaforma per un rinnovato scambio tra umanisti e scienziati in tema di approccio a uno dei temi centrali del pensiero occidentale: la temporalità e il conturbante, irrisolto, rapporto con il significato e la percezione del tempo. (Per cominciare … che cosa è il tempo?) Qui la prima evidenza è che oggi, per effetto dei supporti forniti dalla tecnologia, siamo andati ben oltre l’abituale percezione dei nostri sensi che ci appaiono sempre più limitati, grossolani e ingannevoli. Le scienze della vita e lo studio degli organismi viventi hanno svelato un pluralità di soggetti, azioni e tempi che nel loro costante interoccio e interazione hanno fatto implodere il tradizionale approccio con Cronos: la tradizionale trascendenza del tempo (la sua centralità il suo essere assoluto) è venuta meno. Insomma il Tempo ha perso la sua singolarità e la sua T maiuscola. 

(Natura, cultura, orologi) Oltre agli innumerevoli orologi biologici che collegano gli organismi viventi all’habitat terrestre, la nostra specie ha sviluppato orologi culturali e tecnologici che, con grande accelerazione, hanno modificato questo habitat e, su queste basi, il tempo da noi percepito può essere definito come una oggettivazione culturale tale da consentire la localizzare di eventi a cominciare da quello più immediato e significativo: la vita. (Orologi, ritmi, programmi) E proprio per questo da sempre noi percepiamo il tempo come una corrente, un flusso, un movimento dotato di un suo ritmo e di sue direzioni (linee, cerchi, sinusoidi), ma questo è più il riflesso dei modelli di cultura che abbiamo costruito con i nostri sensi (limitati e ingannevoli) che non adeguato approccio alla realtà. A fronte della complessità di funzionamento degli infiniti orologi del mondo, questo flusso di energia sembra essere un sorta di campo magnetico delle possibilità, probabilità, strategie del programma di autoconervazione e replicazione che chiamiamo vita. La percezione del tempo, quindi, altro non sarebbe che un’interfaccia (una usabilità) di questo programma, una oggettivazione culturale costruita dalle nostre facoltà biopsichiche, una risorsa per estendere la nostra coscienza e una flessibile strategia della nostra coscienza generata dalla specificità del nostro essere nel mondo. Per effetto delle specificità della “natura” umana, l’orologio biologico, quello culturale e quello tecnologico lavorano insieme in una costante programmazione, improvvisazione, rigenerazione e adattabilità del moto che confonde ogni confine tra soggetto e oggetto e segna l’evento momentaneo dell’esistenza. 

(Vivere e ricordare) L’esistenza diviene allora un campo di continua progettazione e programmazione della identità intesa come momentanea codificazione del libero fluire dell’esperienza, produzione e consumo continuato di temporalità. Insomma un prodotto instabile dei ricordi. Oggi si è giunti alla conclusione che, proprio perché esiste nel mondo, l’uomo non è un prodotto del tempo e neppure vive nel tempo, ma è il tempo in sé e la sua misura insieme. Gli utensili di attivazione di queste procedure di programma zione/estensione della coscienza risiedono nel complesso scambio tra mente e cervello e, per consolidata opinione, nel cerchio virtuosa delle reazioni e interazioni tra memoria e ricordi. (Ricordare e spiegare). Per spiegare l’intreccio e il funzionamento di queste procedure sono ricorso alla metafora suggerita dall’intelligenza artificiale, oggi di gran moda. (Memoria e tempo umanizzato). Ho definito la memoria come una piattaforma mefitica e, a partire da questa metafora, la memoria sarebbe un hardware (un media, un mezzo, un insieme di circuiti materiali), i ricordi invece sarebbero un software ( un programma, un sistema attivo e dinamico di banca dati, di contenuti immateriali) in grado organizzare e gestire informazioni in virtù dell’immaginazione.

Per quel che sappiamo i ricordi sono richiami simultanei e sincronici dei tracciati dell’esperienza che l’immaginazione, intesa come capacità cognitiva della mente umana, raccoglie e mette in ordine in infinitesime frazioni di azione. (Ricordare e comunicare). Mettendo a profitto il campo semantico della metafore, i ricordi possono essere definiti come ambienti virtuali nei quali si compongono segni e simboli e si rappresentano azioni (fatti, eventi) che memoria e immaginazione costruiscono e il cui obbiettivo strategico è quello di certificare il nostro rapporto (relazione) con le cose del mondo e la nostra mutevole posizione rispetto ad esse.  E quando, per effetto delle circostanze proprie della nostra esistenza nel mondo, i ricordi riaffiorano e prendono forma, si solidificano e replicano, con ogni probabilità assistiamo a una sorta di “riedizione” di circostanze già vissute nel nostro spazio e nel nostro tempo. Nei fatti, i ricordi rigenerano istantaneamente il tempo e in questo senso lo creano.

Ma i ricordi sono precisamente dei ri-conoscimenti (rielaborazioni, ricodificazioni, interpretazioni) delle nostre esperienze e questo ri-conoscere è un processo comunicativo: i ricordi comunicano con noi e ci comunicano esperienze rigenerandole. Infine i ricordi sono strutture complesse e mutevoli della temporalità. L’organizzazione in sequenza dei ricordi e il ritmo della loro successione è un processo creativo dell’intelligenza (non saprei come definire altrimenti) che dipende dalle modalità di codifica (elaborazione) delle informazioni raccolte dalla memoria e dalle sollecitazioni esterne che ne determinano il richiamo. L’esito di questo processo è ciò che chiamiamo evento.

Ho definito quindi l’evento come la rappresentazione e comunicazione di azioni in una frazione del tempo offerto della memoria e gestito dai ricordi nella sequenza prima e dopo, inizio e fine, sequenza che dà un significato e spiega l’evento in sé. (I segni e del tempo) . Gli eventi sono i segni e il significato del tempo, lo occupano, ne consentono la percezione e certificano il movimento di tutto quanto ci circonda. Ma sono segni nel senso semiotico del temine e cioè unità comunicative che rinviano a un contenuto e ne permettono l’interpretazione. Sono elementi costitutive del nostro linguaggio perché noi comunichiamo attraverso gli eventi che costruiamo in forza dei nostri ricordi e scambiamo con gli altri oggetti del mondo.  In qualche modo sono la struttura stessa del tempo, lo materializzano, ne possono forse svelare il segreto perché partecipano della sua sostanza, si formano, esistono e vivono per effetto delle sue misteriose proprietà. E nell’isola deserta immaginata come scena di una esperienza di vita di un naufrago isolato dal mondo, Defoe ci ha offerto un laboratorio di analisi del modello da me perseguito. (Robinson e Venerdì).

La memoria delle esperienze di Robinson Crusoe ha generato i ricordi e questi ricordi hanno codificato gli eventi e gli eventi sono stati  narrati in continuo nella sequenza del discorso. Il tempo che ci è pervenuto e ci ha messo in contatto con quel mondo è nel racconto e raccontare significa mettere in ordine le azioni nel tempo e nei tempi per poterlo scambiare, farlo interagire con latri tempi. 

Ed ecco un nuovo precorso: le interazioni tra memoria, ricordo, evento conducono al racconto e a quell’agire comunicativo che è la narrazione. (Mettere in ordine e raccontare). Il racconto è un coerente insieme di eventi o rappresentazione di azioni che assumono significato per effetto della loro successione logica e temporale e della loro narrazione. Non vi è tempo senza eventi, ma gli eventi si costituiscono nell’atto stesso della loro narrazione e comunicazione; è in questo istante che il nostro linguaggio crea un ordine e mette in ordine tracce, immagini, segni e simboli nascosti nella memoria. I ricordi allora compongono e dispongono le azioni negli eventi e lo scambio che ne facciano attraverso il discorso genera la trama che stende la nostra esperienza che richiama a sé  passato, presente, futuro e tutti i tempi del verbo.

E così il tempo diviene una delle regole del gioco che ci consentono di comunicare e interagire con le cose del mondo, di abitarlo e rimodellare il programma della nostra esistenza (la nostra instabile e mutevole identità), istante per istante, racconto dopo racconto. È la plasticità del linguaggio garantita dal ticchettio degli orologi cultural e tecnologici con i quali coevolve la nostra specie e che ci consente una continuo rigenerazione. (Il paradosso delle origini). Ma infine proprio questa plasticità del linguaggio e delle rappresentazioni che esso costruisce attraverso l’uso dei tempi, svelano un paradosso del racconto di ogni evento. Il paradosso è che in ogni racconto l’evento viene costruito a partire dalla sua fine in relazione al significato che deve comunicare. È lo scopo comunicativo, il fine e la fine di un evento che ne determina l’origine, il punto di partenza. In relazione alle circostanze, casuali e mutevoli, del nostro scambio con gli altri noi ci raccontiamo e raccontiamo storie che mettono in ordine i ricordi e li trasformano in eventi. L’inizio è sempre predeterminato, fissato in qualche modo a priori. È la fine che fonda l’inizio, il dopo che determina il prima. Ogni racconto è dunque una fondazione e un mito delle origini dell’evento stesso che si intende narrare. Nell’atto del raccontare noi usiamo le forme verbali come utensile del significato. Che poi ciò crei una concatenazione tra passato, presente e futuro questo è un problema che afferisce al linguaggio come prodotto della cultura umana e dei modelli di cultura che ha generato.

La cultura giudaico cristiana, monologica e monoteista ha espropriato il soggetto di ogni possibile racconto e lo ha confidato, una volte per tutte al Verbo, alle scritture sacre. La creazione ha definito il programma dell’esistenza, ne ha fissato un corso lineare, messo in ordine gli eventi nella sequenza passato, presente futuro e incatenato il tempo. (Il tempo incatenato), Un racconto imponente e coinvolgente nella sua forza proprio per il rassicurante succedersi degli eventi in una razionale coerenza senza discontinuità. Poi la cultura della modernità ha umanizzato il paradigma narrativo di questo mito facendo della Storia il racconto di tutti i racconti possibili e ingigantito a dismisura il fantasma di Cronos come un alterità e una presenza ingombrante. Figlio della Storia e anche della sua storia, l’uomo moderno è morto insieme al tempo del suo racconto. Oggi, oltre i confini della modernità, nuovi orizzonti del pensiero  e della conoscenza ci consentono di ascoltare innumerevoli orologi che estendono il tempo in una trama complessa e in molteplici direzioni.  

… e il tempo liberato

Diciamo che il Tempo esiste perché noi viviamo nel tempo. Ma dire che esiste non significa nulla perché non ne definisce le proprietà e non lo rende conoscibile. Anche dire che noi viviamo nel tempo non significa nulla perché è la vita, evento incerto e momentaneo, a prevalere sul tempo e definirne in qualche modo la sostanza e la funzione attraverso i ricordi e la loro narrazione che li trasforma in eventi. Forse dovremmo rinunciare all’idea stessa di tempo come oggetto di indagine perché, così pronunciato, perde di dimensione e si confonde con un continuo e una presenza, l’eternità, che è assenza di tempo. E se accettiamo l’assunto che l’Essere è il Tempo, dovremmo rinunciare all’Essere e limitarci semplicemente a vivere nel mondo, esserci davvero. Forse per vivere davvero e comunicare con tutte le circostanze del mondo e tutti i tempi che esse generano e praticano, dovremmo anche rinunciare all’idea di passato, presente e futuro come un canone necessario e coerente per spiegare il cammino dell’umanità. Questo rigido canone, che chiamiamo Storia, questo tempo condiviso frutto di un orologio culturale e tecnologico che ignora ogni altro tempo e il tempo degli altri, rischia infatti di imprigionare gli eventi e sottrarli alla nostra libera creazione e interpretazione. Si tratta, invece, di ricondurli alla loro funzione di strategia momentanea di scambio con le cose del mondo. Liberarci insomma del nostro tempo e liberare il loro tempo se davvero vi è. 

Dialogare con Cronos ha significato proprio liberarlo da se stesso, rinunciare al mito (al racconto) di un dio del Tempo signore delle sue leggi, rinunciare  e ricondurlo a noi in tutti i ricordi, gli eventi e le storie che, senza ordine e gerarchia, genera, in ogni istante del pensiero e della coscienza, il nostro essere simultaneo con tutte le cose del mondo.

Queste conclusioni, se poi davvero sono tali, possono apparire esoteriche o deludenti. Nessuna rivelazione definitiva, nessuna scoperta, solo un segmento di ricerca, nessuna verità. Ma forse deve essere proprio così e forse è questo il vero volto di Cronos. 

Homo sapiens non è immortale, non è fatto per volare nello spazio infinito, non può sopravvive a mille metri nella profondità negli oceani e non può respirare a diecimila metri sopra il livello del mare. Il suo destino non è la scoperta della verità e neppure l’onniscienza, non il dominio del mondo mediante un processo di innalzamento e continuata celebrazione dell’io. La Storia dell’umanità, l’ininterrotta catena di tutti gli eventi del mondo è solo un imperativo culturale, una momentanea strategia di vita, che si costituisce nell’istante di ogni ricordo, e ogni racconto contiene tutta la storia dell’umanità senza un prima e un dopo.  L’uomo non ha in sé né un principio di verità, né una stilla di eternità e la sua ricerca del Tempo è mutevole di stagione in stagione. Per questo è disagio nel mondo e la sua fatica è la scienza, la ricerca continua di quell’insieme di rapporti col mondo che gli consentano di adempiere alle funzioni essenziali di autoconservarsi, rigenerarsi, replicarsi e resistere al disordine e alla dispersione che lo minaccia. Poi, a un certo punto, il tempo finisce.

Per fare un passo oltre è necessario superare i confini della specie, rifondare una antropologia, dare corso a una creazione.

Sono adeguate queste argomentazioni e queste conclusioni per chiudere il nostro dialogo con Cronos? In questo momento, quello nel quale scrivo le ultime parole, sicuramente sì, perché il tempo è finito.

Milano – 2008 – febbraio