“Oh mia patria, sì cara e perduta”

Un’alluvione minaccia il Bel Paese. È l’alluvione editoriale di opere, studi, ricerche, revisioni, riscritture e riletture della storia patria: l’anniversario dei 150 anni dell’Unità nazionale che, per ora, si profila all’orizzonte del 2011 come un coro di voci incerte e discordanti. Sarà compito degli storici far sì che queste celebrazioni non siano un luogo di culto dell’oleografia ottocentesca, ma una palestra dello spirito critico sulle ragioni e sul perché dell’esperienza unitaria. E la prima domanda è: esistono ancora nel Bel Paese le condizioni per la libertà della critica e del pensiero? Esiste ancora la possibilità che presente, passato e futuro si intreccino in una coerente lezione di realtà? La lectio magistralis tenuta da Barenboim in occasione della Prima della Scala, e offerta al mondo, sull’emergenza di un disastro della cultura nazionale offre una prima risposta a questi interrogativi. Occorre ascoltarla e riascoltarla con attenzione. Ma è proprio ascoltandola che sorgono altri interrogativi.

     Anniversario di che? E quali celebrazioni? Ma davvero vogliamo raccontarci ancora la storia del Bel Paese, e quale storia poi? Il Capo dello Stato auspica che a primavera del 2011, in occasione del culmine delle celebrazioni, vi sia almeno un governo nella pienezza dei suoi poteri. Il sito ufficiale delle celebrazioni è lì da vedere: uno zibaldone di scartoffie burocratiche e una galassia di eventi confusi. Il Comitato dei garanti suscita perplessità prima, poi (ad approfondire la presenza in rete dei singoli componenti) depressione. La lettura dei verbali disponibili genera imbarazzo e disagio. Il tutto meriterebbe certo un approfondimento, ma ne vale la pena? La domanda è legittima perché, alla fine, questa incerta rete di propositi, progetti e buone intenzioni non fa breccia, non è oggetto di alcun interesse e non ha suscitato a livello mediatico nessun interesse. E si capisce. Il Bel Paese è altrove, nel suo presente sofferto e in un incerto futuro che ogni giorno divora il passato.

     Inutile dirlo, la sfera del pensiero e dell’agire politico di tutta una classe dirigente che ingombra ossessivamente i mezzi di comunicazione e ne ha conquistato il monopolio esclusivo, emana un odore di fogna e un sapore di feccia che neppure le celebrazioni di 150 anni di storia riescono a dissipare. La distanza dall’ “Italia ‘61” che celebrò la rinascita morale e il “miracolo” sembra ormai millenaria. Le icone del presente del Bel Paese, agli occhi del vivere quotidiano e al cospetto del mondo, sono i miasmi della spazzatura nazionale che dalla Campania dilagano su tutto il Paese. Sono gli arresti a ripetizione di camorristi e mafiosi, l’intreccio inestricabile di politica, affari, illegalità, corruzione e abuso delle istituzioni. Si direbbe che questo ciclo della vita repubblicana stia per finire nella sporcizia e per la sporcizia. Puttane,  lenoni, tangenti, degrado, frantumazione, volgarità, violenza e fango. Il fango che inghiotte Pompei e gran parte del paesaggio che ci circonda.

     Anche quanto resta della società civile e della cultura non pare in grado di generare anticorpi al processo di dissoluzione o più semplicemente di generalizzata “sfiducia”. Siamo al limite? Alla soglia del mutamento? Alla fine del grande racconto della storia patria? Ma poi alla fine di che?

     A guardar bene, a ripercorrere l’oceano storiografico cumulato in 150 anni di studi e ricerche si può forse scoprire che questa fine è sempre stata annunciata, infinitamente ripetuta come un canovaccio della commedia dell’arte, una ballata, un canto popolare.

     Più di recente, nel corso dell’ultimo ventennio e cioè il nostro presente, alcuni cantastorie, che chiamiamo cantautori, hanno riproposto la trama e l’ordito di questo racconto. I temi e le metafore sono ricorrenti, familiari. Li abbiamo sentiti e risentiti e li conosciamo bene. Ascoltiamoli ancora perché forse costituiscono un palinsesto del comune sentire, una testimonianza e una “fonte”, forse umile e non paludata ma non secondaria, per celebrare questi 150 anni che non passano mai.