l dottor Sergio Marchionne, la più recente meteora nel panorama delle eccellenze nazionali, ha raccontato la storia del futuro possibile del Belpaese in occasione di un intervento presso la Alma Graduate School di Bologna, una lectio magistralis a beneficio di studenti destinati a ruoli di primo piano nelle organizzazione imprenditoriali. Un luogo prestigioso e appartato, una comunità di alti studi, esperienze e impegno che si configura come un laboratorio del futuro possibile e costituisce una delle finestre aperte alla storia del Belpaese ancora da scrivere. Di questo intervento, l’autore, ha dato notizia direttamente in un editoriale del quotidiano La Stampa che racchiude, in sintesi, le strutture forti della sua narrazione. La lettura del testo solleva qualche curiosità e suscita un certo imbarazzo.

La diagnosi del Belpaese: un Paese “del fare”! – Leadership: la parola d’ordine che ci salverà –  “leadership è un futuro migliore” – Un pensiero povero, un universo ristretto

La diagnosi del Belpaese: un Paese “del fare”!

Di storie se ne raccontano tante perché di queste viviamo nel nostro scambio comunicativo, e i nostri racconti, prodotti dell’immaginazione, riguardano tutti i tempi possibili: il passato, il presente, il futuro Il futuro storico, infatti, si costruisce a partire dal presente, è una sfida e un’epopea individuale e collettiva, un racconto che si fa ciascuno di noi sul suo tempo a venire. E il dottor Sergio Marchionne, la più significativa meteora nel panorama delle eccellenze nazionali, ha di recente raccontato la sua storia del futuro possibile del Belpaese in occasione di un intervento presso la Alma Graduate School di Bologna, una lectio magistralis a beneficio di studenti destinati a ruoli di primo piano nelle organizzazione imprenditoriali. Un luogo prestigioso e appartato, una comunità di alti studi, esperienze e impegno che si configura come un laboratorio del futuro e una delle finestre aperte alla storia del Belpaese ancora da scrivere. Di questo intervento, l’autore, ha dato notizia direttamente in un editoriale del quotidiano La Stampa che racchiude, in sintesi, le strutture forti della sua narrazione. La lettura del testo solleva qualche curiosità e suscita un certo imbarazzo.
      La storia che Sergio Marchionne si racconta, e ci racconta, di quello che oggi è il sistema paese non offre, all’apparenza, ragioni di commento: è una storia generalmente condivisa perché raccontata in infinite varianti: il declino, il ripiegamento e una crescente distanza dalla grande epopea della globalizzazione capitalistica che fa la storia del presente e dell’immediato futuro a livello planetario. I dati sono lì da vedere: “siamo la 118°, su 132 paesi, per quanto riguarda l’efficienza del mercato del lavoro; siamo al 48° posto per quanto riguarda la competitività, in coda a tutti paesi industrializzati, dietro anche a quelli minori”. Dati ai quali se ne sarebbero potuti aggiungere altri che ne fanno il contorno e in parte li spiegano. Ed è il solito rosario ripetuto da circa un ventennio: il declassamento sul piano della ricerca e sviluppo da parte delle PMI, la fuga dei ricercatori, il precariato inteso come ricorso a mano d’opera a basso costo, l’impoverimento delle famiglie e del risparmio privato, il modesto grado di innovazione sociale e politica, un governo che non governa, l’immobilismo corporativo a tutti i livelli, lo sfacelo istituzionale, l’emergenza della illegalità, il dilatarsi della distanza tra pochi ricci e un paese sempre più inoverito, e così via. Questa storia del presente è nota e non fa più notizia né racconto. E il futuro?
      Qualche contributo in più avrebbe potuto essere offerto, se non fossero parole in libertà, da una diagnosi sulla struttura stessa del Belpaese offerta dal’autore che tuttavia è d’occasione e ben si iscrive nella retorica del Centocinquantenario. Ascoltiamolo.
      “Il nostro Paese è conosciuto per la creatività, per la sua cultura, per la sua storia. È visto come il Paese delle idee. Ma tutto ciò non basta. Dobbiamo essere conosciuti come il Paese del fare” ! e il punto esclamativo ce lo metto io. Non è finita, ecco la ricetta e la leva per aprire le porte al futuro: “Dalla situazione di oggi ne possiamo uscire ritornando a quell’idea di origine, nata negli anni della costruzione dell’Italia. Un’idea che prende le mosse dalla fiducia nella nostra Nazione e in una società capace di riscoprire i motivi della propria unità e di realizzarsi, invece di approfondire quelli della propria divisione e cadere. Questo è il senso profondo che dobbiamo ritrovare”.
      Viste le disponibilità personali e aziendali dell’autore, ci si sarebbe potuto aspettare, da parte dell’ufficio pubbliche relazioni e degli addetti stampa, un più competente intervento di supporto alla persona dell’Amministratore Delegato della più grande azienda del nostro sistema produttivo. Creatività, cultura, storia, origine, unità, nazione, sono un dizionario vecchio e mal gestito, parole in libertà senza sintassi.
      Ma, inutile dirlo, al di sotto di queste banali approssimazioni il racconto riprende forza e divine parabola.

Leadership: la parola d’ordine che ci salverà

Oltre le recriminazioni e il declino c’è anche un’Italia che conosce “processi di crescita straordinaria”, e il modello di questa Italia latente è un “gruppo di leader”, “persone coraggiose con il gusto della sfida e la voglia di creare il proprio futuro” e cioè la Fiat nella persona e nelle persone di chi la guida e la conduce nel vasto mondo verso il futuro.
Questa celebrazione del modello Marchionne-Fiat è, da qualche tempo, ragione di ampio e contrastante dibattito, persino di tensioni e incomprensioni politiche e sociali. La letteratura, le illazioni, gli interrogativi e il chiacchiericcio è abbondante e ogni osservatore sa bene che la storia della FIAT di questo leader e del suo gruppo dirigente è una storia ancora tutta da scrivere nel suo epilogo e nei suoi risultati finali.
Ma la storia raccontata da Sergio Marchionne ai giovani manager dell’Alma graduate School comincia qui ed è una storia del futuro e del successo già in buona parte scritta perché fondata sulla rivelazione della forza che muove il mondo e ne fissa il cammino: la leadership.
      L’assunto non detto, perché del tutto implicito alla parabola, è che ogni organizzazione umana, per essere tale, esprime un leader che costituisce la ragione e il motore della sua crescita e del suo sviluppo.
      “La leadership si basa su quei principi che sono parte integrante della nostra filosofia aziendale: lo spirito competitivo, l’affidabilità, l’integrità, la velocità di decisione, la passione e l’energia nel raggiungere i risultati. E racchiude anche i valori che riteniamo essenziali alla gestione delle persone: la trasparenza, il senso di responsabilità, la condivisione dell’informazione e dei meriti, l’impegno a far crescere gli altri e trattare tutti con dignità ed equità. Solo l’insieme di questa qualità può definire un leader”. E ancora, “riflettere sulla leadership nel momento che stiamo vivendo, impone di andare oltre i confini aziendali e di adottare una visione più ampia. Uno degli elementi più importanti dell’essere leader, al giorno d’oggi, è la coscienza di trovarsi in una fase di discontinuità storica”. Sarebbe infine su queste fondazioni teoriche che hanno il tratto delle rivelazione che dovremmo dare corso “a ridisegnare il nostro paese intorno ai principi su cui è nato”. Mah! Non ci sono parole, e le uniche possibili sono quelle che fanno il titolo dell’intervento: “leadership è un futuro migliore” ? e qui il punto interrogativo lo metto sempre io perché sull’assunto/rivelazione l’autore non sembra disposta a trattare, non vi sono dubbi, sfumature.

“leadership è un futuro migliore”

Che cosa mai voglia significare questo slogan non si capisce e non è dato sapere. Ma certo il “futuro” immaginato così, se non minaccioso, rischia di essere incerto e raccontarlo diviene impossibile.
Il modello, per quanto confuso, è quello di un nuovo principe/profeta/martire/guerriero fuori e oltre il mondo, ma anche fuori di testa: “il vostro impegno va oltre un semplice dovere professionale. Se c’è un’essenza nella leadership è proprio questa. Assumere su di sé l’obbligo morale di fare, di partecipare al processo di costruzione del domani”, questo il messaggio esclusivo e innovativo riservato ai giovani manager che consente infine di valicare il solco tra presente futuro. Ci si sarebbe potuto aspettare, dato il luogo e le circostanze una lectio magistrali di economia o scienza economica, ma l’intervento va oltre, mira in alto e sfiora la filosofia morale.
      “Nel vostro cammino ci saranno tante porte e dietro di esse ci saranno tante cose che possono cambiare voi stessi e la vostra vita. Ma le potrete riconoscere solo se avrete abbracciato l’abitudine di apprezzare tutto ciò che potrà capitarvi. Cercate quindi di andare oltre quello che già conoscete, riempitela di stimoli nuovi, arricchitela di interessi diversi, apritela a qualunque cosa si stacchi dal consueto. Se saprete preparare la vostra mente ad accogliere il nuovo e lo sconosciuto, allora sarete aperti a tutto ciò che la vita vi potrà offrire”. E non poteva mancare il tocco finale alla filosofia di vita e di azione che segna il tempo a venire: “apriti sesamo!”. “La vita è troppo corta perché il suono e i colore delle giornate siano determinati dalla ristretta visione dei nostri occhi. Chi non è in grado di vedere prospettive diverse, di ascoltare opinioni differenti, di andare oltre la propria limitata esperienza, perde l’opportunità di vivere con pienezza”.
      E sarebbe all’autore di simili affermazioni a cui sono affidati i destini di decine di migliaia di lavoratori destinate alla catene di montaggio? Come è possibile ragranellare un simile insieme di corbellerie in una testimonianza di vita a beneficio di studenti di eccellenza che alle loro spalle dovrebbero avere studi severi e rigorosi? E da dove viene questo insieme stantio di luoghi comuni?

Un pensiero povero, un universo ristretto

Il senso di questa lezione/parabola è chiaro: il futuro è di chi comanda e il leader, come il manager, è chi modella il futuro, lo maneggia e lo domina a suo beneficio. La libertà altro non è che capacità competitiva e conquista di posizioni dominanti. L’universo nel quale questa azione sociale si sviluppa è l’azienda, un organizzazione fondata appunto, secondo l’Autore, sulla leadership; un cerchio che si chiude da sé: il leader crea l’azienda, l’azienda crea a sua volta il leader. Nulla di nuovo rispetto alle trite teorie del vecchio scientific management e dei più recenti paradigmi che pullulano nella foresta delle discipline aziendaliste, dalla teoria dell’organizzazione e alla gestione delle risorse umane. Un universo di sapere ristretto, un sottoprodotto della scienza economica giunta ormai al suo crepuscolo. Ma l’azienda anche se multinazionale, sovranazionale, transnazionale non può essere assunta a paradigma esclusivo dell’organizzazione sociale. Il mondo/azienda non c’è, come non esiste lo stato/azienda o il partito/azienda è alla fine le imprese produttive altro non sono che cellule dai confini ristretti, dagli orizzonti angusti e dalle strategie incerte. Il mondo vero, quello che incontriamo ogni giorno sta altrove e lo certifica la crisi complessiva e irreversibile di un modello di sviluppo che è stato loro affidato e oggi denuncia tutti i suoi limiti. Il futuro è altrove.
      La parabola dei Sergio Marchionne (4/6 milioni di euro annui di emolumento) fa pensare che questa “leadership di gruppo” destinata a forgiare il futuro e ad aprirsi le porte del potere altro non sia che una consorteria ristretta, un partito unico di un potere cresciuto all’insegna della omnimercificazione del modo al quale ha dato luogo la politicizzazione dell’economia realizzata dal capitalismo nel corso di almeno tre secoli.
Per questo la storia che questa parabola ci racconta è vecchia, perché il totalitarismo del pensiero economico/aziendale sembra destinato a portare, nel tempo, alla morte dell’economia stessa. Qui si smaschera l’assurdità di un modo e di un pensiero per il quale il successo economico è al tempo stesso un mezzo e un fine e con ciò si celebra il vuoto stesso della vita, perché la vita vale solo se la moneta è impotente a stabilirne il prezzo.